È strano vedere come certe passioni musicali vadano e vengano con più o meno energia durante la nostra evoluzione di ascoltatori. È capitato a tutti di aver avuto un periodo che rasenta l’ossessione per un determinato genere, periodo che poi si placa autonomamente senza particolare azione da parte nostra, per poi riaccendersi per caso quando meno te l’aspetti. Magari la scintilla è una nuova ristampa (sì, i N.O.I.A. in questo caso c’entrano sicuro), o il sentir citare di nuovo un nome amato per molto tempo, in un contesto completamente diverso (tipo gli OMD nella app del primavera). E così ti ritrovi nuovamente a pensare a un periodo storico ben preciso, temporalmente definito e strettamente circoscritto, apparentemente slegato dai tempi correnti, in cui ha preso forma un genere che da sempre, ancora oggi, è fonte di accese discussioni: il synthpop.
Attenzione, oggi non parliamo del synthpop che ha marcato a fuoco gli anni ’80 a colpi di Alphaville, Pet Shop Boys e New Order. Parliamo di un recinto temporale/stilistico precedente, relativamente piccolo ma vivacissimo, in cui son venute fuori le primissime, visionarie intuizioni del synthpop che verrà. Un periodo che faremo coincidere grossomodo tra il 1978 e il 1981, frutto delle intuizioni elettroniche da cui prende vita ma precedente alle forme definitive che si avranno dopo. Diciamo tra i Kraftwerk di “The Robots” (da molti considerato il primo esempio storico compiuto di pop elettronico) ai Depeche Mode di “Just Can’t Get Enough” (con la quale si può fare iniziare ufficialmente il decennio di plastica). Un periodo estremamente affascinante e controverso, popolato da strani personaggi e forme sonore allo stato grezzo, per certi versi acerbe, a volte eccessive, spesso non comprese appieno dal pubblico del tempo. La “terra di mezzo” del synthpop.
Perché è così che accade, ogni volta: le fasi intellettualmente più affascinanti di un dato genere son sempre quelle rimaste nell’ombra, nelle fasi iniziali, quando pochi personaggi di ispirazione superiore hanno tirato fuori intuizioni d’avanguardia, innovazioni per la nicchia, a formare un ristrettissimo set di tesori nascosti che poi sarà la panacea degli ascoltatori in vena d’approfondimento. Son le fasi fondamentalmente più innovative, dove il vero seme dell’evoluzione musicale germoglia nei primi, strambi frutti. E sono i pochi momenti storici dove questa evoluzione, questa innovazione è palpabile in tutta la sua evidenza. Un po’ quello che molti produttori di oggi inseguono disperatamente, per poi rifugiarsi nella riscoperta dei suoni storici dopo le prime battute d’arresto. Ecco, da questo punto di vista, forse, il periodo di cui stiamo parlando non è così slegato dai tempi correnti. Ognuno dei dieci nomi che vedrete qui sotto ha avuto una visione puramente personale del futuro, e ci si è gettato con entrambe le gambe. Rischiando, producendo forme controverse, evitando di inseguire i gusti del pubblico ma provando invece a colpirlo con un elemento nuovo. E riscoprire lo spirito genuino oggi può servire a tutti, come unità di misura del concetto di innovazione che tanto spesso citiamo nelle riflessioni musicali. Un’innovazione che in prima battuta magari non capisci, ma che ti colpisce in fronte, sempre, come qualcosa dall’enorme potenziale d’estensione. È questo che ha rappresentato la pubertà del primo synthpop, e son questi i protagonisti eccellenti che ne hanno definito metodo e contenuti.
