Davide Squillace è uno dei punti di riferimento della scena dance partenopea. Assieme a Marco Carola, Danilo Vigorito, Parisio e Cerrone rappresenta la old school che da Napoli ha imposto un certo modo di vedere il suono techno, contaminato con hardgroove e un’innegabile vena funk, ormai su scala planetaria. Nella Napoli con gli scantinati in fermento dei primi anni ’90 comincia a coltivare la propria passione per la musica elettronica. La parentesi londinese, alla fine di quel decennio, diventa un formidabile laboratorio per mettere a fuoco la propria visione musicale. E, infine, il trasferimento a Barcellona, nel 2004, dopo il completamento degli studi in ingegneria del suono, si manifesta come il vero punto di svolta di una carriera che pare riservare ancora molte sorprese. Come se ogni tappa del lungo viaggio fosse solo la premessa per la proiezione successiva. Le produzioni sulla Desolat di Loco Dice e sulla Cadenza di Luciano sono state un innegabile trampolino di lancio ma non meno importanti sembrano le evoluzioni marchiate Get Physical, Hot Creations, Genetic, Design, Primate e Ovum. A pensarci bene, però, questa prodigiosa serie di release possiamo anche immaginarla come una lunga teoria di nodi utile a tessere un’altra trama, quella delle sue etichette personali: Sketch, Minisketch, Hideout and Titbit. A loro volta interpretabili come incubatori per il lancio di This And That Lab del 2012: un vero e proprio laboratorio artistico che ricerca ideali punti di fusione tra musica, design, scrittura e arti visive. La residenza artistica al Circoloco di Ibiza, cominciata nel 2007 e tutt’ora in corso, è stata fondamentale anche per entrare in contatto con Matthias Tanzmann e Martin Buttrich, tra i suoi principali collaboratori attuali ma non meno importanti sono state le innumerevoli date nei club più prestigiosi del mondo. Forse è Blender il progetto che meglio rappresenta la necessità di Squillace di spingere sempre oltre i limiti della propria creatività artistica. Si tratta di un concept che rende unico ogni evento, ibridando le performance musicali con il flusso dei dati che le riguardano, la stampa tridimensionale con una ricerca estetica iper-contemporanea. Lo abbiamo sequestrato per qualche ora, di passaggio nella sua Napoli, tra due eventi cruciali: l’uscita del suo nuovo album “One Upon A Time In Napoli”, con il videoclip che vi presentiamo in anteprima, e il passaggio da Boiler Room a Città del Messico, nel mezzo di un fitto tour sudamericano.
Il tuo nuovo album su Crosstown Rebels si chiama “One Upon A Time In Napoli”. È un periodo molto particolare e bello per la scena napoletana. In vari ambiti musicali. Mentre penso a come formularti questa domanda sto sfogliando un bellissimo libro, United Tribes, che racconta uno degli inizi possibili di questa storia. Tu cosa ricordi della tua formazione partenopea? Che club frequentavi? Chi erano gli artisti che ti ispiravano?
United Tribes sono stati fra i primi, agli inizi degli anni ’90, a portare la scena elettronica internazionale in Italia. Indirettamente dobbiamo molto a loro per parte della nostra formazione musicale. Loro già facevano “clubbing” come lo intendiamo oggi e io andavo ancora a scuola. Sono riuscito a partecipare solo all’ultimo dei loro eventi, nel 1995. L’ospite principale era Darren Emerson degli Underworld. Ce l’ho stampata in memoria come una notte assurda: ad un certo punto la musica si interruppe per un guasto e partì una performance di tromba surreale.
I club che ricordo con più affetto sono il Cube ed il Ciao e varie location senza nome. Erano gli albori della scena dance partenopea e a plasmare il nostro immaginario musicale erano soprattutto la progressive house londinese (con artisti come Fabio Paras, Paul Daily, Billy Nasty, Dean Tatcher) e quel mix di garage e house Made in USA che aveva in Little Louis Vega, Tony Humphries, Dave Morales e Frankie Knuckles i suoi numi tutelari. Personalmente sono stato invece folgorato dalla techno minimale di Detroit e Chicago, conosciuta attraverso le produzioni di Richie Hawtin, Jeff Mills, Model 500, Damon Wilde, Underground Resistance e così via. Della musica inglese di quel periodo ho amato invece Planetary Assault System di Luke Slater, The Advent di Cisco Ferreira e Steve Bicknell.
