Non crediate sia facile. Non crediate sia scontato. Perché se ci pensate bene, le condizioni di base sono abbastanza feroci e scoraggianti: in un paese, come l’Italia, dove già si fa fatica a prescindere a spendere in cultura (o in divertimenti che siano un minimo culturali e non solo cazzeggiatori); dove già ciò che è “elettronica” ha vita resa difficile, nell’opinione pubblica generalista, perché in molti anzi troppi sono ancora fermi all’equazione elettronica = droga e tafferugli (oddio, per molti siamo ancora al rock = capelloni ed eroina…); dove già se ti occupi di musica che non sia la lirica puoi scordarti di essere preso sul serio dalle istituzioni, dove già se non sei Blasco o Ligabue o Jovanotti o [aggiungere nome simile a piacere] apparentemente puoi scordarti che le folle ti caghino e di conseguenza anche i media tipo i quotidiani e le tv ti diranno che puoi scordarti che ti caghino loro; ecco, in tutto questo Movement e Club To Club non solo sono resistiti negli anni, ma anzi, danno l’idea di crescere sempre più.
Cosa già miracolosa di per sé, sì; ancora più miracolosa però se si pensa che i due festival stanno nella stessa città (pazzesco) e si svolgono a pochissimi giorni di distanza l’uno dall’altro (doppiamente pazzesco). Assurdo. Inspiegabile, quasi. Milano – con tutti i soldi che fa circolare e il suo essere modaiola, clubbara e all’avanguardia – non riesce ad avere un festival di musica elettronica di grosse dimensioni praticamente da sempre, Bologna ce l’aveva ma l’ha perso, Firenze ha lodevoli tentativi (Nextech) ma deve ancora crescere), Napoli resta drammaticamente complicato anche farci un evento da mille persone, figuriamoci un festival, Genova langue, Palermo pure, Roma va ad alti e bassi bruschi; in tutto questo Torino, una città che ha avuto il tessuto economico davvero disastrato dal progressivo disimpegno di Mamma Fiat (e lo si capisce dal prezzo, basso rispetto alle altre città, degli affitti), riesce a reggere non solo due festival grossi, regge proprio “i” due più grossi. Ok che molta gente arriva dall’estero; ok che molta gente arriva da altre zone d’Italia; ma questo “molta” resta una percentuale che non è il 100%, non è il 90%, non è l’80%. Ci si contende lo stesso bacino geografico d’utenza insomma, in robusta percentuale. Un bacino appunto difficile, manco così vasto, che fatica, che per vedere i suoi anni migliori – durante la stagione annuale “normale”, tolti quindi i festival – deve guardare al passato, non al futuro e nemmeno al presente.
Bene. Questa situazione ha formato negli anni una rivalità piuttosto fiera tra i due contendenti in campo, Club To Club e Movement. Magari giocata con toni pubblicamente felpati ma insomma, il torinese almeno in pubblico ha bon ton. In privato per molto tempo è stata lotta feroce (per prendersi certi artisti, per ottenere finanziamenti pubblici, eccetera eccetera) e qualche tentativo da parte dall’alto stile “Ora fate la pace e vi unite e facciamo tutti quanti assieme qualcosa di bello” è stato visto dalle due realtà più come una tassa da pagare per fare contento il Comune o la Regione di turno che erano lì a richiederlo che come reale opportunità e via operativa. Una guerra a bassa intensità che, peraltro, non ci sentiamo di condannare: era inevitabile. Sì, era inevitabile. Se pensate appunto alle condizioni di base, al problema di essere due realtà belle grosse nella stessa città e distanza di pochi giorni. E non solo.
Unirsi davvero non se ne parlava. Anche giustamente. Perché ci sono troppe differenze di background (in parte), di approccio (soprattutto), di sensibilità varie ed assortite. Cambiare città e/o dislocamento in calendario, per prendersi ognuno i suoi spazi? Beh, magari qualcuno dei due c’ha anche pensato, ma in assenza di opportunità serie c’ha rinunciato – e l’ha fatto anche, lo sospettiamo, per l’orgoglio di poter dire “Io di qui non mi sposto, semmai sei tu che te ne vai” (questo è solo un sospetto, lo ripetiamo, ma forse non è troppo lontano dalla verità). La battaglia è continuata.
