Nick Anthony Simoncino è un fenomeno stranissimo, per gli standard di casa nostra. E’ uno che ha un profilo che molti gli invidierebbero, all’estero, fatto per dire di chiamate regolari al Berghain o al Fabric, ma lui non lo ostenta e qua a casa nostra molti non se ne accorgono. E’ uno che scientemente se ne frega delle mode, perché ha scelto un suo ben preciso riferimento stilistico (diciamo la house/techno/electro più pura a cavallo tra anni ’80 e primi ’90) e a quello resta fedele, con una purezza essenziale, quasi canoviana (nel senso di Canova lo scultore neo-classico, non del produttore di Tizianone Ferro e di altre hit pseudo-moderne del pop di casa nostra). E’ uno molto umile, ma se ha delle convinzioni o ha fatto delle scelte non lo sposti da esse manco con un bulldozer. Nick Anthony Simoncino, insomma, è un gran bel patrimonio per la club culture italiana. Chi non lo conosce dovrebbe conoscerlo, chi lo conosce dovrebbe supportarlo ancora di più; se poi non accadrà, pazienza. Lui, imperturbabile, continuerà per la sua strada. Che comunque già ora è una strada notevole. In occasione dell’uscita di “Mystic Adventures”, album licenziato per la storica Vibraphone Records rediviva, ci siamo scambiati una lunga chiacchierata.
Allora, subito domanda secca: esce finalmente l’album, “Mystic Adventures”, un album che per te credo sia importante: che aspettative hai?
E’ importante essenzialmente perché è il primo che faccio su un’etichetta italiana, paradossalmente: in passato sono uscito prima su un’etichetta australiana, poi una di Chicago, poi una di Amsterdam, mai in Italia. Ma se mi chiedi le aspettative… in realtà, di aspettative non ne ho. Non ne ho mai. Né dai singoli che faccio uscire, né dagli album. O meglio, specificando: chiaro che mi aspetto e spero che ci sia una risposta del pubblico, che le cose che faccio piacciano, che arrivi qualche bel feedback. Ma sta tutto lì, stop. Non mi aspetto altro. Anche perché magari se inizio ad aspettarmi altro, poi ci rimango male… Via, diciamo che cerco di non farmi troppe pippe mentali.
Che poi, se ci pensi, è un bel paradosso sentir dire “Finalmente un disco su un’etichetta italiana!” quando per un artista italiano che fa elettronica spesso il primo problema è esattamente l’opposto, è farsi largo all’estero. E’ strano.
Sai qual è la cosa più bella? Ben prima che diventasse così di moda ‘sta cosa della ricerca dei dischi di anni fa, delle ristampe, delle rarità, io avevo già tutta la collezione di Vibraphone. Me la fece conoscere Sauro Cosimetti, i loro dischi all’epoca li pagai una stupidaggine. Sono stati loro a contattarmi su Soundcloud: ancora mi ricordo il momento, mi saltò il cuore in gola per l’emozione!
Ah! Non sei tu che li hai cercati…
Assolutamente no! Sapevo che erano tornati in attività, che c’erano le ristampe… quindi una gioia doppia.
Invece, come eri arrivato alla varie etichette straniere che hanno preceduto la Vibraphone?
Sono partito con la Mathematics, è stato direttamente Jamal (Jamal Moss aka Hieroglyphic Being, NdI) a cercarmi. Non avevo né Facebook né Soundcloud all’epoca, avevo invece MySpace. Avevo messo lì on line delle demo – pensa che non mi ricordo nemmeno che sequencer usavo – e mi ricordo che mi scrisse ‘sto tipo qua, all’epoca non sapevo nemmeno bene chi fosse. Ci tenemmo in contatto per un annetto. Poi, uscì una traccia su una raccolta. Da lì, le cose sono progredite in modo naturale. Nel caso della L.I.E.S. fui effettivamente io a contattare Ron Morelli, sì, anche se di solito sono sempre stati gli altri a contattare me.