[title subtitle=”The Human League”][/title]
Lo spaventoso ruolo di precursori della band di Sheffield non sta nel suo periodo d’oro, nel periodo di “Dare!” e in quella “Don’t You Want Me” arrivata a fine ’81, pezzo già completamente immerso nella pura fase avanzata synthpop e subito arrivata alla numero uno della classifica UK. Il ruolo degli Human League lo capisci andando indietro nel tempo. Lo intuisci di colpo ascoltando il primo disco, “Reproduction”, anno 1979: cupo, nervoso, di un fascino appuntito, eppure già pronto a offrire pezzi pop dalle forme definitive tipo “Empire State Human“. E poi lo realizzi definitivamente quando scopri che il primo singolo, il 7” “Being Boiled/Circus Of Death”, loro lo avevano pubblicato nel giugno 1978. Praticamente insieme ai Kraftwerk di “The Man Machine”. La battuta scattante, il buio della darkwave europea e tutta la consistenza elettronica pronta per gli anni a venire. E quel B-side psicotico che da solo vale già 3/4 degli anni ’80.
[title subtitle=”Gary Numan”][/title]
Dice che Gary Numan non faceva synthpop. Dice che Gary Numan era new wave. Post-punk. Al massimo synth rock, guarda. Però fu lui che in tempi largamente prematuri (siam sempre nel mitico ’79) stampò il suo bel faccione pallido su MTV con “Cars” e “Metal“. E lo ha fatto da popstar, prima ancora che la figura della popstar moderna esistesse. Certo, a voler guardare il capello stilistico è più rock che pop, ma il pop è questione di appeal. E la questione elettronica popolare che segnò tutti gli ’80 passa da Numan, niente da fare. La fase elettronica di Numan parte in effetti con quell’album “Replicas” registrato coi suoi Tubeway Army che rappresenta la prima, grossa scarica di energia elettronica che si ricorda a memoria. Perché va bene l’intuizione cerebrale, ma poi alla fine chi arriva alla pancia è quello che la spara grossa. A tratti eccessiva, sbracata, come metà dei pezzi di quel disco. Tanto se fai un pezzo come “Are Friends Electric?” poi il fatto di essere ancora definito una figura pionieristica dell’elettronica commerciale non lo eviti in alcun modo.
[title subtitle=”Yellow Magic Orchestra”][/title]
I giapponesi terribili. Quelli che a quanto dicono hanno inventato tutto: la computer music, la chiptune, la musica per videogames, la house, la techno. Perfino l’hip hop. No. La Yellow Magic Orchestra non ha bisogno di tanto sensazionalismo. Non serve venderseli per meriti ingigantiti, e non serve nemmeno sopravvalutare troppo un album come il primo omonimo del ’78, che era in fondo solo un riscaldamento. Basta per tutto “Solid State Survivor”, del 1979. Basta perché ha esattamente la sfacciataggine che ci vuole per far pop coi computer. Perché per tirare fuori qualcosa di così vicino a un ritornello pop solo coi sintetizzatori ci volevano i giapponesi. E fa nulla che suona poco riutilizzabile, poco universale, poco “occidentale”. Di quelle direzioni stravaganti come “Absolute Ego Dance” o “Technopolis” ci si innamora, “Insomnia” ti fulmina come poche altre volte ti capiterà nel resto della tua vita e la title track aveva già tutti gli elementi al posto giusto. Storia vuole che la loro unica influenza occidentale fu proprio quella dei Kraftwerk, introdotti al resto della band da Ryuichi Sakamoto, ripresa e poi mischiata a decine di altre direttive che per la band rappresentavano additivi di fantasia al minimalismo tedesco. Tu ascolti “Behind The Mask”, ripensi a tutto questo e ringrazi il cielo che il Giappone esiste.
[title subtitle=”Visage”][/title]
Di tutti i gruppi britannici citati in quest’articolo, i Visage son rimasti probabilmente quelli che vengono ricordati meno. Il che è un grosso torto e un gran peccato, visto che furono loro i primi a trovare la perfezione formale del verbo synthpop. Le prove tecniche di capolavoro uscirono già nel ’79 col doppio singolo “Tar/Frequency 7” e già lì c’era la visione di prospettiva verso un suono che prometteva grandi cose. Poi nell’80 arriva “Fade To Grey”: il giro di synth, la struttura circolare semplice, il dandysmo e quel senso di maledetta superiorità che caratterizzerà il 70% delle produzioni pop anni ’80. Sarà la punta di diamante di un album di debutto che aveva comunque uno spirito fantasioso e irriverente per tutta la tracklist, ma nel quale in effetti spicca come mossa irripetibile. “Fade To Grey” riassume tutto quel che il synthpop sarebbe dovuto essere negli anni a venire. A fine ’80 c’erano ancora decine di gruppi che un pezzo così perfetto non lo avvicinavano nemmeno.
