Vi abbiamo già presentato questo festival, e per farlo abbiamo affrontato un veloce, ma molto denso, tour della storia del clubbing in Croazia dalla seconda metà degli anni ’80 ai primi del 2000. Lo abbiamo fatto anche perché chi ha organizzato il Moondance, Pero Brčić – in arte Pero FullHouse, ultimamente anche sotto lo pseudonimo di Skeptik – è stato parte integrante di questa storia. E ci premeva indagare un passato rivelatosi molto nobile e pieno di fermento, sconosciuto a molti in Italia, ma che alcuni tra voi survivors ci hanno comunicato quasi commossi di aver vissuto, in un modo o nell’altro, in prima persona.
Moondance, danza lunare, è nel senso di “danze sotto la luna”? – ci si chiede di primo acchito leggendo il nome del festival. In effetti sì, trattandosi di una 3 giorni di dj set e live techno ambientata all’interno della fortezza Kamerlengo, nella splendida località marittima dalmata di Trogir (Traù in italiano), quindi con il cielo stellato sopra le teste e la luna a vegliare sui festaioli, tutta compiaciuta. Nelle tre notti trascorse nella fortezza abbiamo però deciso che il nome “Moondance” fosse soprattutto da ricollegare alla dimensione di “spazio lunare” creatasi tra le alte mura medievali del fortino. Ma di questo ne riparlarleremo tra qualche riga.
Torniamo invece a Trogir, provando a spiegarvi cosa significhi trascorrerci qualche giorno. Innanzitutto, c’è da dire che il Moondance, non essendo un festival grosso, ha la caratteristica di poter iniziare alle nove di sera, dando così al suo pubblico la possibilità di godersi almeno un po’ di vita di mare pre-serale, chiamiamola così.
Noi, da questo punto di vista, ce la siamo innegabilmente goduti. Non appena arrivati, ovvero al mattino prestissimo, abbiamo pensato bene di ingannare le ore che ci separavano dal bramato check-in in albergo andando nella spiaggia più vicina al centro storico.
(Arriva il momento di andare in spiaggia; continua sotto)
Dopo quasi un paio di chilometri, siamo giunti ad una spiaggia che solo in seguito abbiamo scoperto si chiamasse Pantan (…). Ora, non pensiate che fossimo capitati nella feccia delle spiagge, anche perché due lati molto positivi, o almeno interessanti, ce li aveva eccome. Come prima cosa, infatti, nell’arco di pochi minuti ci siamo resi conto di trovarci in una sorta di Dc10 ibizenco (o più precisamente la vicina Bora Bora Beach), ma senza musica e gente gggiovane e cool… nel senso che hanno iniziato a passarci sopra le teste ondate di aerei bassissimi, in atterraggio o decollo al vicino aereoporto di Spalato. Altro aspetto positivo: la vista mozzafiato sulle montagne brulle che si ergono all’orizzonte.
Dopodichè, a meno che non dobbiate perdere del tempo in modo decente (da leggere “Stando in una spiaggia non bellissima”), la spiaggia-pantan evitatela, almeno per i bagni: l’acqua è bassissima per chilometri ed è pure oleosetta, essendo quello un punto in cui l’acqua fluviale si immette nel mare, con tutto il suo inquinamento. No, no, non sbuffate pensando che vi stiamo facendo perdere tempo in quisquilie: dovete capire che sono anche i dettagli estranei alla musica ad aver reso questo festival croato ciò che è stato, come esperienza. Quindi, torniamo per un attimo al nostro vagare turistico.
(Panoramica di Trogir; continua sotto)
Spostandoci dalla spiaggia verso il nostro delizioso albergo situato nel cuore del centro storico, appena dentro le mura, nasiamo subito l’atmosfera regnante: vicoletti su vicoletti, piccole piazze maestose a mò di epifania, un caldo africano e ventilato. Tutto ciò che ci circonda è in pietra bianca, iris e palme come se piovesse, e l’insieme è fondamentalmente così veneziano, ma pure maledettamente mediterraneo: un piccolo paradiso di romanticheria, mare, arte e passato glorioso, il tutto imbevuto dal fantastico dialetto dalmata coi suoi molti elementi italiani (risonante spesso per le strade perché parlato dai paesani) e da una vegetazione tutta profumi e colori sgargianti. Un universo “altro”, la stessa sensazione che si ha girando per una Venezia semivuota (non capita spesso, ma abbiamo avuto la fortuna di vivercela anche in questo modo).
Il punto è che Trogir non è affatto vuota: scoppia di turisti. E sono di quella specie lenta e ritronata da sole, mare e cibo, con obiettivi anche da un metro e mezzo per fotografare (magari storta o incompleta) l’insegna di un bar scrauso o visi sorridenti che posano di fronte a “x” non sempre ben identificate. Il tutto senza velleità artistiche o entusiasmi genuini, ma quasi per “dovere” di turista che documenta. E con un’estetica che in molti casi è opinabile anche dai più easy going, diciamocelo. Ma Trogir è così labirintica, seppur piccina, che è sempre possibile trovare calli deserte per ripigliarsi dal brulichìo trash turistico.