Che poi, pure contattando Ron Morelli conoscendoti l’avrai fatto senza nemmeno aspettarti più di tanto…
Ma infatti. Lascio che le cose avvengano da sé. Ed è così che dovrebbe essere.
Non pensi però che in questo modo ti fai anche sfuggire qualche occasione, ad aspettare che siano gli altri a cercare te?
Sicuramente. Me ne rendo conto. E’ anche successo che mi abbiano proposto cose che poi ho rifiutato, o che semplicemente mi siano passate davanti delle opportunità che non ho preso.
E, rimpianti?
Nessuno. Rifarei tutto. Sai perché? Perché io sto benissimo dove sto. Sto benissimo nel punto a cui sono arrivato. Non ambisco a nulla di più.
Però: dove stai?
Non vorrei sembrare spocchioso, ma sto in quello che per me è l’apice. Per le cose che faccio, per l’ambiente che spero di rappresentare qua in Italia, quello descrivibile in modo un po’ dozzinale ed impreciso come “underground”, credo di sare al livello più alto. Per me va benissimo così. Non mi interessa altro. Non mi interessa guadagnare grandi cifre.
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Quando vai a suonare all’estero, cosa che ti capita molto spesso, fino a che punto hai l’impressione che stai rappresentando l’Italia e la scena italiana?
Infatti ho l’impressione che non mi vedano come uno che “rappresenta l’Italia”. E questo mi dispiace. Perché all’estero dall’Italia arriva quello che sono nomi come Marco Carola o Joseph Capriati, siamo visti come quelli che danno per lo più un contributo al mainstream della club culture, a quello che per me è “pop”, io lo chiamo così.
Il lato pop della club culture.
Sia chiaro: io non disdegno nessuno, ho il massimo rispetto per tutti. Non sono uno che giudica in modo affrettato. Sto solo dicendo che quello è un panorama mainstream che, semplicemente, non mi rappresenta. Fortunatamente abbiamo gente che è conosciuta all’estero e ha un bel profilo anche nel panorama più underground, il primo nome da fare direi che è quello di Donato Dozzy. Però sì, quando suono all’estero non mi sento di rappresentare l’Italia, non ho questa impressione. Anche perché, per dire, quando suono al Panorama per carità ci sono italiani che vengono ad ascoltare, sì, ma li puoi contare veramente sulle dita di una mano.
Però dillo: ti piacerebbe rappresentarla, l’Italia. Ti piacerebbe cioè che esistesse una scena forte italiana legata al “tuo” mondo, riconoscibile all’estero.
Assolutamente sì. Ti faccio un esempio preciso, tornando proprio al Panorama Bar, dove bene o male suono almeno una volta all’anno: apro e chiudo i miei set sempre con dischi italiani, che sia Don Carlos o Sueño Latino. Lo stesso lo faccio al Fabric. Quindi ho forti radici. Le sento. Sono italiano. Mi piacerebbe che questa italianità, che ha dato un contributo importante alla club culture, alle sue radici, venisse rappresentata di più. Anche perché funziona. Chiaro, non sono io li main guest del Panorama o del Fabric, la gente non viene per me ma per i nomi più grandi in cartellone, ma quando suono io comunque i riscontri sono sempre positivi. Mi spiace che i riscontri siano positivi più all’estero che in Italia.
Trasferirsi all’estero? Per te potrebbe essere strategico. Lo è stato per chi come profilo all’estero partiva da zero, figuriamoci quanto potrebbe esserlo per te, che un profilo solido ce l’hai già.
Sono troppo pigro. Non riesco a stare più di ventiquattro ore via da casa. Quando finisco un set, mi viene subito voglia di tornare in Umbria. Quindi, no: non sarebbe la scelta giusta per me. Mi rendo perfettamente conto che sarebbe una decisione molto produttiva, aumenterei probabilmente il numero di serate e anche la ma mia popolarità, ma per ora va bene così. Va benissimo così. Non sento l’urgenza di cambiare.
Ascoltando le tue produzioni, quello che salta subito all’orecchio è che hai dei riferimenti molto precisi, molto focalizzati su un preciso periodo storico della musica da club, diciamo tra fine anni ’80 e inizio anni ’90. Su questo sembri davvero molto rigoroso, anzi, proprio intransigente. Però so che di tuo hai anche ascolti abbastanza vari.
