La notizia è di ieri notte: si ferma l’Ultra Music Festival, causa Coronavirus, almeno secondo quanto anticipa il Miami Herald (ma al momento in cui scriviamo, nessuna conferma ufficiale da parte dell’organizzazione: le ultime voci parlano di un rimandare di qualche mese). Brutta notizia, se vera, per gli appassionati americani; e brutta notizia per tutte le persone che dai quattro angoli del globo si erano presi biglietti aerei, alberghi, ferie per esserci (tutte cose per lo più non rimborsabili), brutta notizia perché evidentemente la crisi da epidemia – in Germania addirittura ora si inizia a parlare di pandemia – rischia di diventare un problema su scala globale per l’industria dello spettacolo. Ora c’è da capire cosa succederà con Coachella (che si svolge nello stato americano, la California, al momento coi maggiori problemi di diffusione del virus), ma addirittura più di un segnale allarmante arriva per dire da un Glastonbury. A cascata, ogni singolo festival diventa a rischio, a partire dai Moloch per eccellenza, vedi Tomorrowland o Primavera Sound. Vuoi per la presenza del virus fra la popolazione, vuoi perché è tutto un sistema “a catena” in cui se si spezza un anello, anche solo un singolo anello, si annullano poi interi tour, intere produzioni, e pazienza per i “danni collaterali”.
Cinicamente: se il problema diventasse così diffuso su scala planetaria e con vittime così eccellenti e gigantesche, pur nella disperazione il settore italiano potrebbe tirare un vago sospiro di sollievo. Non sarebbe infatti più un problema “solo italiano” quello degli eventi annullati per cause di forza – o di ordinanza – maggiore. Non saremmo più solo noi i melodrammatici da compatire, mentre nel resto dell’Europa e del mondo – eccezion fatta per Cina e forse zone limitrofe, ma là si sa “…son strani” – la vita scorre tranquilla, solo con qualche precauzione in più. Il panico ha un costo. Noi italiani lo abbiamo pagato per primi, con ordinanze in ordine sparso, talora contraddittorie e poco comprensibili; a partire da ieri però, nel bene o nel male, sembra che finalmente le nostre amministrazioni stiano parlando con una voce sola. Ad ogni modo, dicevamo: se il Coronavirus diventa un problema di tutti, non solo dell’Italia o di Wuhan (perché sì, se seguite i media esteri moltissimi considerano il Coronavirus un problema prettamente cinese ed italiano… fa davvero impressione), forse c’è la speranza che ci sia una risposta comune al problema. Una risposta quindi più forte, con più pezze d’appoggio istituzionali. Soprattutto con una solidarietà internazionale. In momenti di crisi, la solidarietà – non solo a parole, ma concreta, con scelte pratiche e reali – è una delle migliori monete correnti. Più ce n’è, più è al centro del discorso pubblico, meglio è.
…e di solidarietà ce ne sarà bisogno proprio parecchia, visti i pesantissimi effetti economici che ci saranno. Stando all’Italia, grande diffusione ha avuto questo articolo. “Senza eventi, senza investimenti e senza flusso di partecipanti chiude l’Italia”: se all’inizio si poteva pensare alla solita presa di posizione corporativa di uno spicchio minoritario di lavoratori (per giunta dediti a cose in fondo “inutili”), più si va avanti più c’è invece modo di rendersi conto che la crisi non riguarda solo quattro saltimbanco e due milanesi ossessionati dal presenzialismo e dalla produttività (…ah, che gaffe la retorica “produttivista” di #milanononsiferma) ma tocca nel concreto intere filiere, intere famiglie, intere collettività e cinghie di trasmissione (e sopravvivenza) sociale. Fino al 3 aprile – salvo correzioni di rotta in corsa che il decreto emanato, a leggere bene, non esclude – l’Italia si ferma a metà, tra scuole, eventi culturali e sportivi contingentati e/o a porte chiuse, grandi manifestazioni fieristiche sospese, in generale una vita collettiva ed economia posta letteralmente sotto quarantena. Senza contare che non è che poi dal 4 aprile tutto tornerà come prima: ci vorrà un bel po’ prima che la macchina della normalità, sull’economia degli eventi e non solo, torni a regime.
Come ci si comporta coi lavoratori dell’economia degli eventi che sono, in grande parte, lavoratori atipici e quindi senza nessuna forma di ammortizzatore sociale?
Insomma, so’ cazzi, per dirla in maniera tecnico-scientifica. Quali sono le misure previste dalla nostra amministrazione? Come ci si comporta coi lavoratori dell’economia degli eventi che sono, in grande parte, lavoratori atipici e quindi senza nessuna forma di ammortizzatore sociale? Se per uno o due mesi sono impossibilitati a lavorare e quindi a guadagnare per legge, in che modo si pensa di aiutarli? Non abbiamo ancora visto mezza proposta, in tal senso. Questo è grave. Ed è altrettanto grave che non si sia ancora capito come venire incontro a quelle imprese – che generano lavoro, pagano stipendi, creano valore – impossibilitate, pure loro, a lavorare. Eppure si dà per scontato che, lì dove ci sono dei contratti in essere, esse continueranno a pagare gli stipendi. Come? C’è chi ha dei margini, e può permettersi di restare a galla operativamente anche a margine di un calo del 20/30% annuo di fatturato (stima medio-ottimistica); c’è chi va gambe all’aria. Per ora, senza nessuna rete di salvataggio sotto di sé.
