Oooh it was a lot of fun, my dear!
Brenda ormai non è più giovanissima. Una corporatura decisamente sovrappeso ed i capelli grigi a fare abbondantemente breccia fra quelli neri a creare un afro che farebbe invidia al “Pibe” Valderrama. Mi è venuta incontro mentre, seduto su un divanetto appiccicaticcio insieme a due amici, stavo tracannando l’ennesima latta di Corona Extra dal costo inquietante di dieci dollari “servizio escluso!”. Quando era ormai seduta al mio fianco è scoppiata in una chiassosa risata.
“Da lontano mi sembravi una persona che conosco, ma quando mi sono accorta che non eri chi credevo era troppo tardi per non salutarti! Che figura ci facevo?!”
Dopo le dovute presentazioni, mi è rimasta seduta a fianco per qualche momento senza dar grande attenzione alla mia presenza. Si è aggiunto quasi subito al gruppo anche una drag queen che sembrava la versione di colore di Goro di Mortal Kombat. Era semplicemente enorme. Persino io che, stando al mio passaporto, farei 196 x 115 (praticamente un singolo dell’IKEA) ero rimasto un po’ intimidito da ‘sto energumeno in vestitino e tacchi che aveva ben pensato di appiccicarsi una tarantola finta all’altezza della tempia per completare un quadro giá abbastanza singolare di stravaganza.
Da pochi minuti era iniziata una nuova settimana ed eravamo all’Analog, un piccolo magazzino nascosto in un’area prevalentemente residenziale di Gowanus, a Brooklyn, dove Danny Krivit – il 33.3% periodico del collettivo Body & Soul che da queste parti nei ’90 un paio di cose buone le aveva fatte – stava spingendo roba serissima attraverso un impianto davvero poderoso sin dalle sei del pomeriggio per il suo personalissimo concept denominato “718 Sessions”. Dal primo momento in cui avevo varcato le porte del locale e mi ero reso conto del tipo di atmosfera e clientela con cui avrei potuto interagire, avevo avuto in testa una domanda. Una ed una soltanto. Mi tormentava. Ed ogni volta che qualche personaggio che sarebbe potuto tranquillamente essere mio padre mi ballava attorno o mi faceva cenni d’approvazione per la maniera totalmente libera con mi stavo lasciando coinvolgere dalle danze scatenate da cui ero circondato, dentro di me avrei solo voluto fermarlo, portare la mia bocca all’altezza del suo orecchio e sussurrare: “Ti prego, dimmi che questo assomiglia a ció che succedeva negli anni ‘80. Dimmi cosa è stato vivere la storia della club culture, uscire dalla segregazione sociale, lottare per qualcosa che non è mai stato solo una rivoluzione musicale.”.
Era quasi come se volessi a tutti i costi strappare un souvenir che potesse valere più di ogni shopping compulsivo sulla 5th Avenue o vista mozzafiato da un grattacielo. Entrambe cose di cui, nella mia prima visita alla Grande Mela, non mi sono ad ogni modo assolutamente privato, sia chiaro! Ed all’improvviso avevo Brenda seduta al mio fianco che sembrava la perfetta risposta del destino alle mie suppliche. Così, ho preso coraggio e semplicemente gliel’ho chiesto. Mi ha guardato un po’ sorpresa, con l’espressione di una mamma a cui il figlio ha appena domandato da dove arrivano i bambini, e mi fa: “Ma tu cosa ci fai qui?”. Sono rimasto un po’ spiazzato dalla risposta ma ho cercato di ri-ordinare i pensieri. Avrei voluto ribattere qualcosa del tipo: “Sono venuto a vedere che aria tirava nei locali di New York e stasera per la prima volta mi sembra quasi di aver fatto un viaggio nel tempo. Guarda quanta gente di generazioni, etnie e preferenze sessuali diverse sta ballando senza freno da ore per il solo gusto di farlo. Cioè cazzo, c’è Nicky Siano in pista che salta come se avesse vent’anni. Dimmi che era così anche allora Brenda, fai felice un povero clubber italiano innamorato di tutto questo!”. Invece l’unica cosa che sono stato capace di blaterare è stato un banale “Sono qua a pagare tributo a Danny ma sono rimasto meravigliato da quanta gente grande c’era in pista e volevo provare a capire da voi com’erano le cose a quei tempi.”
