Tanto si parla, in questi tempi, tanto ci si riunisce, si colloquia e si elabora: di fronte al lockdown da Coronavirus il comparto musica si è scoperto per certi versi “nudo”. Ovvero, quasi completamente scoperto a livello di tutele ma, in fondo, anche di reale incisività istituzionale. Non solo: fa anche fatica a “fotografare” se stesso e, quindi, ad aiutarsi. Qualcosa verrà fuori, da tutto questo, ma una realtà che subito è riuscita a darsi da fare in modo concreto è quella di Music Innovation Hub. Un importantissimo esperimento di “impresa sociale”, ovvero un posto dove far combaciare economia, profitti e lavoro culturale. E’ da MIH che è uscita una delle poche iniziative (forse finora l’unica, ad oggi?) che vuole appoggiare in maniera sistemica tutto il comporto della musica, il comparto “nudo” appunto, con un’iniziativa nata anche con la collaborazione di Spotify (oltre che della FIMI): parliamo di “Covid-19 Sosteniamo la Musica”. Eh sì, certo, Spotify – per molti più carnefice che salvatore (assieme agli altri servizi di streaming), ma intanto i soldi li ha messi sul piatto veramente. E a MIH hanno lavorato di studio e d’ingegno per presentare un progetto che intercettasse ed implementasse questa offerta d’aiuto collettivo. Riuscendoci. Ne parliamo con Dino Lupelli, che di Music Innovation Hub è uno dei deus ex machina, oltre ad essere il “padre” di Linecheck. Un Linecheck che, ci svela, sta già lavorando per esserci anche quest’anno. Ma in realtà in questa nostra chiacchierata gli spunti sono veramente tanti.
Come è nata l’operazione “Covid-19 Sosteniamo la Musica”? Quali sono stati i passaggi logici e poi quelli operativi per completare il progetto?
Il progetto è stato lanciato per la prima volta da Spotify a livello globale in collaborazione con organizzazioni che aiutano gli artisti, i professionisti e i lavoratori del settore più bisognosi in tutto il mondo. Tra i partner del lancio ci sono MusiCares negli Stati Uniti e la PRS Foundation e Help Musicians nel Regno Unito. In Italia, Music Innovation Hub ha soddisfatto tutti questi requisiti, e abbiamo deciso di partecipare al lancio italiano per dare ai fan un modo semplice per fornire il supporto di cui ha bisogno la comunità musicale globale.Come impresa sociale siamo una SPA: ad esempio abbiamo un obbligo assoluto di trasparenza, e ogni anno compiliamo e diffondiamo un report di impatto sociale che renderà facile osservare le diverse operazioni che svolgeremo. Accetteremo donazioni direttamente dal pubblico e le distribuiremo secondo lo scopo concordato. Per ogni euro donato a MIH attraverso la pagina Spotify COVID-19 Sosteniamo la Musica, Spotify ne donerà un altro, fino a un totale complessivo di 10 milioni di dollari a livello globale (includendo tutte le organizzazioni partner fino ad oggi): ci auguriamo molti contributi per rendere il plafond il più consistente possibile, al fine di coprire il maggior numero possibile di richieste. Abbiamo ragionato a lungo su quali soggetti potranno aver accesso a questo fondo ed abbiamo dovuto operare delle scelte escludendo alcune categorie già incluse in altri progetti di sostegno, come le imprese o i lavoratori dipendenti per esempio. Sosterremo l’iniziativa con campagne di comunicazione e stiamo già ricevendo l’interesse di operatori che vogliono far confluire in questo fondo i proventi di iniziative. Serviranno costanza ed impegno, ma anche creatività; e soprattutto, speriamo si capisca da parte dei music lovers l’importanza di sostenere l’intera filiera musicale.
A prima vista l’obiettivo pare molto ambizioso: si parla di contributo una tantum di 500 euro per una platea potenziale relativamente vasta. Avete provato a stimare quale sarebbe a pieno regime un livello ottimale di riuscita dell’operazione? Detto anche in altro modo: “Covid-19 Sosteniamo la Musica” è un utilissimo sasso gettato nello stagno, o una operazione di reale, immediato aiuto sistemico per il comparto?