E’ chiaramente utopistico pensare ad un sistema di contributi a pioggia. Un po’ perché sarebbe come tentare di svuotare un lago con un cucchiaio, un po’ perché l’Italia è storicamente un posto dove i contributi pubblici sono distribuiti spesso a pene di segugio e cui si giovano più i furbi che i meritevoli (implicitamente, lo spirito dell’italianità spinge a sostenere che essere furbi è in realtà un merito apprezzabile: uno dei cancri storici di questa nazione, o chissà, forse il motivo per cui è così bella, pittoresca e creativa). Dovendo fare una proposta, ci parrebbe più corretto pensare a delle moratorie fiscali (tasse differite e, in parte, condonate): ma c’è da chiedersi fino a che punto sia una strada percorribile per uno stato che ha già pesantissimi problemi di debito pubblico – un sentito grazie a chi negli anni ’80 e anche dopo, tra nani e ballerine e prebende democriste questo debito lo ha fatto esplodere, di fatto raddoppiandolo. Dandoci un raggio d’azione limitatissimo, a meno di non voler uscire dall’euro (cosa che però avrebbe conseguenze catastrofiche: se torni alla lira la lira si svaluta inevitabilmente rispetto all’euro, esplode l’inflazione, i tuoi averi diventano in breve tempo carta straccia e vai ad infilarti in un tunnel che porta, salvo imprevisti colpi di scena, verso l’essere un paese del Secondo o Terzo Mondo, con istituzioni fragili ed inefficaci e una società fratturata).
Non siamo ministri, non siamo economisti, non possiamo quindi fornire delle proposte concrete; ma mettere sul piatto i problemi, beh, quello sì. E la risposta deve essere politica. Ci sono scelte da fare. E’ stato bello vedere finalmente uno Stato che prende in mano la situazione e decide qualcosa in maniera unitaria e condivisa, almeno questa è la sensazione di ieri. Non ci sarebbe per niente piaciuto sentire che ogni scelta veniva delegata solo ed esclusivamente a non meglio identificati “comitati scientifici”, perché la scienza ha leggi che non per forza sono coincidenti con quelle dell’umanità (…un esempio terra terra? Se a decidere fossero i medici su criteri esclusivamente sanitari, il clubbing e la musica elettronica non sarebbero mai dovuti esistere: deprivazione del sonno, inversione del ritmo circadiano, uso di stupefacenti, volumi alti: proibire, limitare subito!). Ci vuole una mediazione politica. Una mediazione cioè, proprio per etimologia dell’aggettivo, che medi fra interessi diversi e talora contrastanti delle persone, alla ricerca del migliore punto d’equilibrio (ecco, a proposito: questo ci sembra il miglior articolo apparso finora sulla questione Coronavirus in Italia).
La risposta deve essere politica
L’importante è non farsi prendere dal panico e dalla demagogia. E’ il panico che ti fa credere terribile il pericolo del Coronavirus (che effettivamente può creare disastri sociali e sanitari, se si fa pandemia fuori controllo) e non vedere invece quanti sono ogni anni i morti per influenza comune, polmonite, inquinamento, traffico, conflitti, diseguaglianze sociali, squilibri ambientali: un “virus” è qualcosa che evoca paure ancestrali, qualcosa che ci sembra fuori controllo, lo stesso meccanismo per cui nessuno ha paura di mettersi in viaggio in auto e molti invece hanno paura di volare, quando tutti gli indicatori statistici dimostrano che è molto più sicuro un aereo di un automobile. Sul panico si innesta, come il più infausto ed incattivito dei covid-19, la demagogia: cinici senza scrupoli che sfruttano panici sociali – ingigantendoli – per lucrare politicamente sul breve termine ed agguantare per sé nuove fette di potere. Chiunque in questo momento drammatizzi la situazione per fare bella figura e per dire “Eh, ma se fate decidere a me risolverei io meglio la cosa” è uno sciacallo e un criminale. E’ il momenti di unirsi collettivamente: c’è un’imprevista emergenza sanitaria ed economica in corso. Non è però il momento di sospendere il dibattito pubblico, perché esso è sempre sano e fondamentale: le decisioni prese da amministratori ed esperti vari vanno rispettate, ma vanno comunque discusse – per capire se c’è margine per migliorarle. Nessuno ha la soluzione in tasca. Se ne viene fuori tutti insieme, con l’intelligenza collettiva, con condivisione e solidarietà sociale.
Una cosa è certa. Per almeno dieci giorni, capiremo in tutta la nazione – e non solo fra “bauscia” imbruttiti milanesi – quanto è più povero un paese dove l’economia della cultura, degli eventi e della socializzazione viene posta tutta in quarantena. Più povero in soldi, più povero nello spirito, più povero nella capacità di affrontare le sfide della contemporaneità.