A modo suo, è un piccolo Dream Team: Raiz e Lucariello sono due voci importantissime di Napoli. Non quelle più mediatiche magari, non quelle più sotto le propulsiva dell’hype (se non per la primissima fase degli Almamegretta, quando Raiz e soci avevano davvero stravolto la musica italiana contemporanea, nel migliore dei modi), ma il loro sguardo è affilato fin dal giorno uno e, appunto, non si pone troppo il problema di adeguarsi ai trend. Per loro conta l’essenza, per loro conta l’esperienza. L’ultima serie di “Gomorra”, ora in onda, si apre proprio con “Aria”, una loro collaborazione. Collaborazione contenuta in un EP appena uscito, “Napoli C.le / Düsseldorf”, dove con l’aiuto delle produzioni di D-Ross e Star-T-Uffo (nomi di spicco della nuova scena urban) costruiscono un viaggio ad episodi attraverso una sorta di “sceneggiata” 2.0: riprendono alcuni canoni di un’arte che a Napoli è profondamente inscritta nel DNA popolare, nel DNA cittadino. In tempi in cui troppo spesso inseguiamo il marketing e le novità scintillanti, questa diventa paradossalmente una scelta coraggiosa, una scelta controcorrente.
La prima domanda è d’obbligo: come mai l’esigenza di ritirare in mezzo la “sceneggiata”?
Raiz: Semplicemente, fa parte del tessuto sociale. In modo molto profondo. Guarda, ultimamente sto lavorando a un repertorio molto classico – voglio fare un disco tributo a Sergio Bruni, per intenderci – e c’è un pezzo in particolare che si chiama “Palcoscenico” dove il ritornello dice che la gente di Napoli vede le strade di Napoli come un grande palcoscenico per sé: chiaro, c’è una componente di retorica e di agiografia in tutto questo, del resto è una canzone di anni fa, ma resta comunque una grande verità. A Napoli insomma tutto questo c’è sempre stato. Poi, tutto il lavoro di recupero di questo disco non ci sarebbe mai stato senza il grandissimo apporta di Lucariello.
Lucariello: Vai, racconta tu, che io ora sto ancora guidando! (risate, NdI)
Raiz: Lui sta facendo questo eccezionale lavoro sociale con i minori detenuti. Ad un certo punto mi ha coinvolto, mi ha portato con lui in un carcere minorile; stando qualche giorno con i ragazzi, sono venute fuori un sacco di idee. Idee tirate fuori in primis dai ragazzi stessi, attenzione: perché loro hanno una incredibile voglia di scrivere, parlare, esprimersi. E abbiamo parlato parecchio, confrontandoci anche su temi non semplici. Ovviamente noi abbiamo una condizione ed un background diverso dal loro e sì, ti ritrovi a chiedergli “Ma valeva la pena di fare quello che hai fatto…?”. Certo che lo fai. Da queste conversazioni, è nato tantissimo materiale. Altro ancora è arrivato invece da altri ascolti ed altre conversazioni in altri contesti. Accumulato tutto questo, ci siamo messi a scrivere. Lo abbiamo fatto con molta attenzione, molta prudenza. Non è una materia semplice, infatti: devi mettere a nudo tutta una serie di sentimenti, e il rischio è quello di cadere nella retorica. O addirittura nell’apologetico. Coloro che stanno in galera vengono quasi sempre dagli strati più popolari della città, questo è un dato di fatto. Dalle istituzioni sono rimasti spesso abbandonati, ma sono rimasti con la loro umanità, coi loro sentimenti, sentimenti spesso fortissimi – e spesso al servizio delle cause sbagliate. Prendi la traccia in cui parliamo del padre latitante che va al matrimonio della figlia, figlia che lui ha fatto studiare in Svizzera grazie ai soldi guadagnati con la droga: il padre è mosso dal sentimento, quindi qualcosa di bello c’è, c’è per forza. Ma nel dirlo e nel farlo vedere, io non voglio in alcun modo difendere la figura del padre e delle sue azioni: su quello non ho alcuna pietà. Però se vogliamo arrivare a cambiare prima o poi le cose, se vogliamo parlare di “recupero”, allora a qualcosa dobbiamo appigliarci: no? Da qualcosa bisogna partire. Perché anche nelle persone peggiori puoi trovare una luce, un qualcosa di umano e bello a cui attaccarsi: è da lì che bisogna iniziare ad agire, se si spera di iniziare a cambiare qualcosa, se si spera in una redenzione.