La battaglia è continuata, ma negli ultimi anni – con la decisa e coraggiosa mutazione di Club To Club, che ha scelto di essere sempre meno un festival di musica elettronica dance come invece era agli inizi e sempre più un hub di “musica avanzata” ai limiti (e oltre) della sperimentazione – ha trovato evidentemente gli equilibri giusti. Quest’anno come mai prima. Proprio quest’anno che, complice il calendario, Movement e Club To Club si sono trovati separati da pochissimi giorni in modo incredibile, anzi, praticamente si sono sovrapposti. Perché parliamoci chiaro: a Club To Club quest’anno si è ballato stile club culture canonica solo con The Black Madonna (benissimo), con Richie Hawtin (poi vedremo come), con Jacques Greene (bravo). Stop. Già Ninos Du Brasil e l’happening targato Gabber Eleganza erano sì danzerecci all’estremo, ma nascevano un po’ anche come performance artistiche, con tutti i sottotesti annessi e connessi nel fruirne.
Detto insomma con uno slogan: Club To Club e Movement, che prima erano i due festival di musica elettronica in competizione diretta fra loro, oggi come oggi non c’entrano un cazzo fra di loro (l’espressione inelegante è intenzionale, per dare forza al concetto). Ed è una cosa salutare per entrambi. Certo: The Black Madonna e Richie Hawtin potresti vederli anche negli eventi targati Movement, e li hai visti pure (vedi anche anche Kappa FuturFestival), ma non sono più gli headliner su cui Club To Club si regge nell’immaginario collettivo.
Detto insomma con uno slogan: Club To Club e Movement, che prima erano i due festival di musica elettronica in competizione diretta fra loro, oggi come oggi non c’entrano un cazzo fra di loro (l’espressione inelegante è intenzionale, per dare forza al concetto)
L’headliner di Club To Club oggi è Nicolas Jaar. Che a Movement non verrebbe capito dal pubblico (…a dire il vero, anche quest’anno nel “suo” Club To Club si sarebbe meritato una selva di fischi ed ululati per un live brutto, narciso, noioso, autocompiaciuto, inutilmente lungo e stiracchiato, con momenti di autocompiacimento imbarazzanti; ma Jaar a C2C ormai è come la [inserire nome di squadra di calcio a piacere], si ama, non si discute. E per fortuna che il giorno dopo si è risollevato offrendo un dj set di ottima fattura, con la scelta carina di mettere Battiato in apertura).
Un altro headliner di C2C è Arca, che a Movement semplicemente non avrebbe senso mettesse piede, con la sua carica arty-drammatica. Un headliner recente di C2C è stato SBTRKT, che quest’anno a Movement è stato oggetto di un disinteresse raggelante (ok che era presto in line up e giocava la Juve, ma a sentirlo è stato – letteralmente – un manipolo di persone, pochissime decine, disperse negli spazi enormi del Main Stage. Indicativo. C’è poi una “terra di mezzo” sovrapponibile, perché quest’anno la scelta di Movement di puntare su Tycho equivale, almeno concettualmente, alla chiamata di Bonobo da parte di Club To Club, ma speriamo che la contesa sugli artisti grossi di questa “terra di mezzo” non proponga un corpo a corpo fatto fra le due realtà a colpi di aste, tagliafuori e reciproci dispetti.
(Arca a Club To Club 2017; continua sotto)
Non stiamo chiedendo due festival a “scompartimenti stagni”: ci saranno sempre quelli che suoneranno un po’ di qua, un po’ di là. Tipo Richie Hawtin. Che però appunto in questa edizione di Club To Club non era l’attira-folle prevedibile in cartellone ma era più un esotismo, una curiosità, una simpatica eccezione; lui forse ha avvertito questa cosa, per “accreditarsi” presso il festival e il relativo pubblico ha spinto il suo CLOSE ad un eccesso di birignao – troppi elementi, troppe cose, troppa voglia di dimostrare “Io non sono solo quello che bombarda tutto il tempo”, troppo tutto. L’effetto finale è stato un pasticcio contronatura in cui da un lato le ritmiche erano techno minimali e martellanti, dall’altro la glassa di suoni sopra era debordante e spesso inopportuna. A Movement, qualche anno fa, lo sentimmo suonare molto ma molto meglio. E secondo noi sinceramente non è un caso.