È appena uscito “Nuova Napoli” un altro lavoro che vede uno storico dj napoletano, Massimo Di Lena, collaborare con Lucio Aquilina nel progetto Nu Guinea, alle prese con la reinterpretazione di una eredità importantissima. Cosa ti piace della nuova scena musicale napoletana? Chi ti sembra stia facendo le cose più interessanti?
Napoli, come al solito, sforna progetti interessanti con svariate influenze. Il che mi rende molto orgoglioso della mia città. È troppo facile e distorto il luogo comune secondo il quale quella città è il simbolo stesso del crimine e del sottosviluppo. Napoli è anche e soprattutto arte e creatività. Liberato parteciperà al Sonar; Quiroga e Nu Guinea stanno reinterpretando la tradizione jazz-funk-tropical napoletana; la scena hip hop è ancora fortissima. Sono progetti anche molto diversi tra loro ma siamo tutti uniti dal background di una città complicata. Ognuno ha scelto il proprio stile, il proprio linguaggio ma tutti abbiamo tradotto le difficoltà oggettive in energia positiva da cui trarre ispirazione.
Ascoltando “One Upon A Time In Napoli” mi è sembrato di sentire una sorta di concept che tiene saldamente insieme tutte le tracce, una sorta di biografia personale che però è anche il racconto ritmico di una generazione intera: Quanto, in questa storia c’è di personale e quanto di condiviso con altri?
In questo disco racconto la mia evoluzione, partendo dalla storia di un adolescente a Napoli, passando per la maturazione a Londra ed arrivando a quello che sono ora, con la saggezza di chi ha girato e vissuto nel mondo. Ho voluto virtualmente includere tutti i miei amici e conoscenti: la mia storia, i club ed i concerti, le persone interessanti e quelle meno, i posti che ho visto e le culture che ho conosciuto. “Once Upon A Time In Napoli” rappresenta un sorta di sintesi della mia esperienza ad oggi. Musicalmente non ho cercato un filo rosso ma ho privilegiato una narrativa eclettica, fatta di sensazioni ed emozioni tradotte in sound.
L’album è accompagnato dall’uscita di un video girato in una Napoli surreale, magica ed onirica. Il video è diretto dalla regista Simona Lianza, scritto da Alessandro Giglio, prodotto da Alan Vele e Massimiliano Abbatangelo, il mio manager, con la fotografia di Luca Cestari e la partecipazione di giovanissimi attori partenopei. È un omaggio alla cultura contemporanea napoletana fatto da professionisti napoletani per Napoli.
La tua lunga residenza al Circoloco è stato un passaggio determinante nella tua carriera internazionale. In che modo ha influenzato tutto quello che hai fatto dopo?
Drasticamente. Il Circoloco mi ha fatto crescere molto come persona e come artista, mi ha fatto capire tante dinamiche del clubbing e delle politiche dell’isola. Li ho vissuto molti momenti d’estasi e conosciuto gente incredibile. Circoloco è come una seconda famiglia per me.
La scelta di trasferirti a Barcellona come l’hai maturata? Puoi raccontarci cosa state combinando in quella sorta di Factory nella quale state convogliando energie e creatività?
Barcellona è una città fantastica. Cosmopolita ed industriale ma allo stesso tempo mediterranea e vivibilissima. Non a caso è divenuta meta di centinaia di migliaia di stranieri, molti dei quali lavorano proprio nell’hi-tech e nell’entertainment. Dopo Londra ho preferito ricongiungermi con la mia anima latina e mi ci sono stabilito in tempi non sospetti, ormai quindici anni fa. Per quanto riguarda il nostro HQ che curiosamente si trova tra due strade chiamate “Napoli” e “Sicilia” è tutto in divenire. Abbiamo fatto convogliare diverse realtà tutte relativamente collegate: il mio studio musicale, quello di Haiku 575, l’etichetta This And That, l’ufficio di Grade Management, l’agenzia di booking Bullit e la sede di Blender, progetto che sto sviluppando con Ivan Maria Vele e Massimiliano Abbatangelo ed un team dedicato.