[title subtitle=”John Foxx”][/title]
Noi in quella leggendaria faida nata dopo che John Foxx lasciò gli Ultravox e si lanciò nella carriera solista non vogliamo schierarci, giusto? Fece meglio, fece peggio, Foxx raggiunse il suo apice, gli Ultravox persero smalto, anzi no, gli Ultravox trovarono il loro profilo migliore grazie a Midge Ure rubato ai Visage. La verità è che entrambi fecero le loro cose migliori proprio subito dopo quella separazione, nell’80, e difficilmente qualcuno potrà stabilire oggettivamente quale sia il disco migliore tra “Metamatic” e “Vienna”, gli album della rinascita per entrambi. Il primo sicuramente resta scolpito nel fermento di quegli anni come uno degli esempi elettronicamente più coraggiosi di new wave: l’uso delle drum machine, la consistenza dei synth che si allarga a macchia d’olio, le strutture cantate e il piglio che non accetta condizioni, va giù di materiale sintetico senza trattenersi. Perché storicamente non è il momento di edulcorare la pillola. È il momento di accelerare. E lui, nel suo essere androgino, inespressivo, alieno, ci ha messo la faccia in ogni video. “Underpass” e “No One Driving” oggi le senti allo stesso tempo vintage e visionarie, soprattutto se pensi a quanto il pop elettronico si sia ripulito per il grande pubblico nel decennio a venire.
[title subtitle=”Ultravox”][/title]
Sempre tornando alla faida di cui sopra: in realtà, a rileggere a posteriori il capitolo Ultravox di quel periodo, la band ha decisamente poco da lamentarsi. Gli anni con John Foxx dal ’76 al ’79 erano fondamentalmente anni di sperimentazioni tentate e inseguimenti delle mode kraut e glam, e dal punto di vista delle vendite furono un disastro. C’era qualcosa che non tornava e probabilmente nessuno dei prodotti di quel periodo era qualcosa di cui non si poteva fare a meno. John Foxx fuggì frustrato da schemi in cui non si sentiva a suo agio, Midge Ure portò invece quel vento di eleganza ed equilibrio orientato all’ascolto che alla band mancava. Così il primo album del nuovo corso, “Vienna”, fu uno di quei lavori pieni di sfumature e intuizioni diverse che continuano a venire fuori ascolto dopo ascolto, anche dopo anni. Aveva tutte le forme di energia necessarie di quel tempo, dalle pose rocker di “New Europeans” e “Private Lives” alle corse di carattere di “Sleepwalk” e “All Stood Still“, dai kraftwerkismi di “Mr. X” alle aperture cosmiche di “Astradyne”. Ogni pezzo di quel disco ha la sua teoria, diversa dagli altri e perfettamente capace di convivere con tutte le tendenze sul punto di nascere.
[title subtitle=”The Normal”][/title]
Daniel Miller va ringraziato non perché ha prodotto hit in grado di sopravvivere nel tempo. Daniel Miller va ringraziato perché aveva una visione ben precisa, qualcosa che hanno solo i grandi e manca alla stragrande maggioranza dei personaggi di oggi. Daniel Miller va ringraziato per aver fondato la Mute Records e averla resa in quel primo periodo di attività una fucina di colpi di genio che definirà l’estetica della nuova elettronica. Come The Normal, Daniel Miller tirò fuori il suo primo doppio singolo a fine ’78: “T.V.O.D./Warm Leatherette”, la release 001 della Mute. Non fu un’uscita killer, non cambiò il corso degli eventi in maniera diretta e probabilmente restò impressa a pochissimi. Ma riascoltarla adesso fa impressione. Fa impressione sentire il senso di avanguardia e il rifiuto della forma, un nervosismo che andava oltre la proposta musicale, un taglio che rappresentava una palla di fuoco gettata senza delicatezza in mano all’ascoltatore. Gestirla poi, son fatti suoi. Presto alla Mute sarebbero arrivati i Fad Gadget, i D.A.F. e alla fine i Depeche Mode a inaugurare la nuova era. Ma prima di tutto ciò, la Mute era purezza visionaria.