Insomma, le differenze ci sono, esistono, hanno il loro effetto. E le differenze impongono anche di avere un metro di giudizio diverso su alcuni aspetti. Per intenderci: dopo essersi stati negli spazi del Lingotto il 31 per Movement, tornarci quattro giorni dopo per Club To Club ha sinceramente fatto pensare “Vabbé, come luci e scenografie qua siamo arrivati alla festa delle medie”, pensando a come questi stessi identici spazi erano allestiti pochi giorni fa”. Movement infatti ha fatto al Lingotto un lavoro monumentale sugli allestimenti, Club To Club ha curato l’essenziale e poco più. Ma bastava poco per capire che andava bene così: perché per il tipo di proposta artistica che ormai offre C2C, un eccesso di luminarie e scenografie avrebbe un effetto controproducente, ammosciante. L’essenzialità si sposa bene con le sue scelte sonore. Comunica un’idea di “Mo’ ti concentri sulla musica e sull’affascinantissimo agio o disagio emotivo che ti provoca”, lì dove invece Movement è “Voglio offrirti l’esperienza più spettacolare possibile, e pure con della musica trascinante in sottofondo”.
(il colpo d’occhio di uno dei quattro stage di Movement; continua sotto)
Certo: lì dove Movement quest’anno ha raggiunto la perfezione (logistica interna, dislocazione e fruibilità dei servizi), Club To Club ha ancora qualcosa da migliorare, come del resto anche sulla sua pagina Facebook ufficiale più di un fruitore ha fatto notare – storie di sovraffollamenti al bar, difficoltà di accedere ai servizi, colli di bottiglia che si creavano in alcuni spazi tra un set e l’altro. Ma lo ha fatto notare con toni mediamente molto precisi ed educati: perché C2C è riuscito a formare un “proprio” pubblico nel migliore dei modi, riuscendo a fare i numeri (pur?) partendo dal presupposto che al pubblico in questione possono (e devono) essere dati stimoli complessi, offerte artisticamente non semplici, un’esperienza non solo ludica e divertente ma anche faticosa e sfidante. E questo, guardate, è un miracolo. Che va tutto a merito del festival. Non esiste altro contesto in Italia, e ce ne sono pochissimi nel mondo, dove Mura Masa suona di fronte a un tale numero di persone e son quasi tutte lì per lui, dove una sala dalla programmazione complessa come il Red Bull Music Academy Stage (Ben Frost, Lanark Artefax, Mana, Actress, Jlin, Not Waving, STILL, Yives Tumor…) è sempre costantemente piena nei due giorni. E piena attenzione non a caso, ma piena di gente che vuole essere lì, è competente, aspetta esplicitamente quel tipo di act e ha gli strumenti concettuali e di gusto per poterli fruire al meglio. Questo succede perché ormai il “dialogo” che ‘sto pubblico ha col festival è serrato, intenso, approfondito, fatto di reciproche attese ed aspirazioni, colmo di (meritata!) fiducia incondizionata.
C2C è riuscito a formare un “proprio” pubblico nel migliore dei modi, riuscendo a fare i numeri (pur?) partendo dal presupposto che al pubblico in questione possono (e devono) essere dati stimoli complessi, offerte artisticamente non semplici, un’esperienza non solo ludica e divertente ma anche faticosa e sfidante
A Movement non è così. A Movement, onestamente, c’è sì l’amore per alcuni personaggio storici, certo, (vedi Sven Väth, che peraltro ha ricambiato con un ottimo set in un Burn Stage sempre di alto livello), però in generale la line up può essere abbastanza intercambiabile, l’importante è che si suoni bene&duro (in tal senso il 31, il giorno in cui c’eravamo, hanno fatto tutti un buon lavoro, da Sam Paganini a Len Faki, da Marco Faraone a Nicole Moudaber), e sotto un certo punto di vista in questo modo vengono meno valorizzate le preziosità (la techno dei Modeselektor è più fantasiosa di altre, quella di Mike Huckaby e Octave One più stilosa e “nobile” di altre). Non c’è insomma ancora, nel pubblico di riferimento, un legare le aspirazioni per la serata ad un discorso artistico preciso ed elaborato, c’è più la voglia di fare festa. Però la festa viene bene se la musica è di qualità: e quella a Movement comunque c’è. Eccome. A tutti quelli, e ce ne sono, che con snobismo considerano gli artisti che passano a Movement della roba di zero valore culturale, apprezzata solo da uomini e donne intellettualmente “minori”, bisognerebbe consigliare di scendere un po’ giù dal proprio piedistallo: queste divisioni fra “alto” e “basso”, anche nella musica dance, sono più figlie di sovrastrutture sociali & complessi di superiorità che di dati di fatto oggettivi. Va benissimo ragionare sulle sovrastrutture, e anche farsi guidare da esse nel costruire la propria identità di appassionato di musica&cultura; ma bisogna sempre ricordarsi di non scagliare giudizi di valore troppo tranchant.