La mia nuova conoscenza mi ha guardato un po’ scocciata e si è limitata ad un sorriso sardonico accompagnato da un “Ci siamo divertiti un sacco, mio caro!”, con la finta riverenza di chi si sente in dovere di dire qualcosa per non essere maleducato. Praticamente come quando nelle mie estati passate a Cogne ai turisti che ci fermavano per chiedere da che parte fosse la casa della Franzoni davamo indicazioni volutamente sbagliate per prendercene gioco. Se fai domande da scemo, ti prendi risposte da scemo. Poco dopo Brenda si è congedata ed io sono tornato a ballare con i miei amici. C’era meno gente e si stava facendo tardi ma io non sarei voluto andarmene mai. La musica era sensazionale e l’impianto ce la stava scaricando addosso con precisione svizzera. Eppure non potevo fare a meno di sentire un po’ di imbarazzo per come la mia domanda fosse rimasta grosso modo senza risposta. Avevo notato del sincero fastidio nel suo tagliare corto a riguardo; ma sul momento gli avevo dato comunque il peso che avere diverse birre in corpo mi concedeva ed ero tornato nella centrifuga fino a che le gambe non avevano deciso di emettere il triplice fischio finale rispedendomi al freddo della periferia e ad una metro notturna piena di amabili scappati di casa.
Quella appena descritta è stata senza ombra di dubbio la migliore fra le serate che ho avuto modo di vivere – per musica, pubblico e location – nella prima visita della mia vita ad una città colossale ed inarrestabilmente frenetica come New York. Nel giro di circa dieci giorni sono riuscito a visitare sei club, conoscere tantissima gente diversissima – ed a proprio modo tutta apprezzabile – e capire che ci sono molti diversi strati e definizioni di ciò che è il concetto di nightlife nell’immaginario newyorkese. Prima di tutto mi piacerebbe dire che sono andato a ballare anche a Manhattan ma, essenzialmente per una questione di costi, la maggior parte dei “nostri” club è oggi situata in quel di Brooklyn dove, ancora cappottato dal jet lag, ho avuto il primo incontro ravvicinato con la scena locale. Precisamente con Elsewhere, il nuovo che avanza. Un warehouse di recente apertura nella riqualificata zona di Bushwick di cui si era a lungo parlato anche dalle nostre parti come una boccata d’aria fresca in un movimento un po’ troppo in balia del carrozzone EDM – anche se io sinceramente non ne ho avuto notizia alcuna nel periodo in cui sono stato in città – e con una branca underground quasi priva di venue dalla capienza importante. Come già detto, le forze non hanno aiutato troppo, ma ho comunque potuto sentire i miei amatissimi Beautiful Swimmers ed un Marcellus Pittman particolarmente ispirato seppur la location mi sia sembrata un po’ troppo fredda – il classico magazzino riqualificato, quadrato e nero, con un bar rialzato al fondo della pista ed un palco anch’esso ad un livello superiore a fare da contraltare – e con un pubblico giovane ma non eccessivamente partecipe. Mi attendevo di più sotto ogni aspetto salvo quello del soundsystem – e sarà fortunatamente una costante in questa avventura – che si è dimostrato doverosamente curato ed avvolgente.
