Ci sono molti motivi per essere sospettosi: perché i Motel Connection sono dei paraculati (molto del successo e della spinta iniziale, ma anche del successo negli anni, deriva dal fatto che Samuel, uno dei tre membri della band, è la voce dei Subsonica); perché i Motel Connection sono dei furbi wagon jumper, che saltano cioè a bordo del suono del momento; perché “Vivace”, il loro ultimo lavoro, è sospettosamente vicino al suono che ora va alla grande, quella electro da stadio + melodie che ha fatto la fortuna di italosvedesi dalle dubbie abilità. Toglietevi però questi sospetti, e provate a leggere questa intervista senza pregiudizi, fissandovi sui concetti. Ce ne sono di interessanti. Eccome. Lettura davvero consigliata, in cui Samuel, Pisti e Pierfunk mettono in campo concetti di spessore, ammissioni, autocritiche, spunti da sviluppare. E, ma ci sta, una robusta fiducia in se stessi.
E insomma, per l’ennesima volta i Motel Connection si trovano a vivere un cambio di rotta artistica. Perché “Vivace” un po’ questo è.
Samuel: Sì, fondamentalmente direi che è così. Sai, siamo arrivati all’orlo dei quarant’anni, mettici un po’ di crisi d’identità… Siamo un po’ come certi anarchici che all’improvviso decidono di convertirsi al cristianesimo; allo stesso modo noi ci siamo detti “Massì, dai, facciamo il disco più tamarro che ci possa essere sulla faccia della terra”, per vedere l’effetto che fa.
Pierfunk: Confermo. “Vivace” dà il via alla nostra fase tamarra.
S: La genesi di questo album ha uno stretto legame con le nostre radici. I Motel sono nati quando crossoverare, mettere insieme cose diverse, non era un semplice genere musicale ma proprio un’attitudine artistica vera e propria.
In effetti, io che alle prime serate Krakatoa c’ero posso confermare che si suonava praticamente di tutto…
S: Esatto. Siamo nati in un territorio che musicalmente parlando non aveva limiti, potevi tranquillamente accostare una chitarra metal a un groove funk e nessuno aveva niente da ridire. Poi, nell’arco degli anni, frequentando sempre di più i club, ci siamo un po’ purificati negli ascolti. E comunque sempre per stare a Krakatoa, credo che siamo stati fra i primissimi a suonare la minimal: probabilmente per una sorta di rigetto verso i nostro inizi così all’insegna del va-bene-tutto. Durante il nostro periodo, diciamo così, rigoroso abbiamo evidentemente compresso e silenziato una bella parte del nostro dna originario, col risultato che ora che l’abbiamo liberato di nuovo è esploso in maniera scomposta. “Vivace” è la perfetta rappresentazione di questo processo. Un processo che porta a distruggere ogni regola precostituita legata a uno specifico genere, che vuole fuggire da ogni purezza effimera – purezza che effettivamente negli anni precedenti avevamo provato a costruirci. La verità è che puro o ci nasci al cento per cento, o non potrai mai diventarlo. Ecco che insomma alla fine “Vivace” è al cento per cento lo spirito originario dei Motel, solo aggiornato ai suoni di oggi.
Detto così, tutto ciò pare una forte autocritica verso il vostro “periodo minimal”, chiamiamolo così.
S: No, non è un autocritica. E’ un percorso. E’ esattamente come da piccolo non ti piacciono certi cibi, poi diventi adulto e scopri che ti piacciono da morire. E’ quella spinta a rifiutare qualsiasi cosa ti venga imposta, o che comunque ti sembra di aver già “triturato” abbastanza, spinta che al tempo stesso ti aiuta ad accumulare energia per andare in altre direzioni.
Pisti: E poi noi l’idea della minimal l’abbiamo seguita da tantissimo tempo, in periodi forse anche non sospetti. E’ che ad un certo punto ha preso ad annoiarci il fatto che fosse diventata una norma. Che dovesse per forza essere suonata, e suonata in un certo modo. Evidentemente abbiamo avuto un rigetto improvviso, una volta capito che eravamo finiti imprigionati dentro un canone. Rigetto che prima abbiamo covato silenziosamente e che ora è venuto fuori in modo deciso. Che poi elementi di minimal li trovi sempre nella nostra musica, soprattutto nei live, sono comunque anche loro nel nostro dna. Però ecco: troviamo noiosissimo diventare quelli che vengono riconosciuti per “una” cosa.