E alla Crosstown Rebels di Damian Lazarus come ci sei arrivato? Perché hai scelto quella come etichetta ideale per fare uscire l’album?
Sono da molto tempo amico di Damian e fan della label ed ho sempre pensato che fosse la piattaforma ideale per un album del genere, una label non mainstream ma con un seguito non solo di hard clubbers. Una piattaforma seguita da gente con un’ottima cultura musicale. Il che mi è sembrato un ottimo contesto per valorizzare l’album. Molto semplicemente ho chiamato Damian e gli ho detto “ho qualcosa per te“…
Sketch, Minisketch, Hideout e Titbit sono state alcune delle etichette che hai creato. Ma il progetto This And That, lanciato nel 2012, sembra avere caratteri molto particolari. Quali sono le differenze peculiari rispetto alla altre tue label?
In realtà ho sempre pensato alle mie etichette come progetti temporali, programmati per una durata specifica. Sia come produttore che come discografico non mi sono mai voluto incastrare in un unico progetto per troppo tempo. Sinceramente non so se è stata una strategia vincente o no, ma la mia creatività si nutre di irrequietezza e la strategia con le label non poteva che riflettere questo mio carattere personale. Mi conosco bene e so che ogni tanto ho bisogno di uno stop e poi di un reset completo. Non ho mai voluto elaborare una linea musicale radicale e ho sempre lasciato agli artisti una certa libertà di azione, senza troppi filtri o pregiudizi. Quello su cui siamo sempre concentrati è la qualità della musica e dell’estetica in generale. Con This And That invece abbiamo sviluppato un progetto più ad ampio raggio. La vediamo, allo stesso tempo, come una label ed una sorta di laboratorio creativo con il quale abbiamo anche pubblicato vinili con copertine firmate da importanti artisti contemporanei quali Piero Golia, Seb Patane, Giulia Piscitelli, Fabian Marti.
Tra le tante collaborazioni della tua carriera una sembra centrale, quella con Matthias Tanzmann. Avete progetti in lavorazione per l’immediato futuro?
Matthias è, prima di ogni altra cosa, un grande amico. Suoniamo spesso in sessioni back-to-back e abbiamo formato la band Better Lost Than Stupid, nella quale abbiamo voluto anche un altro dei miei migliori amici, Martin Buttrich. Insieme abbiamo recentemente firmato un album con BMG/SKINT e proprio in questo momento siamo nella fase di songwriting e produzione. L’idea è di finire un disco prima dell’estate, farlo uscire a fine anno e nel 2019 andare in tour con un live show.
Si parla anche di una tua prossima collaborazione con Butch, col quale spesso vi siete trovati in consolle. Puoi anticiparci qualcosa?
Con Butch è un continuo ridere. Ha un senso dell’umorismo molto dark con cui mi trovo a mio agio. Sono un suo grande fan e penso che per lui sia lo stesso. Abbiamo fatto qualche back-to-back per poi decidere di incontrarci in studio e fare musica. Devo dire che è andata molto bene perché entrambi siamo riusciti a contribuire senza imporre nulla. Due tracce con Butch usciranno sulla mia label, This And That, a breve.
Blender è uno dei capitoli più recenti nel tuo sforzo di immaginare un futuro della musica nel quale si annullano i confini tra composizione, performance, linguaggi visivi dell’arte…puoi parlarci di questo progetto?
Il progetto Blender parte da un desiderio ed un opportunità. Dopo tanti anni spesi nei club mi sono reso conto che delle gesta notturne “quasi eroiche” rimaneva poco o nulla. Qualche foto. Ricordi vaghi. Nulla delle emozioni condivise con il dancefloor. Ed è per questo che ho pensato di realizzare Blender. Inizialmente grazie alla collaborazione con il team di Boiler – l’agenzia creativa milanese – abbiamo prodotto una serie di eventi dove era possibile partecipare alla creazione di un artwork, in forma di una scultura digitale in 3D, stampata in diversi materiali. Abbiamo lavorato in concomitanza di Art Basel sia a Basilea che Miami, per poi presentare il risultato al Design Days Dubai e alla Soho House di Barcellona, durante il Sonar 2017. In questi mesi stiamo invece lavorando ad una vera e propria start-up. Blender diventerà un tool innovativo per la club scene ed allo stesso tempo un device di chi guarda al futuro della e nella nostra community.