Stessa cosa avvenuta, la sera successiva, al party per i due anni di Leitkultur al Brooklyn Bazaar, location di culto originariamente sita a Hell’s Kitchen ma ora trapiantata in una vecchia sala da ricevimenti polacca a Greenpoint dove, in un piano superiore decisamente infuocato – per temperatura e calore del dancefloor – si sono alternati in consolle nomi come DJ Heather, resident dello Smart Bar di Chicago e detentrice di una delle tecniche di mixing più affascinanti che io ricordi, e Justin Strauss, autentica leggenda della scena underground cittadina. Il pubblico, mediamente universitario, ha accalcato la consolle posta al centro della pista per gran parte della serata rispondendo con un’energia sorprendente ad una tech house molto energetica e moderna, che ricordava vagamente l’attuale suono Defected che tanto piace dalle parti di Ibiza. E proprio lo stesso Strauss era al timone della seconda sala del celeberrimo party per la festa del Ringraziamento di Nicky Siano, resident storico dello Studio 54 e fondatore dell’iconico The Gallery, che invece stazionava comodamente al comando di quella principale al Good Room, altro club piuttosto famoso nella zona. Uno dei padri putativi della scena newyorkese che celebra il suo party annuale per eccellenza ed avere la fortuna di essere in città proprio quella settimana: cos’altro chiedere? Anche se la tecnica non è più accortissima, l’entusiasmo che Siano trasmette da dietro la consolle è tremendamente contagioso. E la selezione musicale non è mai banale, fosse solo per l’enorme bagaglio culturale che una borsa dei dischi come la sua può regalare. Il party è un’altra piccola perla, anche se non è riuscito a toccare le vette di atmosfera di quello già descritto nei primi paragrafi. Una struttura quasi interamente in legno a fare da cornice rialzata ad una pista piccola ma molto ben curata, con una (immancabile) strobo al centro del soffitto ed una selva di stelle filanti a scendere sulla gente come tante piccole liane tra cui districarsi fra una danza e l’altra. E’ stata ancora una volta la disco, com’è da tradizione di casa, a farla da padrone. Nella saletta secondaria invece l’orientamento è andato più su una deep house lenta ma incisiva che ha fatto non pochi proseliti fra i presenti, ammantati da una consistente coltre di fumo a fare da unico complemento ad una quasi totale oscurità.
Esattamente ciò che ho trovato, in quella che era l’esperienza che più mi incuriosiva in assoluto, al Bossa Nova Civic Club; quello che ad oggi viene considerato urbi et orbi il club underground per eccellenza della città. Merito senz’altro attribuibile alla ricchissima programmazione musicale ed ad un ambiente che non cerca assolutamente l’epitome del cool nè tanto meno le luci della ribalta. Visto da fuori non ti renderesti nemmeno conto della sua presenza; una volta varcato l’ingresso ed intrapreso il corridoio stretto e lungo per arrivare in cassa eri già fortunato a non sbattere da qualche parte visto il buio assoluto spezzato da un solo laser viola che ti arrivava in fronte come il mirino di un cecchino facendosi largo tra il fumo artificiale e l’eco della cassa che rimbombava in lontananza come i tamburi di Jumanji. Una volta raggiunta la (minuscola) pista del locale – che ricorda (parlo ai milanesi) un po’ il vecchio Rocket, un po’ il compianto Sottomarino Giallo – ci si rende conto di essere in un club come dio comanda. Zero fronzoli, cocktail a prezzi ragionevoli e quella sensazione di inclusività che azzera le differenze sociali. In consolle si sono alternanati prima Joakim con un’apertura a giri molto compassati ed ipnotici e poi Jacques Renault, vistosamente in modalità festaiola, con la mano un po’ tremolante nel mixaggio ed un house dal basso croccante, molto french touch, che ha permesso all’impianto di grattuggiare a dovere le orecchie dei presenti. La pista era buia, caotica e bollente. Saremo stati in cinquanta e andava bene così. Il locale scoppiava comunque di energia.