Oh sì. Fela Kuti, Vangelis, Tangerine Dream… ma l’elenco sarebbe lungo e variegato. Forse l’unica musica che non ascolto è il metal.
Gli storici produttori dubstep, penso ad esempio a Vex’d, sono spesso fan del metal, tanto per parlare di underground del clubbing. La stessa Mary Ann Hobbs era una metallara, in gioventù.
E si sente, no? Direi che anche un po’ in quello che facevano si sentiva. A me piace ascoltare di tutto. E’ che se non ascolti di tutto e giudichi le cose in modo affrettato – come fa il 70, 80% della gente, e fra questi mi tocca includere ogni tanto anche i producer purtroppo – poi non riesci a capire cosa ti piace veramente. C’è tanta bella musica in giro, un peccato perdersela. Aggiungi che quando sono a casa io non riesco assolutamente ad ascoltare musica da club. Se ascolto elettronica, è roba lenta, cosmica.
Ma senti, fino a che punto in quello che fai come producer c’è una vena, come dire, didattica e pedagogica? Mi spiego: sembra quasi che tu voglia dire “Ehi, queste sono le vere radici, queste sono le cose di maggior valore nella club culture, dovete coltivarle le radici”… aggiungi pure che ora esci su una etichetta storica. Fondamentale appunto per queste “radici” di cui si parla.
In realtà è successo tutto un po’ per caso, per quanto riguarda la Vibraphone, te lo posso assicurare. Sono stati loro a cercarmi. Altre volte, come dicevo, può anche essere successo che abbia cercato io, ma sempre in modo molto mirato. Preferisco fare meno serarte e meno soldi, ma essere fedele alle cose che sento più autentiche.
E magari, appunto, anche un po’ con la voglia di “insegnare”.
Beh, forse sì. Prima ero ancora più estremo: prima volevo proprio “dimostrare”. Forse in modo addirittura esagerato. Ero fissato: solo vinili, usavo la monocuffia… e suonavo solo un certo tipo di cose. Ora ho imparato a mediare. Per esempio, se sei al Fabric non è che puoi partire con quello che pare a te. Pure Craig Richards, che lì non è solo un resident, è molto di più, non si prende poi tutte le libertà ma ha come primo obiettivo quello di “tenere la pista”. Quando sei in un locale di quelle dimensioni, c’è poco da fare, devi saper “fare il dj”. Senza scendere a compromessi, naturalmente, ma devi saper fare il dj, devi saper tenere la pista. Io, quando ero proprio agli inizi e suonavo in locali piccolissimi, in effetti potevo fare quello che mi pareva. E alla gente piaceva pure, devo dire. Ma ancora oggi in certi casi preferisco situazioni un po’ così, dove la console è un buco assurdo, dove la cassa spia manco c’è, però si crea un clima particolare, un’empatia fra te e la gente… quello è magico. Mentre magari in posti anche prestigiosi ti capita invece che arrivi lì, ti mettono subito un braccialetto al polso, ti fanno subito conoscere dieci persone, però ecco, è tutto un po’ slegato e vacuo emotivamente.
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Ci sono date che ricordi in particolar modo?
Positive o negative?
Entrambe.
Una data veramente bella è stata a Tel Aviv, all’Alphabet. Era la mia prima volta a Tel Aviv e, ammetto, non pensavo di trovarmi davanti un panorama underground così forte ed appassionato. I ragazzi che stanno lì hanno una passione pazzesca. Il posto è piccolo, praticamente un bar, ma ogni particolare era curato nel minimo dettaglio: e l’impianto era super, oltre al fatto che in console trovavi un mixer rotary residente. Fu davvero una sorpresa. Suonai tipo per cinque ore, e la cosa bella è che anche i resident erano musicalmente parlando sulla mia stessa lunghezza d’onda, non succede così spesso. Per quanto riguarda le esperienze negative, guarda, vale quello che ti dicevo all’inizio: ho imparato a non avere aspettative. Così non rischio di restare deluso. Però per dire mi ricordo di un festival in Russia, line up molto grossa, c’era Rhadoo, c’era Nastia, c’erano molti altri… tutte le premesse per un’esperienza grandiosa… invece, fu un flop pazzesco. Pochissima gente. E quella poca, non capiva quello che mettevo, non sapevano proprio relazionarsi col mio stile.