Le stime sono difficili, perché il sistema attuale non “registra” in maniera efficace il comparto. I dati che abbiamo visto in questi mesi sui fatturati dei vari settori sono a volte contrastanti e c’è chi parla di centinaia di migliaia di addetti fuori dai radar. Su questo sarebbe auspicabile un processo di digitalizzazione dei dati, una revisione ed un ammodernamento del sistema di raccolta delle informazioni che consenta uno screening preciso del comparto musicale. In ogni caso l’impatto potrebbe essere ampio se le donazioni sia dei privati che degli enti che stiamo contattando saranno generosi. Mi viene però da dire che un sistema di charity in qualche modo risponde ad un’esigenza di contribuzione immediata, e non è in ogni caso una risposta a problemi strutturali. Assolutamente. Ma credo sia comunque qualcosa di concreto e soprattutto mai visto per un settore che, di solito, è visto come il veicolo per il sostegno ad altre cause ma che oggi ha bisogno di essere innanzitutto riconosciuto come un sistema economico e professionale, oltre che culturale e sociale.
Il settore musica deve essere riconosciuto come sistema economico e professionale, oltre che culturale e sociale
L’operazione nasce appunto con l’appoggio – importante, anche in termini numerici – di Spotify. E’ di sicuro un brand “ingombrante” per il mercato musicale, perché accusato da molti di impoverire la filiera specificatamente lì dove nasce il tutto, ovvero tra gli artisti. Come si può rispondere a questa criticità?
Credo che le piattaforme di streaming debbano innanzitutto essere considerate parte integrante della industry, e non trovo che siano soggetti “ingombranti“. Di sicuro una iniziativa come questa mostra l’interesse ad essere vicini alla filiera tutta, una visione non scontata; e credo che nel rispetto degli interessi di tutti lo streaming sia uno strumento ormai irrinunciabile di diffusione della musica e, per tanti versi, anche un modello di business sostenibile. Personalmente, credo che molto ancora si debba fare sul percorso della digitalizzazione per consentire a tutti di destreggiarsi al meglio con gli strumenti che oggi la rete mette a disposizione degli artisti e degli operatori, a partire dalla tutela dei diritti di proprietà intellettuale che è un interesse assolutamente primario su cui ragionare.
Da dove nasce l’esigenza di creare un particolareggiato elenco di figure professionali, ovvero uno snodo fondamentale nell’architettura di “Covid-19 Sosteniamo la Musica”? E’ un tentativo di mappare il comparto (ragionando sugli “esclusi” dagli aiuti statali), o è proprio una necessità operativa?
Le categorie scelte sono sostanzialmente quelle dei contratti collettivi di lavoro: nessun tentativo di mappatura concreta, ma forse alla fine del percorso i dati raccolti potranno anche raccontare in termini numerici da chi è composta la filiera. E’ stato importante, credo, ed anche unico l’atteggiamento aperto a diverse aree di attività includendo lavoratori impegnati in settori che, come la comunicazione e la costruzione di strumenti, non vengono automaticamente in mente quando si pensa al comparto musicale ma che sono parte fondamentale della filiera.
Allargando l’obiettivo, Music Innovation Hub sta avendo un ruolo molto importante nell’elaborare strategie e proposte in tempi di Coronavirus, grazie a progetti come Next Stage Challenge che implicano anche un rapporto con un network europeo. A vostro avviso, dobbiamo ragionare in termini di emergenza da superare, per poi tornare alla “normalità”, o stiamo per affrontare un vero e proprio cambio di paradigma?
La normalità arriverà presto, anche prima di quanto ad un certo punto si pensasse. Nel frattempo ci stiamo tutti chiedendo se questo lockdown ci abbia insegnato qualcosa: a mio avviso il mondo della musica ha imparato a sue spese che un sistema che si regge quasi esclusivamente sulla live music non è sostenibile e l’instabilità è data, a mio avviso, dallo scarso valore che la musica ha in generale per i suoi consumatori, o music lovers. Non esiste credo un “prodotto” che abbia al tempo stesso una rilevanza culturale e sociale così importante per il quale esista, al tempo stesso, una così bassa attenzione istituzionale; e credo che questo debba decisamente cambiare a partire dalla attitudine dei lavoratori della musica a partecipare democraticamente alla scrittura delle regole, attivando un dialogo mediato da organizzazioni intermedie di rappresentanza. Il valore è troppo basso anche verso il consumatore, che spesso è inconsapevole del lavoro necessario per produrre una traccia o un concerto. Abbiamo visto crescere progressivamente negli ultimi anni i risultati economici degli eventi dal vivo, ma in pochi si sono accorti che locali, club e realtà indipendenti sono entrati in una dimensione di difficoltà strutturale, proprio per lo scarso riconoscimento del loro lavoro. Gli stessi artisti poi sembrano non accorgersi di quanto possa essere controproducente trasformare ciò che producono in una commodity… Il cambio di paradigma è proprio sulla dimensione di valore della musica, senza la quale – Covid o non Covid – il tutto non sta in piedi.
Quanto e fino a che punto è trasferibile sull’on line la fruizione “normale” del clubbing, delle discoteche, dei concerti?