Una volta conclusa la pratica, seduto sopra ad un Uber con i miei due amici, percorrevo la strada che da Brooklyn porta al Williamsburg Bridge e via di nuovo nella frenesia di Manhattan. Le quattro del mattino circa. Era la mia ultima sera e nonostante i tanti chilometri macinati – fuori e dentro il dancefloor – nei giorni precedenti, il mio serbatoio di adrenalina sembrava aver ancora delle inaspettate riserve. Sapevo che a poche centinaia di metri c’era Dubfire che apriva e chiudeva l’Output, un altro dei locali simbolo della scena cittadina. Il buon Ali non rientra più da tempo nella cerchia di ciò che mi attrae musicalmente, ma il locale ero davvero curioso di vederlo. Così, dopo aver tentennato un po’, ho fatto accostare la macchina, ho salutato i miei soci e me la son fatta a piedi fino a lì, passando per un quartiere non proprio nobile che a quell’ora avrebbe tranquillamente potuto dare senso compiuto al titolo “Animali fantastici e dove trovarli”. Una volta arrivato a destinazione ho capito quanto questa visita fosse assolutamente dovuta: una pista stracolma, sovrastata da una balconata che ne percorreva il perimetro – a ricordare una versione mignon del Max, la sala principale del Melkweg di Amsterdam – con un’audience molto meno eccentrica e più “turistica” rispetto al Bossa Nova ad affollare il tutto. A fare da ciliegina un Funktion One perfettamente calibrato che entra di diritto tra i migliori impianti che io ricordi di aver sentito durante le mie scorribande in giro per il mondo. Talmente impetuoso da rendere la scontatissima minimal techno di Dubfire meritevole di essere apprezzata almeno dalle gambe che sembravano non volerne sapere di fermarsi fino alle prime luci del mattino, dove avrei poi ripreso la via di casa verso una metro, tre treni, due aerei e parecchio cibo di qualità tralasciabile prima di schiantarmi doverosamente sul mio divano olandese e terminare così l’ennesimo giro di giostra di un 2017 davvero memorabile.
E dopo aver fatto passare qualche giorno ed aver fatto un po’ di brainstorming emozionale, la cosa che mi sento di dire, tirando figurativamente le somme di questa esperienza, è che quest’ultima notte di follia rappresenta idealmente ciò che la prima volta a New York ha rappresentato per chi vi scrive. Un costante rincorrere il prossimo rush di endorfine e via di nuovo urlando a pieni polmoni sulle montagne russe. Qualcosa che solo una città in cerca costante di attenzione e sempre prontissima a prenderti a schiaffi da ogni direzione puó regalare a chi ha pazienza e curiosità in quantità più che sufficienti da dedicarle. Un luogo della Terra che ha fatto del “di più” il suo valore per eccellenza, con qualsiasi accezione positiva o negativa la si voglia vedere: più metri d’altezza, più luci, più traffico, più calca, più etnie, più senzatetto, più ore d’apertura. Quando si dice che New York è la città che non dorme mai è così per davvero: è quel posto dove alle cinque del mattino in settimana la metro già scoppia di gente. Dove si va a dormire e si sente quel costante rumore di fondo che assomiglia vagamente ad un condizionatore rimasto acceso. È il modo in cui la città, infingarda come non mai, viene a tirarti i sassolini alla finestra come a dire “Oh, guarda che se ne hai, anche a quest’ora, io sono qua eh!”.
È uno dei pochi luoghi al mondo dove ogni angolo è un tuffo nei ricordi anche se non ci si è mai stati prima: le stazioni della metro coi muri a mattonelle ed i bagni ancora uguali da cui non sai mai se usciranno i Guerrieri, coi loro gilet di pelle, dopo aver fatto il culo ai Punk ed al loro capo coi pattini nella drammatica rincorsa per tornare a Coney Island. Il Central Park con davanti il Plaza da cui ti aspetteresti di veder passare Macauly Culkin da un momento all’altro. La Public Library dove Jena Plissken andò a strappare il Presidente dalle mani del Duca. Ricordare a memoria ogni insulto razzista associato al quartiere in cui ci si trova pensando ad Edward Norton che manda a fare in culo tutto e tutti allo specchio prima di andare in galera. Sentirsi dentro ad “Il Padrino” ogni volta che si passa fra i ristoranti con le tovaglie a quadretti bianchi e rossi di Little Italy ed in “C’era una volta in America” passeggiando in mezzo ai magazzini riqualificati di Dumbo, di fianco al Manhattan Bridge. E poi il silenzio assordante del monumento per l’11 settembre che lacera nel profondo. Perché quello, purtroppo, non era un film. Ogni centimetro di New York è diventato in maniera subliminale parte della nostra vita. E quando ce la troviamo davanti ci sentiamo stranamente a casa, come se già la conoscessimo perfettamente. Per questo c’è chi dice che si diventa newyorkesi dopo cinque minuti che si è arrivati in città.