[title subtitle=”Fad Gadget”][/title]
Il personaggio più controverso e complesso della nostra lista si presenta direttamente alla neonata Mute a fine 1979, con una serie di singoli dallo spirito ogni volta differente, che sarebbero poi culminati l’anno successivo sull’album “Fireside Favourites”. Fad Gadget era un terzo post-punk, un terzo dark wave e un terzo visione synth. Capace di suggestioni lente e ipnotiche come il singolo d’esordio “Back To Nature“, escursioni in vivacità come “Newsreel” e momenti di depressione in bassa frequenza come “Salt Lake City Sunday“. Fu un’anima estroversa e inafferrabile, dimostrò di poter produrre tracce come “Lady Shave” che si pianteranno in testa di certi produttori amanti del minimalismo. Era un vulcano di idee, forse troppe, al punto che diventava difficile sentir propri i suoi dischi. Probabilmente l’effetto migliore lo sentivi sentendo le sue tracce una per una. Come quella “Ricky’s Hand” venuta alla luce a inizio ’80, il synthpop più cattivo e insensibile che possiate sentire.
[title subtitle=”Orchestral Manoeuvres in the Dark”][/title]
Gli OMD oggi come oggi, nel set di nomi che vedete qui, son probabilmente i meno stimati. Quelli mai presi troppo sul serio. Sarà per quella carica adolescenziale che sprigiona dai loro primi dischi se riascoltati oggi, sarà per quella “Enola Gay” che suo malgrado è diventata una delle icone più plasticose per mettere in cattiva luce gli anni ’80 tutti. Sarà che quel loro mai prendersi troppo sul serio alla fine gli si è ritorto contro. Eppure la doppietta inanellata nel 1980 coi due album “Orchestral Manoeuvres in the Dark” e “Organisation” è un’operazione di scrittura del futuro come se ne son viste poche altre. È il manifesto degli anni ’80 scritto su disco, con quella svagata spensieratezza che alla lunga ha infastidito molti, con quella diretta semplicità nelle scritture che più avanti rappresenterà la prima debolezza su cui tutti punteranno il dito. Con la convinzione che non ci fosse niente di cui preoccuparsi, in nessun momento, su nessuna prospettiva. Si dice che dopo “Electricity” Vince Clarke comincerà la sua carriera musicale che poi lo porterà tra i Depeche, i Yazoo e gli Erasure. Ed “Electricity”, ragazzi, uscita nel maggio 1979, è pura plastica. Di quelle che fumano.
[title subtitle=”N.O.I.A.”][/title]
Dalla nostra riviera romagnola la scheggia impazzita del discorso primordiale synthpop. I N.O.I.A. non fecero altro che assorbire l’approccio iper-elettrico robotico dei Kraftwerk e lavorarci fuori come farebbe un ingegnere alle costruzioni della sua personale navicella spaziale. “Hunger In The East” e “Europe” erano già lì nel 1980 e il loro destino è scritto nella loro stessa struttura: era musica coraggiosa per un pubblico che voleva mettersi in discussione, materiale electro scottante ma con l’appeal della parte cantata a dargli il profumo di new wave. Una visione per cui l’Italia non era ancora pronta e che alla fine venne riscoperta a posteriori, con i classics pubblicati nel 2003 e recentemente riestesi con alcune bonus tracks. Ma il viaggio è già tutto lì, con la freddezza teutonica, la fantasia italica e la missione precisa di definire nuovi standard. Era tutto pronto per esplodere, ma poi si sa, le cose prendono pieghe diverse. Quel che conta è sapere di essere stati in prima linea, pronti per un futuro che sarebbe stato diverso, ma secondo regole che tu in realtà avevi anticipato. Vale per tutti i nomi citati in questa sede.