S: Dovrebbe essere un po’ il compito dell’artista quello di dare alle persone che ti seguono il senso di un percorso, di una evoluzione, di un discorso che si sviluppa magari anche in modo inaspettato. Se ti chiudi solo nella chiave che ha funzionato e continui ad insistere su quella, è una sconfitta artistica. Almeno per come la vediamo noi.
Onestamente: non è che siete un po’ troppo wagon jumper? Un po’ troppo attenti ad inseguire il suono del momento? “Vivace” è un disco dove c’è moltissima electro da stadio, quella che ora va forte, e il vostro periodo minimal è coinciso col momento di massima popolarità ed efficacia della minimal techno dalle vostre parti. C’è come l’impressione che siate una specie di barometro che indica e si adegua al suono del momento…
S: Credo che sia in effetti così. Ma non la vedo come una colpa. Credo che piuttosto si tratti di una attitudine musicale che ti spinge a raccontare e documentare quello che è il periodo storico del qui&ora. Il nostro marchio si riconosce in un certo tipo di armonie, nel fatto di accostare musiche elettriche a musiche elettroniche, nel fatto di usare una voce: elementi che hanno contrassegnato tutti le uscite della nostra discografia, anche quelle del periodo minimal. Chiavi di lettura che, insomma, riconducono subito al gruppo. Una volta che queste ci sono, ci piace variare, ci piace raccontare il periodo storico che stiamo vivendo.
Pisti: Senza contare che, volenti o nolenti, abbiamo comunque le orecchie dentro un club. Siamo immersi in quello che è il “suono del momento” ci piaccia o meno.
S: Credo però che proprio la voglia di saltare da un suono all’altro, cercando di mantenere la propria identità, sia un obiettivo specifico del progetto Motel Connection.
Pisti: La scena dance sa essere troppo settaria, noi cerchiamo di evitarlo.
Pierfunk: Inoltre va detto che noi siamo un progetto molto particolare: ci ritroviamo ogni tre anni, dopo i periodi di intermezzo in cui giustamente ognuno sta dietro ai propri progetti. Nell’arco temporale in cui non stiamo assieme siamo comunque molto “spugnosi” verso l’ambiente, chiaramente ognuno a modo suo – e questi ascolti intensivi ognuno li porta come contributo di idee quando si tratta di ripartire, passata la pausa forzata. E’ quasi inevitabile nasca ogni volta un’alchimia diversa. Anche perché una nostra caratteristica è di non ragionare troppo in modo preventivo su cosa fare, cosa suonare, che direzione prendere: quando componiamo ci troviamo in sala prove, Pisti comincia a suonare dei vinili, io e Samuel cominciamo ad improvvisarci sopra con voce e strumenti e i giri che ci viene spontaneo suonare sono giocoforza quelli che nascono dagli ascolti del momento. E’ tutto molto spontaneo, soprattutto all’inizio. E’ solo in un secondo momento che andiamo a selezionare le parti di queste prove in libertà che davvero ci interessano.
Ma come è cambiato il pubblico dei Motel Connection, in questi anni? Magari all’inizio era un pubblico prettamente pop, attirato dal “personaggio” di Samuel come cantante dei Subsonica… o un pubblico eterogeneo come quello delle prime serate Krakatoa. Quanto si alfabetizzato alla club culture o comunque alla vostra proposta artistica il pubbblico “vostro” negli anni?
S: Riprendo quello che diceva Pierfunk prima: siamo un progetto molto particolare, che muore e rinasce ogni tre anni. Ogni volta è come se ci ricostruissimo da zero. Perché ogni volta succede un po’ di tutto. Per dire, per me girare coi Subsonica e fare cose con loro scardina completamente il percorso fatto precedentemente coi Motel, quindi ogni volta è davvero come se ripartissi da zero. E’ impossibile pensare che un processo del genere non dia vita ad una entità eterogenea, e intendo anche dal punto di vista del pubblico. Si stratificano diversi tipi di pubblico, magari pure in continua mutazione…
Pisti: Una delle cose più belle dei Motel è proprio il fatto che il pubblico può, in qualche modo, fare da dj. C’è uno zoccolo duro, certo, ma per il resto quasi in ogni serata ci troviamo davanti un tipo di folla differente. Il fatto di usare il codice dance, il più coinvolgente di tutti, ci permette di tenere tutto e tutti assieme. Quando costruiamo un live abbiamo sempre ben presente la priorità del costruire qualcosa che abbia un flusso e che sia fruibile da tutti, dal barista che lavora alle persone in ultima fila passando per i fan o quelli un po’ scettici. Tra l’altro questa è una delle cose che ci rende differenti rispetto a una tradizionale band live o anche a un certo tipo di deejaying. E che ci porteremo sempre dietro.