Per quanto riguarda l’Italia, dove comunque suoni abbastanza in giro, in questi anni hai visto cambiare il pubblico come conoscenza, come preparazione di base?
L’ho visto peggiorare, purtroppo. Ho visto peggiorare lo standard della gente che va nei club, a livello di consapevolezza musicale e culturale. Non so, sarà il ricambio generazionale, e in effetti io per primo non mi aspetto che la gente “nasca imparata”, le persone vanno educate. Però ecco, a me pare che le nuove generazioni abbiano proprio un approccio diverso.
Diverso come?
Troppo internet. Oggi purtroppo o per fortuna ci arriva tutto. Quindi in passato magari avevi questa voglia bruciante di andare a ballare al sabato, perché solo nei club potevi sentire un certo tipo di musica, oggi invece puoi trovare tutto stando comodamente a casa tua in streaming, che sia Soundcloud o YouTube. Al di là di questo, mi pare stia proprio cambiando l’approccio al clubbing, almeno da noi. Vedi la faccenda degli smartphone, che a me piace proprio poco: all’estero ci sono posti dove non vedo nemmeno una persona col telefono in mano, in Italia non esiste un club dove non ci siano almeno un po’ di persone che guardano lo smartphone mentre sono in pista.
In teoria però proprio internet dovrebbe aiutare l’acculturamento, la circolazione di informazioni…
In teoria sì, in realtà insomma. E’ un’arma a doppio taglio, internet. A volte ti aiuta a scoprire un sacco di cose, vero, ma se hai un potenziale infinito a cui attingere certe volte ti spaventi e hai la reazione opposta, soprattutto se non c’è qualcuno che ti guida nello scoprire le cose. Col risultato che se sei appassionato di qualcosa, alla fine vai a battere sempre lì. Ti impigrisci. Un tempo dovevi alzare il culo. Dovevi andare al Red Zone qui in Umbria, al Kinki a Bologna, lì beccavi dei dj coi contrcoglioni che spaziavano parecchio. Per dire, quando Sauro Cosimetti suonava al Red Zone io mi attaccavo alla console per spiare i titoli sui centrini. Poi, il giorno dopo, andavo su Discogs, me le cercavo queste cose, con fatica (e Discogs non aveva nemmeno il servizio vendita allora, era ancora agli albori). Oggi, paradossalmente, è peggio proprio perché è tutto più facile, la gente non si impegna più.
Senti, fino a che punto “Mystic Adventures” è nato e cresciuto avendo sempre in testa il progetto dell’album e fino a che punto invece ti sei ritrovato con un tot tracce finite in mano e ti sei detto “Massì, perché non facciamo un album”?
La seconda che dici è avvenuta per tutti gli altri album usciti finora, per questo no. Questo l’ho costruito nell’arco di un’estate, ormai un anno e mezzo fa: da giugno a settembre mi sono messo lì e mi sono dedicato solo a lui. E’ probabilmente il primo album in cui cerco di immedesimarmi anche in chi va a ballare in un club, non solo in chi va in un negozio a comprare un disco da ascolto, questo va detto. Provo a tenere conto di entrambi. Ho provato quindi a fare, credo senza scendere a compromessi, qualcosa che potesse funzionare anche in pista, non solo all’ascolto in cuffia. Non è stato semplice. Avrò fatto non so quante release finora, il novanta per cento di queste non sono proprio da pista, di sicuro non sono da peak time, vanno bene diciamo per un pre-serata. Stavolta ho cambiato un po’ direzione.
C’è qualche traccia a cui sei particolarmente affezionato? A me piace molto “Alba Techno”… credo sia la mia preferita.