Domanda: avete l’impressione che la musica urban contemporanea abbia perso la capacità di raccontare i sentimenti veri, per concentrarsi invece troppo sulla superficie e sull’apparenza?
Raiz: Lucariello, vai tu.
Lucariello: No, non credo che questo sia successo. Anzi, mi pare che la musica urban sia finalmente entrata nel pop vero, qui in Italia. Ovvero: arriva a tutti, arriva anche a chi non gliene importa granché della musica. Questo significa che la scena è molto cresciuta e, in quanto tale, ci puoi trovare molte più cose diverse rispetto a prima. Di conseguenza, anche quelle che sanno raccontare i sentimenti. Non lo fanno magari tutti, perché implica un lavoro di scavo nell’umanità che non viene proprio immediato, ma accade. Di sicuro, noi lo abbiamo fatto. E’ questione di sapersi immedesimare, non sempre è facile. Devi infatti saper anche tirare fuori la parte sguaiata di te, pur essendolo magari tu ben poco di natura. Una dote che serve anche per descrivere la realtà, questa capacità di immedesimazione, perché la realtà spesso è sguaiata! Che ne so, tanto per fare un esempio stupido: penso ai club dell’hinterland napoletano, dove i vari clan prendono un tavolo e fanno a gara fra di loro a chi spende di più, a chi scialacqua di più, versando anche lo champagne per terra. Ecco: esiste anche questo. E noi ne parliamo.
Raiz: Ne parliamo non senza una punta di orrore, sia chiaro. E’ una contraddizione, ovvio: canti di certe cose, cerchi di descriverle nel modo più fedele e partecipato possibile, ma ne sei al tempo stesso disgustato. Nel fare tutto ciò attraversi insomma sensazioni davvero contrastanti. Ma mettere davanti agli ascoltatori le contraddizioni della vita è uno dei compiti dell’arte e della sua libertà.
Se tra l’altro se parliamo di contraddizioni, proprio Napoli direi che ne è un monumento: una città incredibile, bellissima, dall’umanità molto forte, ma proprio queste qualità sanno diventare i suoi peggiori difetti e ciò che le impedisce di avere un’evoluzione lì dove probabilmente sarebbe buono ci fosse.
Raiz: Il rischio è di finire in una trappola in cui sembra che per eliminare povertà e malaffare, tu devi toglierti di dosso tutti i sentimenti. Non è vero: la tua condizione la puoi migliorare anche conservando ed anzi aumentando tutta l’umanità possibile. Non è che se vuoi una cosa devi sacrificare l’altra per forza, non dobbiamo cadere in questo inganno. Io poi ormai abito a Roma da tempo, a Napoli ci vengo anche spesso ma non ci abito, però è vero che se io sono andato via da Napoli è altrettanto vero che Napoli non è mai andata via da me. Ho però l’impressione che si stia diventando cinici e disillus,i come nei posti più sviluppati e aridi, senza però che lo sviluppo stia arrivando in città. Gli autobus continuano a fare schifo e ad arrivare in ritardo, no? Tutto questo ovviamente lo dico con dolore.
Tu Lucariello come la vedi?
Lucariello: Guarda, io amo Napoli, la vivo venticinque ore su ventiquattro! E’ una città che ti prende tantissimo, poi figurati, io abito proprio in Via Santa Chiara, più centro antico di così si muore… Io Napoli la vedo come un luogo di grandissime potenzialità. E’ una città di talento. E per “talento” non intendo solo quello artistico, ma vale per tantissimi campi, a partire da quello artigianale e, potenzialmente, perché no?, anche per quello manageriale. Insomma, le qualità in teoria ci sono tutte, a Napoli. Ma è come se la città continuasse a restare un po’ bambina, si rifiutasse di crescere. C’è un serio problema di abbandono educativo, ecco. Io lo so bene, visto il lavoro che faccio nelle case circondariali per minori: hai a che fare con bambini e ragazzi incredibilmente svegli e pieni di energie, sì, peccato che tutte queste qualità non riescono ad incanalarle in un percorso basato sul rispetto. O meglio, l’idea di “rispetto” c’è; ma è ambigua, con delle regole mutevoli e poco chiare. Questa situazione crea dei cortocircuiti continui con conseguenze, poi, molto poco positive. Difficili. Faticose. Infatti molte persone non ce la fanno a sostenere tutto questo, ad accettare questo stato delle cose, e se ne vanno. Però le possibilità per trasformare Napoli finalmente in una città di livello europeo ci sarebbero ancora tutte, le qualità ci sono. Bisognerebbe finalmente imparare ad indirizzarle in maniera netta, in maniera efficace.