(Lo spirito del centro di Trogir; continua sotto)
Prima di raccontarvi del festival, un attimo di pazienza ancora, fidatevi. Perché ci manca la descrizione dell’ultimo “universo parallelo” trogiriano. Abbiamo raccontato quello della spiaggia-pantano-bora-bora, quello incantevole della Serenissima, e quello trash dei turisti in lenta camminata. Ok. Ora tocca a quello delle Spiagge con la “s” maiuscola. Noi siamo andati a Čiovo, un’isoletta collegata alla nostra Trogir da un ponte e facilmente raggiungibile a piedi. Vi assicuriamo che sta anche qui l’essenza dello stato d’animo che ti si crea dentro a mò di warm up al festival, catapultandoti in una dimensione altra dalla quale non vorresti uscire mai. Sarà per l’acqua cristallina così spesso blu elettrica, o per il verde smeraldo della vegetazione che si mischia poeticamente al grigio delle pietre rocciose. O magari è anche per la natura metamorfica dei colori delle montagne sul mare, che da lilla si fanno verdi accese per poi tingersi di azzurrino quando l’afa si fa sentire. O sarà anche che per tre giorni abbiamo trovato una spiaggia tutta nostra e deserta, cose che avremmo potuto fare nudismo becero e ascoltare happy hardcore tamarra a tutto volume senza disturbare nessuno. Abbiamo ovviamente preferito il silenzio, ovviamente, il maestoso silenzio che ti permette di sentire la brezza marina che si intrufola tra gli aghi dei pini marittimi. Mentre te la godi a occhi chiusi sul bagnasciuga. Capito che pacchia?
Arriviamo a noi, al Moondance Festival e alla sua dimensione particolare, quella dello “spazio lunare” a cui alludevamo qualche riga sopra. Dunque: festival a base di musica techno. Alla sua quinta edizione. Made in Croatia, da croati. All’interno delle mura medievali della splendida e torrita fortezza Kamerlengo, giustamente patrimonio dell’Unesco. Ok. In più, a rendere omaggio al quinto anno del Moondance, i sontuosi mapping sulle mura esterne della fortezza a cura dell’artista berlinese Philipp Geist (durante il festival ha curato anche parte dei live visuals) che l’anno scorso ha festeggiato i suoi primi vent’anni di onorata attività. Ad accompagnare i pomeriggi del festival, svariati workshop gratuiti su Ableton 9, Elektron Octatrack – corso quest’ultimo tenuto da Domenico Cipriani degli Analogue Cops – e Live Production, imperdibili per gli appassionati del genere, nonché ottimo modo per imparare qualcosa di nuovo per i curiosi.
Dal punto di vista musicale, invece, pochi i nomi in line up ma tutti di spessore indubitabile. A iniziare dall’immenso techno-vate, nonché uno dei padri fondatori dell’Underground Resistance (no, non quella di Armin Van Buuren) Robert Hood. Per il suo set – accompagnato alla consolle dalla figlia Lyric – ha sfornato il meglio tra sue produzioni e quella a nome Floorplan, inframmezzando con chicche detroitiane e creando, ovviamente, il putiferio con “We Magnify His Name”, tra corpi danzanti in preda ad estasi acuta e techno-gospel per tutti.
Proseguendo, nello scorrere la line up: nomi solidissimi del firmamento techno come Ben Sims, impeccabile e quasi commovente col suo set, con la sua ultima traccia di Stanislav Tolcachev tendente al’astratto, dal ritmo asimmetrico e potente come poche a fare da ciliegina sulla torta di un set formidabile, da gustarsi interamente a ballare. Oppure Oscar Mulero, pesante come sempre, ma nel buon senso del termine – tra “techno-samba” e pestate macellaie, portate avanti stavolta nel migliore dei modi possibili, regalando sorrisi a moltissimi e tagliandoci i polpacci in due a forza di saltare. Un treno pieno zeppo di techno e vibrazioni poderose anche con l’argentino Jonas Kopp – a cui ancora siamo grati per il set ipnotico, elegante, cattivissimo, mai sotto tono, e culminante con la sempreverde “Cum On” di Dj HMC.
Molto lungo e serrato il dj set del vinyl junkie parigino Dj Deep, alle prese con quasi tre ore di dischi, tre ore in cui ci siamo divertiti non impazzendo però di gioia, forse perché ci saremmo aspettati qualche fattore sorpresa in più che, ahimè, non si è mai fatto sentire, pur non deludendo nemmeno per un istante in quanto a stile e selezione. Missili terra-aria efficaci e terribilmente imprevedibili sono stati invece quelli scagliati dai nostrani Analogue Cops, che con un live super acid hanno imbrattato tutti quanti di sana follia danzereccia dalla verve punk e dal cuore acidissimo, culminando con un mash up in cui hanno inserito un pezzo di Dino Dvornik (leggenda della pop-disco-funk croata, deceduto purtroppo per eccessi da qualche anno), chicca filologica mica male.