A proposito di club culture, quali sono i personaggi che in questo momento sono per voi fonte d’ispirazione?
Pisti: Ce ne sono una valanga. E’ bello anche per questo essere in tre, e per giunta ognuno con un background e con dei gusti differenti. C’è di tutto, a partire da quella che può essere la dance più commerciale… in un pezzo come “Computer Power” io ad esempio rivedo certe cose di Ramirez, e anche in altre tracce dell’album rivedo parecchio di certi anni ’90. Comunque ecco, anche per l’età che abbiamo, direi che possiamo incorporare di tutto nel nostro bagaglio di ascolti. Dalla techno di Derrick May alle cose dance più cheesy, passando magari per uno Switch, che a noi piace tantissimo e che credo abbiamo suonato la prima volta in Italia proprio grazie a Krakatoa.
Pierfunk: Così come, oltre agli ascolti “storici”, ci sono anche le persone che abbiamo recentemente sentito suonare e che ci sono piaciute, vedi Etienne De Crecy.
S: Figurati che il disco che ho ascoltato di più quest’anno è “Pink Moon” di Nick Drake, siamo anni luce – non solo storicamente – da quanto ti citavano finora gli altri. Capisci insomma che in noi trovi di tutto.
Vi vengono in mente dj o producer con un’attitudine simile alla vostra?
S: So che corre il rischio di passare per vecchietto nel dirlo, quello che “quando ero giovane io…”, però ecco nei primi anni ’90 c’erano molto più persone che avevano naturalmente l’attitudine a non avere barriere, a non porsi limiti. Senza nessun tipo di ossessione per supposte “purezze” del suono.
Ma quanto vi piace quello che sta succedendo oggi nei club di casa nostra? Qual è lo stato di salute della club culture nostrana?
Pisti: Non buono. Se stiamo sull’Italia, questo è un periodo in cui la gente è esterofila come mai lo è stata in passato. La cosa che più mi dispiace è che per anni noi siamo stati una fabbrica di grandissimi dj resident, figura che oggi si è praticamente estinta o si limita a fare warm up in un’ora in cui non c’è ancora quasi nessuno nel locale, in attesa che salga sul palco un ospite straniero che magari nessuno ha sentito mai e nessuno conosce realmente però “arriva da Berlino”. Cosa che ormai è diventata quasi un’etichetta discografica, un titolo di merito, assurdo. Questo è un grande limite, si è persa la figura di chi fa il dj in un determinato club suonando per ore, conocendolo, prendendosi dei rischi ma venendo seguito dalla gente e riconosciuto come figura familiare: è quello che ti dà soddisfazione vera, come dj, ed è quello che ti fa imparare il mestiere per davvero. Oltre a questo, devo dire che c’è una segmentazione eccessiva delle serate. Mi spiego: vedi Reboot in cartellone, e vai a quella serata perché vuoi sentire Reboot che fa musica da Reboot. Vedi una serata con Skrillex, e da Skrillex ti aspetti che faccia Skrillex. Sennò t’incazzi. Una volta non era così. Una volta era il contrario.
Domanda finale, quasi filosofica: i Motel devono crescere ancora, o hanno raggiunto l’altezza di crociera?
Pisti: Dobbiamo decrescere. E disimparare.
S: I Motel ora sono un grande vaffanculo. Come il punk delle origini. Non voglio certo mettermi a quelle altezze, ma per quanto ci riguarda vogliamo provare ad essere effettivamente un elemento di rottura. A partire dal fatto di essere una rottura all’interno di noi stessi, delle nostre abitudini, delle nostre esperienze passate. Avevamo bisogno di “rompere”. Perché per me “rompere” è andare a fare quello che per anni ho avuto paura di affare: mandare affanculo col suono.
Ma mandare affanculo chi?
S: Prima di tutto noi stessi. Poi, la paura di osare. Noi siamo nati in un momento in cui tutti, volenti o nolenti, osavano: era tutto nuovo, era tutto strano e in divenire. Un momento in cui se ti veniva un’idea la tiravi giù e provavi a realizzarla, senza pensare a quali conseguenza avrebbe portato. Negli anni successivi questa leggerezza s’è persa, un po’ dappertutto. Con questo disco abbiamo deciso di riacquistarla, magari – ora lo posso dire, risentendo tutto a mente fredda – facendolo in modo un po’ scomposto.