E insomma: la musica elettronica ha smesso di essere la musica ‘per eccellenza per sognare, la musica insomma della trascendenza, dell’andare “oltre”? Iniziamo a chiedercelo, sì, forse è meglio. Anzi: è necessario.
Perché questa domanda ti può effettivamente capitare addosso se pensi alle adunate dance “nostre”: dove ciò che conta è l’euforia controllata, l’esserci, l’esserci magari con le mani alzate ad ogni drop, sì; ma ballicchiando invece un po’ contenti un po’ assenti, mentre la tech-house incalza sulla fattanza. Un contesto bello, divertente, comunitario – ma molto “controllato”, molto irregimentato, pieno di una serie di codici da rispettare (e infatti vedi che ormai nelle serate techno e house sempre più ci si veste in maniera simile, adottando dei codici ben precisi, che sia il vestirsi di nero o la zarrìa più o meno firmata e fashionista da rapper di periferia ripulito). Il dancefloor era la terra delle libertà ed era il posto dove esprimersi nel modo più aperto e, se necessario, anche scomposto, di sicuro fantasioso ed onirico; sempre più invece sta diventando un pranzo di gala, pieno di codici impliciti da rispettare e di gente che pensa più a rispettarli, questi codici, che ad ignorarli e “superarli”.
Non va bene.
Ecco perché vogliamo portare alla vostra attenzione due dischi abbastanza diversi fra loro, ma che hanno però delle matrici in comune. Per entrambi, infatti, si tratta di un “tradimento” il fatto di avvicinarsi a un certo tipo di elettronica: Mace – lo conoscete tutti – è diventato un mago del pop commerciale ma alto “avanzato”, partendo da un background hip hop al 100% (e fu uno dei primissimi in Italia ad intuire le potenzialità della musica ed estetica trap: ce lo si dimentica, per il fatto che lui poi non ha mai voluto cavalcare questa cosa quando era facile farlo). Maria Chiara Argirò parte da un background molto diverso, quello del jazz accademico, e ad un certo punto aveva tutto per entrare nel “giuro giusto” del jazz hipsterizzato contemporaneo: lo stare a Londra in primis, le frequentazioni e collaborazioni giuste in secundis (…e volendo, in epoca di –peraltro doverosa – ansia di gender equality, poteva cavalcare il fatto di essere donna). Avesse un fatto un disco alla Comet Is Coming o alla Domi & JD Beck (e aveva tutti i mezzi per farlo), avrebbe seguito la strada più semplice, ovvia, al momento fruttifera.
Entrambi, invece, si sono autosabotati e hanno scelto nel farlo una via elettronica. Mace dopo il super-successo di “OBE” si è spinto “Oltre”, ed è andato a toccare i terreni dei dancefloor tech-house “elaborati”, quelli alla Bicep tanto per dare un riferimento facile ed immediato, qualcosa che è davvero molto poco di moda oggi, magari funziona ma è poco – ehm – cool; Maria Chiara ha dato una svolta elettronica alla sua musica con “Forest City”, andando ad inseguire molto di più i Radiohead post “Kid A” che i Kamasi o gli Shabaka.
Ascolta e scarica in alta qualità su Qobuz “Oltre” di Mace
Ascolta e scarica in alta qualità su Qobuz “Forest City” di Maria Chiara Argirò
Hanno forse fatto male in termini di opportunità strategica e, appunto, di indice di coolness; ma hanno veramente bene a livello artistico. Ecco, su “Oltre” di Mace si potrebbe magari dire che la seconda metà del disco non è all’altezza del folgorante inizio: l’iniziale “Breakthrough Suite” è ambiziosa già dalla durata – una ventina di minuti – ma regge benissimo questa ambizione, e questo è tanta roba, la successiva “Singularity” è davvero un piccolo capolavoro (e si sente la mano di Venerus, che collabora alla scrittura), “Ologramma” starebbe benissimo in un disco di Bonobo, anzi, in un gran bel disco di Bonobo. Da “Estasi” in poi si cala invece un po’, e forse “Rituale” e “Serpente cosmico” si poteva addirittura pensare di non metterle nel disco: non perché siano brutte, ma comunque sono due episodi relativamente deboli e “telefonati” in un album complessivamente proprio bello. E che si prende un sacco di rischi, non lavorando alla cazzo ma mettendoci invece una cura ed una competenza maniacale nel combinare digitale ed analogico, spinta dance e ricchezza di scrittura.
Maria Chiara Argirò – di cui vi consigliamo di recuperare il più jazz ed acustico “Hidden Seas” di tre anni fa, un gioiellino passato troppo sotto silenzio – applica la sua notevole competenza da jazzista nel gestire i cambi armonici ad un piglio come dicevamo radioheadiano, da pop stralunato, etereo, meditativo, trasfigurato, e tira fuori un disco che non può che accompagnarvi nel migliore dei modi quando volete concedervi un po’ di riposo dal logorio della vita moderna, di ricarica emotiva, di eleganza, il tutto senza mai cadere nello stucchevole. Difficile parlare delle tracce migliori; ci verrebbe da citare “Greenarp” o “Clouds” o “Treehouse”, ma in generale la qualità è proprio costante e la Argirò ha talento e competenza a profusione.
Però ecco: entrambi questi dischi (ri)portano l’elettronica, che si tratti di quella dancefloor (Mace) o di quella più da ascolto (Argirò), in un posto dove vorremmo stesse molto, molto di più: quello della musica che ti invita prima di tutto a meditare, a viaggiare coi pensieri, a cavalcare le curve dell’immaginazione invece che solo l’adrenalina del sudore o l’hipsteria del narciso sempre up-to-date. E non è un caso che tutto questa accada nel momento in cui gli artefici dei dischi in questione hanno deciso di non seguire la via più facile e prevedibile. Hanno fatto, invece, ciò che un qualsiasi manager bravo+cinico avrebbe loro sconsigliato: invece di battere il ferro finché è caldo (ed è un ferro che è “loro”, eh) nei rispettivi terreni d’appartenenza, hanno scelto di scartare di lato, attraversando terreni in parte per loro sconosciuti o comunque più impervi e meno famigliari.
Vogliamo più dischi così. E vogliamo ascoltarceli per bene. Sognare richiede infatti il suo tempo, richiede il suo modo.