La scena legata alla musica elettronica sulla carta seguirebbe lo stesso concetto. Siamo stati abituati a sentir parlare di ciò che è avvenuto qui come se ci fossimo stati anche noi. Sappiamo a memoria tutti i piccoli aneddoti che sono usciti negli anni e nomi come Dave Mancuso, Larry Levan e via discorrendo sono diventate icone di un tempo che è ormai rimasto soltanto nell’immaginario collettivo di chi c’era e l’ha potuto vivere. Perchè oggi nulla è più al suo posto. Proprio in questi giorni il palazzo dove era ospitato il Paradise Garage viene abbattuto per fare spazio al “di più” che avanza, il vecchio Studio 54 (che però giocherebbe in una categoria diversa rispetto agli altri) è divenuto un teatro non di primissimo piano. Il Loft, il Gallery, il Limelight, il Dancenteria e mille altri simboli di un’autentica rivoluzione sociale e culturale non sono altro che fantasmi relegati all’onirismo di ciò che fu. Tutto questo in nome di un mondo, quello americano, tanto legato alle sue tradizioni secolari – dovreste vedere con che trasporto assoluto viene festeggiato il Ringraziamento da queste parti, una roba impressionante – eppure così mutevole nel masticare e sputare le proprie correnti culturali con la stessa frequenza con cui noi comuni mortali ci cambiamo le mutande la mattina prima di uscire. E chi è arrivato nelle decadi successive, cercando di raccogliere il testimone di ciò che era stato negli anni ’80 e ’90, non ha però avuto la stessa scintilla scatenante a far risplendere il proprio operato.
Per carità, i locali ci sono ancora, la scena esiste e sembra essere anche piuttosto solida e, come detto, dovutamente stratificata in base a diversi target di clientela. Però non ci si può attendere di viverla nella stessa maniera. Non è più un luogo di riparo per chi si sente emarginato dalla società. Non è più un simbolico campo di battaglia per strappare il proprio centimetro in più di libertà difendendolo con le unghie e con i denti. Oggi la società è molto più aperta a tematiche come l’omosessualità e la multi-culturalità (sulla droga rimanderei il discorso di qualche anno, almeno negli States) ed il club, anche quello underground, è tornato ad essere semplicemente un luogo dove godersi buona musica in compagnia di persone legate in maniera più o meno diretta dallo stesso movente. E per quanto serate come quella dell’Analog o del Bossa Nova a me sembrassero ciò che nel mio immaginario credevo dovesse essere un Garage o un Loft della situazione, per chi quel tempo l’ha realmente vissuto sulla pelle 24/7 non potrà mai essere la stessa cosa. Allora ho capito quanto io sia stato sciocco a voler chiedere a Brenda una risposta sensata senza avere a mia disposizione tutti i pezzi del puzzle. Al voler razionalizzare e quantificare qualcosa basandomi su unità di misura sociali e temporali che non sono e non possono essere le stesse con cui loro sono cresciuti. Credere che la club culture americana si riducesse al trovare una pista eterogenea ed un dj di talento è di per se una forzatura. E neanche piccola. Questi sono i nostri canoni di ció che rende un club degno di essere frequentato. Ma mettere le due cose sullo stesso piano come se fossero paragonabili, agli occhi di chi ha vissuto quegli anni, sarebbe come volersi prendere a tutti i costi un pezzetto di quella storia da portarsi a casa ed appendere al muro, sminuendone così il significato. Quello stesso fastidio provato da Brenda nel sentirsi fare quella domanda lo avevo notato anche quando avevo avuto la fortuna di intervistare alcuni dei dj resident del Paradise Garage ed anche lo stesso Siano. E allora mi è sorto un dubbio: e se il fatto che certi luoghi non esistano più fosse il più grande regalo che queste persone potessero paradossalmente chiedere? E se oggi non ci fosse più bisogno di un Paradise Garage per essere liberi di essere se stessi? In fin dei conti basta andare una domenica pomeriggio a Brooklyn e mettersi un ragno gigante sulla testa ed il vestito buono.