Ora lo si può dire: girava una strana aria attorno a Nameless in alcuni contesti “abituali” sul web, quelli cioè dove del festival di Barzio più si discute, più si sa, più si parla: strana, sì, perché c’era una propensione alla critica e al lamento che negli anni precedenti non c’era in realtà mai stata. Soprattutto, ci si concentrava in un po’ di interventi su una cosa: la line up 2019 veniva vista come deludente. C’era chi si lamentava dell’assenza di headliner veri&pimpanti, e del fatto che quelli che ne facevano le veci erano invece per lo più vecchi e bolliti – su Aoki ci si esprimeva così, e non solo su di lui. Uno che è addentro al settore avrebbe potuto dire, giusto per far capire di essere “saputo”: ehi bello, guarda che quest’anno per sfighe di calendario cade in concomitanza con Ultra Korea, aka la poderosa estensione asiatica del vero giga-player globale della scena, e ci sono casi in cui se vai all’asta ne esci massacrato (ovvero: andare all’asta è stupido). A chi giova un Nameless massacrato? Che poi tra l’altro, poveracci all’Ultra coreano, gli sono saltati in rapida successione prima Garrix e poi Swedish House Mafia: come se al Barcellona in finale di Champions si infortunassero Messi e Suarez in riscaldamento. Quindi ecco.
Ma non è questo il punto. Il punto è che chi si è lamentato dalla line up lo ha fatto in effetti magari in buona fede e con buone intenzioni, seguendo il ragionamento del “Io che ho buona ed approfondita conoscenza di questa musica, posso dire che quest’anno la line up non è abbastanza forte”. E ok, non è un ragionamento assurdo: mica Nameless è al di sopra delle critiche. Ma forse questa conoscenza buona ed approfondita della musica e, di conseguenza, delle dinamiche che lo accompagnano, potrebbe spingere a fare un passo in più, prima di mitragliare giudizi sul web. Quale?
Nameless è una incredibile anomalia. Non lo diciamo noi perché il festival ci sta simpatico (effettivamente: ci sta molto simpatico); lo dicono invece praticamente tutti gli artisti che ci passano. Restano sorpresi dal fatto che ci sia un festival del genere, con un’affluenza del genere (quest’anno siamo arrivati a 50.000 presenze reali in tre giorni), in un contesto del genere (una valle molto poco fashion e abbastanza isolata, peraltro tuttavia molto bella), con uno spirito del genere: spirito che riesce a combinare in maniera davvero rara alta professionalità da un lato, giovane età di quasi tutti gli organizzatori e responsabili dall’altro, senso di famiglia&comunità dall’altro ancora. Chi vi scrive di festival ne ha visti a centinaia, e chi a Nameless ci suona non ne parliamo neppure: beh, a tutti capita di dire con meraviglia e felicità “Ehi, ma questo posto, questo festival è veramente speciale”, quando ci metti piede.
Capita di dirlo anche a chi, storicamente e magari pure con fondate ragioni, odia o comunque non approva particolarmente la galassia EDM. Oh sì. Se guardi sulla carta la line up, e se ti fai un’ascoltata preventiva di chi c’è sul main stage, potrebbe venirti l’itterizia: è proprio un “pensare diverso” rispetto alla techno e alla house, è un cambio ogni due, tre minuti, è un quasi continuo peak time, è una ricerca spasmodica&sistematica – e talora contemporanea – di bassoni urlati e melodie catchy in un tentativo riuscito di paraculismo-totale-globale che, se uno è tarato sul flusso della cassa in quattro e dei tempi di house e techno, appare bulimico e petulante. Ma appunto: se uno è tarato su quel flusso, solo su quel flusso, e se da quel flusso cocciutamente non vuole muoversi di un millimetro.
(il Main Stage; continua sotto)
Ora, la domanda è: è più importante un genere musicale o un essere umano? Vi spieghiamo il senso della domanda. L’EDM con tutte le sue diramazioni può farti schifo a priori, certo, e comprendiamo che tu voglia tenere questo punto proprio per principio, per certe dinamiche che l’EDM ha portato e magnificato; però ci sono due dati di fatti da considerare. Dati di fatto che dovresti davvero mettere in conto.