Anche la mia, probabilmente. E anche per molti altri è lo stesso, anzi, direi quasi per tutti. Ho ricevuto un sacco di feedback: sai, sia con la mia agente italiana che con quella per l’Europa si ragionava se affidarsi alla classica agenzia di PR che va in giro a raccogliere feedback per te però ecco, alla fine ho deciso di no, alla fine ho il contatto diretto con un sacco di artisti che sono sempre molto gentili e disponibili con me, ed è stato così anche stavolta. Ho ricevuto gran feedback da gente come Levon Vincent, Dj Q, Omar-S, e per tutti loro la traccia preferita è “Alba Techno”. Solo Ralf preferisce “Bad Boy Dance”, ma si sa, lui è uno stronzo… (ride, NdI)
Ecco, Ralf: tu fai parte di Laterra, la sua piccola creatura di booking/management. Come ci sei finito? Contiguità territoriale, visto che siete umbri entrambi?
No, per nulla. In realtà la storia è diversa. Io e Carola Pisaturo, anche lei in Laterra, eravamo molto amici, ed è stata lei a dirmi “Guarda che Ralf ti adora, suona tutti i tuoi dischi, vorrebbe conoscerti…” e io “Sì, sì, vabbé”. Fino a che un giorno è proprio Ralf a chiamarmi: “Oh, vieni a pranzo da me”. Va bene, andiamo a ‘sto pranzo. Ci siamo conosciuti così. Figurati, io manco andavo a Bellaciao, la serata creata da lui…
…che è dietro casa tua.
A dieci minuti da casa mia! In otto anni, non ci ero mai stato. Tant’è che a questo famoso pranzo Ralf appena mi ha visto non mi ha manco salutato, ha esordito con “Ma tu perché non vieni a Bellaciao, che non t’ho mai visto?”. E’ andata proprio così. Ed è la cosa migliore. Perché ci siamo “scoperti” in modo naturale. E abbiamo visto che siamo ugualli. Due caratteri a volte del cazzo, però veri, sinceri. Quello che pensiamo, lo diciamo.
Con Carola Pisaturo invece come mai eravate amici? Musicalmente non siete simili, anche come carattere siete diversi.
Oh sì, siamo diversi. Ma avevamo un amico in comune: Massi DL. Che anni fa venne più volte a suonare al Red Zone, ci conoscemmo lì, parlammo un sacco. Poi un po’ più tardi andai a sentire anche Carola, col fatto che suonava a Perugia. Quando mi ha visto lei praticamente mi consoceva già: Massi le aveva già parlato di me, era quello che veniva sempre a rompere le scatole in console al Red Zone… (ride, NdI)
E’ interessante che citi Massi, perché trovo che lui sia una figura particolare. Ha iniziato e sembrava sul punto di entrare nel giro giusto, quello delle mille date, dei cachet alti, di Ibiza eccetera, poi si è volutamente eclissato, si è messo a fare cose col collega e amico Lucio Aquilina, è nato Nu Guinea…
…che è un progetto fantastico.
Assolutamente. Ma dal punto di vista della carriera, il suo all’epoca è stato un suicidio. Purtuttavia mi sembra molto più contento così, senza contare che attorno a Nu Guinea inizia finalmente a montare un interesse non secondario.
Io credo che lui sia uno di quei rari producer in grado di fare tutto, e tutto bene. E’ un musicista, uno che “sente” la musica. A parlare con lui, oltre ad apprezzarne il grande spessore umano, si scopre anche una grandissima conoscenza musicale. Io lo conoscevo come “Massi DL, quello che fa tech-house”, poi sentendolo suonare e parlandogli mi sorprese. Immagino che ad un certo punto non sia più trovato a suo agio in un certo tipo di ambiente. E ha cambiato completamente genere e vita artistica. Ho visto che proprio si era preso un periodo di pausa assoluta, per capire dove volesse andare, cosa volesse realmente suonare. Ora vedo che, con Nu Guinea, ha ritrovato una sua strada – e secondo me è davvero una strada giusta.
Tu ti trovi a tuo agio, nel tuo ambiente?