Degni di nota in questa esibizione anche i coerentemente aciduli visuals di Al Grain, visual artist patavino e personaggio molto poliedrico, in tour con gli Analogue Cops. Quella di mettere su la hit di Dvornik è stata una mossa a nostro avviso più che azzeccata: sia perché magari chi scrive è di origini croate e conosce e apprezza molto Dino Dvornik, sia perché le accoppiate bizzarre ci sono da sempre piaciute e gli Sbirri Analogici ci hanno fatti divertire non poco, senza intellettualismi, ma con la loro sfacciata verve. Una chiusura festival che in terra croata ha suscitato parecchio clamore, tra gli addetti ai lavori.
In mezzo, a parte Petar Dundov – da annoverare sempre tra i big e che non abbiamo menzionato non perché il suo set non avesse meritato, ma perché onestamente non è stato tra i suoi migliori sentiti, pur senza meritarsi particolari critiche – ci sono stati nomi meno conosciuti che ci hanno però sorpreso per gusto, maturità e stile. Tra i vari, il bosniaco Forest People, all’anagrafe Dragan Lakić, producer bosniaco molto interessante – a nostro avviso da tenere d’occhio – che nel suo live ha amalgamato con grande maestria industrial, melodie sintetiche vagamente anni ’90 e techno e ruvidezze darkeggianti; l’ottimo Handmade, dj italiano resident al Tresor oramai da anni, a cui si è dovuta la migliore apertura del festival sentita in tre giorni, con una partenza techno-dub stranamente piena di brio e per nulla noiosa per poi prendersi lande molto più fresche, senza mai perdere il mordente; oppure Jan Kinčl, che qui in Croazia è un nome ben conosciuto agli appassionati di clubbing, accompagnato per l’occasione dal tastierista jazz francese Regis Kattie, con un bel live jazzy spruzzato di schiaffetti da 909 e sverniciature alla 303, davvero molto piacevole e pure estivo, degno dei migliori ascolti ancheggianti in pista con drink in mano. Da menzione speciale anche la super potente Insolate, ovvero Sunčica Barić, dj e producer croata dallo stile solido e deciso, con una maestria tecnica brillante e una carica esplosiva contagiosa durante i set, arrivata al Moondance davvero in piena forma. Peccato per l’orario in timetable: l’avremmo preferita un pelino più tardi che a mezzanotte, anche per vedere la gente godersela appieno e nel pieno del proprio felice delirio da dancefloor in peak time.
(La techno dentro una fortezza; continua sotto)
Nel marasma di musica e coreografie varie, ci piace sottolineare quanto fosse eterogeneo il pubblico, per età e stile, e quanto poco si sentisse parlare in inglese-british, fattore non da poco ai festival di musica elettronica in terra croata. Ci è infatti piaciuto molto essere circondati da tanti croati autoctoni, presenti anche grazie al prezzo più che amico del festival, e giunti da tutta la Croazia con un sacco di sana – e in molti casi davvero “folkloristicamente” poco sana, diciamocelo – voglia di fare festa. Nessun disordine o tensione, un bell’amalgama di gente in cui anche i techno-vichingi tamarrozzi con occhiale da sole e petto nudo – ce n’erano – si inserivano alla perfezione, diventando una componente ludica della pista, senza creare fastidi. Poi francesi, americani, spagnoli, vietnamiti, giapponese, australiani, italiani, olandesi, non è che gli stranieri non ci fossero: tutti ben inseriti e spesso e volentieri alle prese con i croati, tra una chiacchierata gesticolante al bar, una sfumacchiata al fresco nella zona chill out su un praticello e momenti di empatia danzereccia sotto cassa.
Un’atmosfera lunare insomma quella del festival, vuoi per la musica spaziale, le luci e i visuals di ottima qualità, il cielo iper stellato che ti sovrasta mentre ti godi techno di spessore, o vuoi per quel sapore di rave surreale contenuto entro mura medievali, dove il suono, già spinto da un ottimo impianto, ti sembra interstellare da quanto potente. Tanta, tantissima techno, dove la qualità non è mai mancata e in cui ci si è letteralmente immersi, a mò di viaggio spaziale, per tre notti di seguito.
Nulla a che fare con la placidità abituale di Trogir. E nemmeno con le calli in pietra bianca e la pavimentazione in pietra chiara lucida. E manco coi turisti dall’obiettivo fotografico di un metro, in lenta passeggiata digestiva con i talloni fuori dagli infradito plasticosi. E ancora men che meno con il silenzio e la pacatezza della vita da spiaggia. Durante il Moondance, quindi, dimensioni “aliene” rispetto al contesto, dalle più poetiche alle più trash, si incontrano e si fondono, come si trattasse di un sogno, facendoti girare la testa. E ti gira anche ad evento finito perché ti sei innamorato di Trogir e sai di aver partecipato ad un piccolo festival-gioiello dalle enormi potenzialità future (ne siamo convinti). Un festival dove non vedi l’ora di tornare l’anno prossimo, con la speranza di vederlo cresciuto e pieno di novità. Magari arrivando anche un paio di giorni prima, visto che la dimensione spiaggia, a livello di magia, si sa che spesso vale quanto quella lunare.