Il primo, è che la gente si diverte, emana una energia e una gioia che non può essere sottovalutata. Il secondo è che se ti togli le armature e i preconcetti di dosso ed inizi ad ascoltare, ti rendi conto che anche quella musica ha le sue sfumature, le sue sottigliezze, le sue sofisticate regole interne ed è capace di generare dei discorsi analitici che non ha nulla da invidiare a recensioni sull’ultimo Recondite o Young Marco. Cambiano i suoni, cambiano le intenzioni, cambiano i riferimenti; ed una musica che cerca ossessivamente solo il peak time ci lascerà sempre un po’ di dubbio; ma perché cadere nella trappola dei proprie genitori, anzi, dei propri nonni, e bocciare aprioristicamente con “Questa roba è solo rumore”…? Soprattutto, e arriviamo al secondo punto: perché farlo quando vedi che “questa musica” ha generato forse il più bel festival italiano, di sicuro quello più atipico (nel coniugare senso intimo e grandi numeri, spettacolarità e venue montane) e quello col management più giovane e lontano da tutte le strade già esistenti e già percorse dalle nostre parti?
Ci siamo già ritrovati gli anni passati a fare premesse simili parlando di Nameless ma, ormai ci siamo abituati, per certi concetti davvero repetita iuvant. Soprattutto per il lettore “storico” di Soundwall. Ora però vogliamo tornare invece non (solo) al “lettore storico di Soundwall” ma anche invece a chi è da sempre uno addentro alla galassia-Nameless, come dicevamo all’inizio: tirava un’aria un po’ così, attorno al festival. Ecco. E francamente, fatto salvo l’ovvio diritto di critica, siamo rimasti meravigliati di come anche parte di quella platea “nativa-EDM” (quindi il “brodo di coltura” di Nameless) non abbia capito il vero potenziale del festival.
Che non è la grandezza e nella potenza delle line up, amiche ed amici. Non lo sarà mai. Non è nella grandezza e nella potenza degli allestimenti (ok, per gli standard italiani e quelli tech-house Nameless lascia a bocca aperta, ma se uno guarda ai megaeventi olandesi o americani del genere Nameless è e resterà una simpatica festa fra amici). Manco lì lo sarà mai, salvo imprevedibili e mostruose crescite nei prossimi anni. Nameless è, davvero, un’anomalia. Segue altre dinamiche, non quelle dei “soliti” festival EDM. In passato lo avevamo paragonato a Bangface (sollevando l’indignazione di quelli che “Non accostate una cosa nobile come Bangface ad una porcata come l’EDM”, peccato che poi un set di Edmmaro sarebbe a mani basse un highlight e un oggetto di culto sfrenato al Bangface medesimo), volendo possiamo stavolta tirare fuori un altro paragone – meno nobile, via – e paragonarlo a Kazantip. Il senso di vivere in una bolla, ecco: in uno stato di grazia scollegato dalla normalità (…ma, a Barzio, privo della drogheria diffusa) lungo tre giorni, dove l’impossibile avviene, dove l’amico della porta accanto ventenne fa stare in piedi, da organizzatore, un festival che da altri parti è gestibile solo da megacorporation multinazionali (…la corporation c’è anche in Nameless, la Universal, che è entrata in società, ma è una presenza molto discreta e che non intralcia nulla sulla direzione artistica e sulle scelte strategiche, esattamente come gli sponsor ci sono ma con una presenza ragionevole&utile).
(panoramica sull’Igloo, la Ruota e, sullo sfondo, lo stage dedicato a indie, rap e trap; continua sotto)
Visto da fuori, Nameless è come un calabrone: non potrebbe volare, ma vola; non potrebbe essere un festival strepitoso e professionalissimo fatto così alla buona, ma lo è. O anche: non potrebbe fare così grandi numeri senza avere il codazzo di pubblico dozzinale, un po’ molesto, teppistello, droghereccio, arrogantello… invece, i grandi numeri li fa, e ti fa stare da dio umanamente. Si è costruito, negli anni e partendo dal nulla (perché il pubblico di Nameless è arrivato all’EDM prima che l’EDM diventasse nota anche alla casalinga di Voghera, è per certi versi fatto di fratellini minori di quella che fu l’ondata fidget, non di gente che si abbevera e basta ai diktat delle major), un audience assolutamente strepitosa, onorabile, divertente, entusiasta, ma non sprovveduta (…e un sacco educata: tanto che pure le sacche che arrivano sempre più per seguire la crescente parte trap del festival si adegua all’andazzo generale e tira fuori il meglio di sé invece che il peggio).
Questo è un merito incredibile. Una peculiarità da tenersi stretti. Ed è qualcosa di molto diverso dal ragionare solo sulla potenza di fuoco che puoi mettere in campo per la line up. Soffermarsi solo su questo, è miope, è una ridotta capacità di analizzare – col piglio da esperto e da intenditore – l’identità del festival nella sua interezza. Era una notizia che quest’anno cambiassero, e in meglio, certi equilibri: l’Igloo Stage Molinari (ovvero la parte legata più al clubbing “alla Soundwall”, disco, house, techno) si ingrandiva raddoppiando, e mettendo in campo nomi come Philippe Zdar, Digitalism, Bawrut, Tensnake, Purple Disco Machine; lo stage indie-trap s’ingrandiva anch’esso metteva in campo quasi una all star del genere (senza però dimenticare caposaldi rap di qualità come Noyz Narcos); si faceva lo sforzo, economico ed organizzativo, di avere un festival completamente plastic free, con tutti gli elementi in materiale organico e riciclabile. Non sottovalutatela, quest’ultima cosa: la questione ambientale vivaddio sta diventando cruciale e in questo momento darle peso significa anche fare dei sacrifici economici e tagliarsi i guadagni, quindi non lo si fa solo per farsi belli nei comunicati stampa.