Nì. Perché ci sono figure che non mi piacciono che contribuiscono abbastanza a rovinarlo. Vedo troppo spesso un continuo arrancare, un continuo e concitato scambio di serate e favori che, boh, mi lasciano abbastanza basito. Sì, ci sono stati dei momenti in cui un po’ disgustato o scoraggiato da tutto questo mi sono detto “Basta, smetto”. Ma fare il dj è la mia vita. Sono nato come dj. Non farei altro lavoro al mondo. Poi, a dirla tutta non esiste, in nessun campo, l’ambiente perfetto. Ed è anche vero che più sali, più vedi cose brutte. Forse è meglio rimanere nel proprio piccolo, non avere troppe mire ed ambizioni – per non rimanerci poi male anche quando certi obiettivi li raggiungi, perché vedi cosa ci sta dietro. Ma anche senza dover per forzare andare in alto o criticare chi arriva in alto, a tutti i livelli c’è questo arrancare, questo continuo reinventarsi per tentare di raggranellare qualche serata… Boh, secondo me o fai bene una cosa, o è meglio che tu non la faccia. Vedi ad esempio la cosa dei live: io non li faccio.
Già. Una follia, a livello di strategia nel booking.
Innanzitutto non li faccio perché sono pigro. Dover smontare le macchine dallo studio per portarle in giro… anche solo a pensarlo, mi passa la voglia. E poi non mi sento tagliato per i live. Sarei impacciato, a farlo. Perché allora mettersi a farli? Solo per racimolare qualche data in più?
Beh, con queste posizioni così nette e “forti” che hai, chi sono le persone che senti vicine come attitudine, più ancora che musicalmente, nel panorama italiano?
Ottima domanda. Allora: Marcello Napoletano prima di tutto, con cui mi sento spesso e con cui c’è un forte rispetto. Lui per me tra l’altro è un grande, per me è il Moodymann italiano…
Magari un po’ meno estroso come figura pubblica…
…è estroso pure lui, eh, solo che la sua è una estrosità più scostante. Non è uno che si trattiene dal dirti le cose. Io sono un po’ più bravo a tenermi le cose per me, quando è meglio farlo. Comunque, a parte lui devo dire che ho molta ammirazione e molto rispetto per gente della vecchia guardia, Ralf prima di tutto come ti dicevo, ma poi Leo Mas, Flavio Vecchi. Anche Marco Carola, paradossalmente: perché i suoi primi dischi erano veramente qualcosa di strepitoso. Erano qualcosa di innovativo, anche quando aveva iniziato a fare minimale all’inizio erano delle cose stranissime, che ti saresti aspettato da un Richie Hawtin quando era nella fase F.U.S.E., se uscissero oggi spaccherebbero tutto, credimi. Comunque sia nel passato che nel presente ci sono un sacco di producer italiani dalle qualità enormi. L’Italia è il paese dove le potenzialità restano per lo più inespresse. E questo perché spesso nel sistema c’è il virus dell’invidia, una strisciante invidia che scorre sottotraccia. Sarebbe molto più semplice fare le cose più in armonia, darsi una mano a vicenda, invece spesso e volentieri si cede al gusto della malizia, appunto dell’invidia, e senti cose tipo “Ah sì, quello si è ritrovato a fare la Boiler Room solo perché…” eccetera eccetera, cose così. C’è sempre qualcuno che si lamenta. Ci sono sempre le frecciatine. Io, se trovo qualcuno che magari manco mi piace musicalmente ma che vedo che sta avendo successo, credimi, sono contento per lui, sono sinceramente contento per lui. Non ho proprio di natura questa attitudine a dire “Eh, ma lui sarà lì solo perché…”; non ce l’ho mai avuta, non la avrò mai. Se fai quello in cui credi, se sei fedele a te stesso, vedrai che prima o poi qualcosa raccogli. Se invece guardi troppo quello che fanno gli altri e ti viene il sangue amaro ogni giorno, beh, forse è meglio se ti metti a fare altro…
(Foto di Erica Cevro-Vukovic)