Anche perché c’è una verità innegabile: a Movement, esattamente come successo al Kappa FuturFestival quest’estate, la gente si è divertita parecchio. E’ stata bene. Senza eccessi, senza cazzate, senza risse, senza schifi (può anche essere qualcosa sia successo, ma il portafogli rubato da sempre c’è purtroppo dovunque, Club To Club compreso). Movement non è più il luogo “complicato” dei primi anni, dove veramente pareva un po’ di andare in guerra, a vedere molta della gente che c’era. Abbiamo visto facce rilassate, serene, contente, mai sfigurate (ehi, cominciamo col dire che chi si devasta di stupefacenza alle serate è un po’ uno sfigato, e che complessivamente si fa più male che bene?); andare in giro per i vari padiglioni era un piacere e facevi molti incontri interessanti, oltre a farti respirare la vibrazione “giusta” della festa, non quella isterica ed alterata.
(un momento “infuocato” di Movement; continua sotto)
Quindi sì: Movement vs. Club To Club, sì, si può ancora fare come giochetto, ma a patto di capire che intelligentemente i due eventi ormai giocano in campionati diversi, che solo in minima parte si incontrano. Quest’anno, dovendo eleggere un vincitore, il titolo va a Club To Club: perché ha dato vita alla migliore edizione della sua storia, dove tutto ha funzionato senza particolari intoppi e dove la partecipazione e il coinvolgimento del pubblico ha raggiunto un livello alto alto, proprio nell’anno in cui premeva come mai in passato il piede sull’acceleratore delle proposte “difficili”, intendendo “Questo sono io, queste le mie scelte, zero compromessi, zero voglia di ammorbidire o addolcire per avere una rete di sicurezza, ne rispondo al cento per cento” (forse giusto Kamasi Washington e Bonobo sono una “invasione di campo”, erano due nomi che stavano meglio concettualmente parlando a Jazz:Re:Found, a proposito di festival torinesi – sì, ne sta per arrivare un terzo abbastanza grosso sotto la Mole, questione di settimane). Ha vinto perché ha offerto un numero enorme di act di qualità altissima, e anche la potenziale fuffa, o speculazione hipster-mediatica – vedi alla voce Liberato – si è rivelata invece uno show di livello super e dalla grandissima consistenza musicale (l’intro strumentale a “9 Maggio” è stata spaziale, il design complessivo dello show ha rifuggito dagli “effetti facili” e da cartolina e ha puntato invece su scelte rigorose, molto eleganti e per nulla paracule).
Movement vs. Club To Club, sì, si può ancora fare come giochetto, ma a patto di capire che intelligentemente i due eventi ormai giocano in campionati diversi, che solo in minima parte si incontrano
Vince Club To Club, ma Movement non ha demeritato. Perché se è venuta meno la capacità – che contrassegna l’evento estivo Kappa FuturFestival – di far arrivare la gente presto e non, come malcostume italiano, solo da una certa ora in poi perché prima “è da sfigati”, col risultato come già detto di far suonare SBTRKT di fronte ad una situazione imbarazzante (ma anche Liebing o Modeselektor, schedulati prima delle 23, hanno iniziato di fronte a pubblici troppo esigui), è però vero che il modo in cui sono stati allestiti i padiglioni del Lingotto, la resa audio degli impianti, la disposizione dei servizi e tutta una serie di piccoli particolari hanno parlato, come mai in passato, di una qualità ai vertici europei. Un livello, quello dei grandi numeri e grandi spazi gestiti bene, a cui è difficilissimo arrivare e a cui è difficile giocare. Movement ce l’ha fatta alla grande. I numeri lo hanno premiato abbastanza (molto più il 31 ottobre del 28: forse due serate, per giunta distanziate di tre giorni, sono uno sforzo eccessivo per i portafogli di quel bacino d’utenza lì); forse si poteva fare e si poteva sperare in qualcosa di più, ma parliamo comunque di cifre enormi (dichiarate 35.000 presenze totali), cifre che nessun altro fa in Italia.
Quindi ecco. Questa è stata Torino in questi giorni. Questa è stata la sfida, sfida che quasi sicuramente si ripeterà negli anni prossimi, esattamente come si sta ripetendo da un bel po’. Ma se a lungo era una sfida diretta, ora diventa una sfida asimmetrica. I due contendenti vanno infilati in campionati diversi, giudicati con criteri differenti. Vanno divisi. Per una volta, ecco una divisione che può fare bene a tutti quanti.