La distinzione che proponi secondo me appartiene ad un mondo che non può essere trasferito in rete. Non ha senso il club on line, ed in qualche modo neppure il classico concerto; ma credo che tu convenga invece con me sul fatto che club, festival, promoter possano anche essere visti come media, in quanto capaci di alimentare una propria community. A questo punto, se hai una community, o gli strumenti disponibili in rete, o quelli nuovi che ad esempio stiamo ritrovando nel percorso che hai citato di Next Stage Challenge (dove si sono iscritti oltre 540 sviluppatori di 39 Paesi diversi), essi devono essere usati con un approccio che definirei “nativo digitale”, mettendo cioè da parte logiche e progettualità che si sono consolidate in altro modo. In ogni caso per tutti è necessario un processo di digitalizzazione: che non vuol dire per forza eventi on line, ma in generale significa utilizzare la tecnologia per amplificare i propri messaggi, per “aumentare” le esperienze, per fidelizzare il proprio pubblico.
Un dato molto interessante, uscendo dalla musica e sconfinando nell’editoria, è quello recente del New York Times che ha visto quote record per l’utenza a pagamento sul web. Potrebbe essere l’inizio di una rivoluzione (…o restaurazione, a seconda dei punti di vista). La musica quanto è indietro nella strada di estrarre valore economico da internet? Quali sono gli sviluppi futuri?
Credo che siamo entrati in un’era nuova: l’Italia ha imparato ad usare la rete come mai prima d’ora, e quando le chat rooms entrano nelle aule scolastiche è facile immaginare che in un prossimo futuro ci possa essere un pieno utilizzo del potenziale che in altri Paesi è pienamente sfruttato da tempo. La musica estrae valore da internet soprattutto quando sono diffuse le tecnologie; e quando si uscirà definitivamente da un preoccupante analfabetismo digitale, avremo una totale conversione di molti mercati in chiave digitale. Ma mi auguro anche che finisca l’era – a mio avviso temporanea – di un distacco totale da ciò che la tecnologia può offrire. MI spiego meglio: se usi la rete come semplice fruitore, la usi per una percentuale bassissima delle sue potenzialità. Devi invece capirne i meccanismi e sfruttarne le opportunità anche difendendo l’indipendenza e l’autonomia, che a volte sono il vero asset di artisti, movimenti, media. Per ora abbiamo visto una trasformazione – con il cosiddetto web 2.0 – della rete in grande raccoglitore di contenuti fondamentalmente gratuiti. Forse è arrivata una nuova era: quella in cui i contenuti sono maggiormente qualitativi, selezionati, di valore. E forse, nel web 3.0 o 4.0, soprattutto i contenuti protetti da diritti di Proprietà Intellettuale – non solo musica – e realizzati con professionalità avranno finalmente quel giusto riconoscimento economico, che è alla base dell’indipendenza del sistema.
Per tutti è necessario un processo di digitalizzazione: che non vuol dire per forza eventi on line, ma in generale significa utilizzare la tecnologia per amplificare i propri messaggi, per “aumentare” le esperienze, per fidelizzare il proprio pubblico
Quali sono invece le prossime mosse di Music Innovation Hub?
Siamo partiti con un ciclo di Linecheck Warm Up digitali, appuntamenti quindicinali che oltre a raccontare i risultati che raggiungeremo con il fondo potranno anche servire a ritrovarsi per discutere argomenti caldi o più di prospettiva. Abbiamo cominciato il 13 maggio con un appuntamento focalizzato sul valore della musica. Ci serve anche per prepararci ad accogliere il pubblico di addetti ai lavori della sesta edizione di Linecheck, fissata per la terza settimana di novembre e che avverrà in modalità online o ibrida, se le regole imposte dal governo ci permetteranno di avere pubblico negli spazi di BASE Milano.
Domanda finale, ed è una domanda forse impegnativa: lo Stato italiano investe troppo, troppo poco o troppo male in cultura e musica?
Investe sicuramente molto poco in generale sulla cultura e sulla musica, e di sicuro pochissimo sulle musiche attuali. Un trend che negli ultimi anni stava cambiando, vero, ma si potrebbe fare di più. Ma non credo che il tema siano solo le risorse economiche quanto appunto quello dei meccanismi di investimento costruttivo e strategico. Se sostieni una istituzione a fondo perduto fai bene, ma se investi per il suo rinnovamento forse fai meglio. Serve però che lo Stato abbia una interlocuzione con dei soggetti credibili per poter elaborare le giuste strategie – ed in questo momento alcuni comparti sono rappresentati degnamente, altri meno.