Faccio l’avvocato del diavolo: forse Napoli è comunque troppo innamorata di se stessa per accettare di farsi indirizzare in un altro modo rispetto a quanto fatto finora?
Raiz: Questo! …questo sì. Questo è un buon punto. E temo che negli ultimi anni un certo tipo di autocompiacimento dannoso sia ancora aumentato: sento troppo spesso un certo tipo di retorica per cui Napoli è l’unica ad avere il meglio e gli altri hanno solo la nebbia, quindi devono stare zitti. Retorica che purtroppo ho visto incoraggiata anche dalle ultime forze amministrative, dalle istituzioni locali. Quando faccio questi discorsi e muovo queste obiezioni spesso mi dicono: ma come, ma non sei orgoglioso di essere napoletano? Beh, io sono orgogliosissimo di essere napoletano. Orgogliosissimo. Napoli mi ha dato veramente tanto, mi ha dato la forza di sognare, mi ha dato la forza di credere che il mondo si potesse cambiare e migliorare. E questo sai perché? Perché è una città che con la sua personalità ubiqua e pervasiva ti educa proprio al fatto che puoi sempre pensare a soluzioni alternative, puoi sempre fare le cose a modo tuo se sai che questo è più giusto, è più umano. Napoli è una palestra per la mente, insomma. Ma questo approccio non deve poi diventare orgoglio localista sterile: perché poi dietro a questa retorica dell’identità si nascondono i nazionalismi, e dietro i nazionalismi si nascondono i fascismi.
(“Napoli C.le / Düsseldorf”, continua sotto)
Analisi lucidissima. E necessaria. Tornerei al disco ora, e vi farei qualche domanda più sull’aspetto musicale: l’avete delegato al cento per cento a D-Ross e Star-T-Uffo o avete dato degli input?
Raiz: L’input iniziale è stato raccontare loro il progetto, far capire come comunque dovesse esserci la trama della melodia, anzi, di un certo tipo di melodia, molto napoletano, folk quasi. Ed era da innestare su qualcosa che fosse invece in parte contemporaneo, metropolitano. Sono per certi versi mondi contrapposti, ma abbiamo provato a farli funzionare assieme.
Lucariello: Il grosso del lavoro sulla parte strumentale è stato ovviamente fatto da D-Ross e Star-T-Uffo però sì, abbiamo comunque parlato parecchio fra noi, ci siamo scambiati parecchie idee al momento di iniziare a lavorare. La sfida collettiva è stata quella di trovare un linguaggio comune che nascesse da elementi diversi, e fra questi elementi non può non esserci l’elettronica dei Kraftwerk (e tanto per dare ulteriore significato al titolo, loro venivano appunto da Düsseldorf). Anche perché appunto, la Germania ad un certo punto era diventata una meta d’emigrazione, e l’emigrazione è un elemento narrativo fondamentale in questo disco.
Ma non vi è mai venuta la tentazione di dare una veste iper-contemporanea di quelle che vanno di moda, per rendere l’operazione più accattivante? Detta in altri termini: magari “Napoli C.le – Düsseldorf” poteva mantenere il suo apparato lirico, ma appoggiato su qualcosa di riconducibile alla trap. No?
Raiz: No, il disco è cresciuto così come lo senti, fin da subito. Noi stavamo in un momento piuttosto rock; e per quanto riguarda D-Ross, beh, tutti lo conoscono per le sue ottime produzioni in campo hip hop ma in realtà lui è anche un chitarrista rock-blues pazzesco. La conseguenza è stato un disco che è felice di andare in più direzioni. In certi momenti è più Soundgarden che trap o, per fare un nome neomelodico, che Franco Ricciardi. Cosa che poi è anche divertente se si pensa che io nasco come cantante rock-blues, solo dopo mi sono votato a ciò che potremmo chiamare urban, elettronica o world music.
Lucariello: Resta il fatto che la sceneggiata, musicalmente e testuamente parlando, ha un codice molto chiaro e definito. E noi l’abbiamo sempre tenuto come riferimento. In realtà, si ha la percezione della sceneggiata come di un registro estremamente sguaiato, quando per certi versi è vero il contrario: la sceneggiata per andare dritto al cuore, come in effetti fa, si muove su binari molto precisi. Io, quando ero adolescente, avevo ovviamente avuto un momento di totale rigetto per la napoletanità, per Mario Merola, per quel mondo lì insomma; ma anche in quel caso, ogni volta che mi capitava di vedere lo “Zappatore” niente, la lacrima scappava sempre… Nulla, erano e sono cose troppo potenti.