Sinceramente, per come è fatto Nameless, per come è cresciuto, per il contesto in cui opera, per la sua storia, questa triade di punti pesava tanto quanto l’annuncio di uno o due headliner di spessore. E sinceramente, proprio chi più e meglio conosce il festival queste cose dovrebbe capirle e metterle sul piatto (aiutando a far ragionare anche i passanti un po’ più distratti). Non vorremmo che anche nella scena che ha fatto crescere Nameless iniziasse e dominare il morbo che ha fatto gran male alle sfere techno e house, ovvero quello – un meccanismo molto pop e “commerciale” – di iniziare a dipendere solo dal nome dell’artista, dalla sua fama, dal suo impatto sul mercato. Gli effetti di questo modo di pensare sono impegnativi: perché lì o ti lanci nella filosofia stile Ultra e Tomorrowland, dove entrano in campo i grandissimi capitali, o resti una nicchia underground ma dai costi sempre più difficili da sostenere (come sta accadendo appunto a techno e house, vedi la moria dei club storici… e ok, il Cocoricò è un caso a parte).
(l’interno dell’Igloo Molinari; continua sotto)
Quindi sì. Forse il 2019 ha avuto un paio di headliner forti in meno, rispetto all’altr’anno; ma su altre cose il festival ha guadagnato parecchio, portando la bilancia complessiva in attivo. Il quasi raddoppio dell’area del festival (che è servito in primis a far crescere gli altri due palchi, non il Main) è stato gestito benissimo. L’aver avuto il coraggio di puntare di più sul genere “alieno”, per Nameless, del clubbing più tradizionale si è tramutato in un successo: se due anni fa i primi timidi tentativi in una casetta in legno avevano radunato solo qualche decina di aficionados e di gente un po’ confusa, quest’anno l’Igloo era invece quasi sempre ben pieno, anche con gli artisti “minori” tipo Turboboys e Simone LP (bravi!), e con dentro un entusiasmo e una buona vibra che alcuni eventi anche navigatissimi del settore tech-house consolidato se lo sognano. Il palco indie-trap era prima di tutto davvero bello ed originale da vedere, a tutti hanno fatto più o meno il loro (interessante notare che gente come Luché e Noyz ha attirato molta più gente di Achille Lauro, a conferma che Nameless checché se ne dica NON è un festival commerciale e dal pubblico pop e “televisivo”).
Per quanto riguarda il Main, menzione d’onore per il già citato Edmmaro, che si conferma un genio vero (uno in grado anche di fare metacritica sul genere a cui appartiene, dote rara, “zappiana”); per Alison Wonderland che ha carisma da vendere; per Shapov che a molti ha scontentato ma a noi è sembrato molto più interessante ed evoluto di altre volte; per Gammer che ha raso al suolo tutto (…lo avrebbero fatto anche Gud Vibrations, ma sinceramente in maniera un po’ più dozzinale). Aoki così così (discontinuo); altrettanto Benny Benassi che non ha impressionato (forse poteva spaziare di più e sorprendere di più: non aveva nulla da perdere); Bloody Beetroots ancora a metà del guado e ancora con la necessità di trovare un nuovo filone aureo, visto che di quello originario ormai sta succhiando le ultime linee. Delusioni: Don Diablo (ha deluso un po’ tutti), Will Sparks (davvero troppo “facile” in molte soluzioni, se si hanno orecchie un minimo allenate).
(Gammer in azione; continua sotto)
Per chiudere, fateci riportare qui sotto un lungo e dettagliatissimo post di Alberto Fumagalli, il fondatore del festival. Merita la vostra lettura. Tutto onesto, tutto trasparente. Una operazione-verità (e assunzione di responsabilità) che per troppo tempo, anche per convenienza, i festival in chiave tech-house hanno tenuto sottotraccia.
Nameless è più forte di te: delle cose a cui sei abituato, delle tue certezze, dei tuoi luoghi comuni, delle tue abitudini, delle tue rassegnazioni su “…certe cose in Italia non si potranno mai fare”. E invece si possono fare: a patto di dare loro un sapore particolare, e una lucidità complessiva di visione.