Raiz: Se qualcuno avesse fatto vedere lo “Zappatore” a Spike Lee sono convinto che gli sarebbe piaciuto parecchio. Sai, noi magari arriviamo col filtro della borghesia: diciamo che certe forme d’espressione sono volgari, sono sguaiate, sono inappropriate – col sottinteso che esprimere apertamente i propri sentimenti è sbagliato. Perché dovrebbe esserlo? Quello che conta è la dignità. Esprimere ciò che suscita l’amore tradito fa parte del bagaglio comune delle persone, tutte, nessuna esclusa; poi chiaro che ognuno lo fa a modo suo, magari c’è il filtro culturale borghese che ti fa trovare alcune forme di queste manifestazioni poco nobili o poco attraenti. Ma dove porta il disprezzo? A cosa serve? Una persona che si sente disprezzata, può migliorare? Ha voglia di migliorare, ne sente la necessità? Ecco, un lavoro come il nostro nasce dalla ricerca di un giusto equilibrio che ti permetta di capire in fondo certe cose, certe realtà, senza per questo per forza difenderle o parlarne bene. Le vuole raccontare, vuole dare loro la dignità piena di esistere – perché in effetti esistono. In una delle nostre tracce parliamo di questa persona che è emigrato in Germania: cosa è andato a fare? Forse solo piccoli commerci illegali? Forse qualcosa di più grosso? Non si sa. Però di sicuro anche lui, quando parla di figli, esprime sentimenti reali. Anche fosse la persona peggiore del mondo. E io che sono padre, so quanto possono essere puri ed intensi certi sentimenti. La cosa importante da capire è che finché esisteranno sempre questi sentimenti così intensi e puri ci sarà sempre una speranza di poter migliorare le cose. Sempre. Non sarà di sicuro invece il cinismo a salvarci, a migliorare la società.
Sentite, non posso non farvi la domanda: ma “Gomorra”, quindi, ha fatto più male che bene a Napoli? Alla percezione che si ha di lei?
Raiz: Se la televisione fosse veramente così potente, allora l’Italia dovrebbe essere quella che viene raffigurata in Don Matteo. Beh, ti pare che lo sia? Chiaro, vedendo “Gomorra” in qualcuno sarà scattato a livello di pensiero uno spirito di emulazione verso Ciro o verso Gennaro, ma la cosa resta in superficie. Con tutti i film che ha fatto Robert De Niro, l’America oggi dovrebbe essere un deserto. Quello che invece è un merito chiaro della serie è l’aver raccontato una realtà che comunque esiste ed esisteva ben prima di “Gomorra”, solo che magari se ne parlava poco ed oggi invece è sulla bocca di tutti. Sono state fatte emergere anche delle questioni vere, delle potenziali infiltrazioni criminali su progetti come quelli dell’aeroporto alternativo a Capodichino, questioni che altrimenti sarebbero passate troppo sotto silenzio.
Lucariello: Aggiungo: io, per il lavoro che faccio, dovrei avere a che fare quotidianamente con i “frutti” negativi di “Gomorra”, dell’emulazione verso modelli sbagliati. E sai qual è la verità? In questi anni ho conosciuto centinaia di ragazzi che hanno intrapreso un percorso criminale e nessuno, assolutamente nessuno, lo ha fatto spinto dall’emulazione di “Gomorra”. Il contesto culturale della criminalità è qualcosa di molto più profondo e radicato di una serie televisiva, e quest’ultima può forse raccontarlo, ok, ma anche se lo volesse non avrebbe la forza di crearlo davvero. Ciò che resta, è che “Gomorra” è un prodotto audiovisivo di qualità altissima. Probabilmente la cosa migliore mai creata in Italia.
Raiz: E a Napoli forse ha fatto più bene che male, visto che negli ultimi anni il turismo in città è cresciuto. Merito di “Gomorra”? Nessuno lo può sapere con certezza. Ma la realtà è che io ad esempio mi sono fatto affascinare da Medellin proprio guardando “Narcos” e, una volta che sono arrivato lì, ho scoperto una città molto bella, sufficientemente tranquilla, soprattutto molto meritevole di essere visitata – e non solo nei luoghi del narcotraffico. Perché con Napoli non potrebbe essere successo lo stesso?