Quelli appena trascorsi sono stati, senza ombra di dubbio, giorni alquanto tristi per gli amanti della club culture: una delle figure centrali del djing moderno, forse il vero padre fondatore di questo amabile quanto controverso mestiere, il newyorkese David Mancuso, fondatore del The Loft, una delle pietre miliari del clubbing contemporaneo, ci ha improvvisamente lasciato. E non abbiamo potuto fare a meno di dedicargli pensieri e musica. I più fortunati anche qualche ricordo comune. Pochi giorni prima che questo nefasto avvenimento scuotesse gli usuali avamposti dell’informazione globale, avevamo avuto la fortuna di fare quattro chiacchiere con un altro capostipite di quella New York fatta di disco, ribellione ed eccessi, Nicky Siano, che in occasione della sua prossima apparizione in Italia – al Tropical Animals di Firenze il 7 dicembre e al Dude Club di Milano il 9 dicembre – ha deciso di prestarsi nuovamente (dopo averci già regalato una bellissima intervista un paio d’anni fa in occasione dell’uscita del film “Love is the message” incentrato sul mitico The Gallery) per scambiare opinioni e pensieri in totale franchezza e libertà su tanti dei temi caldi del momento e su quanto in alcuni momenti riesca, ancora oggi, a sorprendersi esattamente come accadeva un tempo.
Negli anni ’70 sei stato uno dei primissimi artisti ad alzare l’asticella della tecnica esibendoti con tre giradischi alla volta e sei sempre stato fra i più attivi sotto il punto di vista dei miglioramenti tecnologici nel setup. Ad esempio, eri già solito utilizzare le drum machine ben prima che questo particolare diventasse una prassi. Pare però che l’Era digitale abbia cambiato un po’ le regole del gioco eche tutto ciò di riconducibile alla performance live sembra aver assunto tinte meno pionieristiche rispetto a ieri. Hai mai la sensazione che questo fondamentale cambio di approccio possa aver in qualche modo intaccato un po’ di quell’imprinting da “prestigiatore” che circondava la figura del DJ in passato? Difficilmente oggi ti capita di dire “Ma che diavolo sta facendo quel matto?!” o di non aver la minima idea di cosa siano i prodotti presenti in consolle.
Esatto, ti sei praticamente risposto da solo. In effetti è abbastanza vero, parecchia della magia, di quel modo di approcciarsi al dj, è in gran parte sparito. Questo aspetto però non deve distrarre l’attenzione da ciò che è il vero talento. Dici giusto, chiunque oggi è in grado di programmare una drum machine senza troppi problemi sul proprio PC. Ma allo stesso tempo ci sono persone come ad esempio Nick Hook che sono in grado di creare dei beat fuori di testa ed utilizzare gli effetti in maniera eccezionale, rendendo il loro suono unico e riconoscibile. Qualcosa che rappresenti la loro visione della musica ed il loro talento. Quindi la “magia” di cui parli nell’effettivo esiste ancora. Semplicemente ora risiede principalmente nel talento degli artisti.
Nei suoi anni ruggenti, quelli di cui sei stato una figura centrale, si è sempre avuta la percezione che negli Stati Uniti il clubbing fosse di per se non soltanto una maniera per divertirsi ma anche e soprattutto una via di fuga per abbattere le barriere del pregiudizio imposte dalla società di quel tempo. E forse è stato proprio questo aspetto a favorirne la diffusione e consacrarne il mito ancora prima che la musica lo consegnasse alla storia. A quel tempo avevi la stessa sensazione mentre lo vivevi?
Giusto per essere sicuro, intendi se avevo la sensazione che andare a ballare in quel tipo di situazione avesse dei risvolti dal punto di vista sociale?
Precisamente.
Certo che ce l’avevo. C’era proprio la sensazione che si trattasse di un’interazione anche dal punto di vista sociale in cui l’obbiettivo era stare semplicemente bene insieme al di là di tutto. Per sapere quanto ed in che modo questo tipo di esperienza abbia avuto impatto sulle politiche sociali e sulla situazione antropologica della New York di quell’epoca è sufficiente dare un’occhiata a “Love is the message”, il film che abbiamo girato sul The Gallery, e fare caso alla grandezza del sorriso stampato sulla faccia di ciascun singolo individuo al suo interno.
E come ti sembra la situazione oggi sotto questo aspetto? Ad esempio, per quanto alcuni dei club underground più famosi (il Panorama Bar di Berlino, in cui hai suonato un paio d’anni fa con Jerone Sydenham e Robert Owens, potrebbe essere un ottimo esempio) mantengano tuttora un approccio che lascia ancora la sensazione di aver convogliato persone diametralmente differenti nel nome della musica e dell’unità, si ha sempre meno la sensazione di essere di fronte ad un “fenomeno sociale” in grado di combattere per valori che vanno oltre il semplice divertimento.
Non mi trovi d’accordo, mi spiace. Personalmente quando mi esibisco cerco ancora di mandare un messaggio, è un aspetto fondamentale. Gira tutto intorno a questo, oggi come ieri. Ho molto a cuore i problemi della società di oggi e mai come in questo momento il mondo sembra in equilibrio precario sull’orlo di un precipizio. La musica è sempre stata una via eccezionale per risolvere i proprio guai e te l’assicuro è qualcosa che vedo ancora oggi quando mi esibisco. Tante, tantissime persone vanno ancora a ballare in nome di un bene superiore.
Forse è proprio per questo che al tempo una delle cose più caratteristiche della scena americana fosse che spesso e volentieri erano gli stessi dj ad allestire l’ambiente in cui avrebbero poi proposto il loro suono per renderlo complementare alla musica ed ideale per accompagnare il tipo di messaggio che volevano trasmettere. Non c’era ancora il concetto della guest star che arriva in sala dieci minuti prima di suonare e scappa fuori dieci minuti dopo aver posato le cuffie. Quanto conta nell’approccio artistico esibirsi tra quattro mura che si conoscono meglio di casa propria di fronte a gente che si potrebbe quasi considerare “di famiglia”?
Per fartela breve credo sia sufficiente pregare, meditare ed agire in base a ciò che l’amore che alberga dentro di noi ci suggerisce.
E quali erano i club di New York City che maggiormente rispecchiavano questo tipo di sensazioni in quegli anni?
A quel tempo sicuramente The Gallery, The Loft e poi qualche anno dopo il Paradise Garage prima ed i party Body & Soul dopo.
Visto che questa conversazione sta avvenendo grazie ai ragazzi del Dude Club di Milano, dove ti esibirai il prossimo 9 dicembre, mi piacerebbe sapere cosa ne pensi della scena italiana. Qual è stata la prima volta che sei stato qui a suonare?
La prima volta se non ricordo male è stato nel 1996. Ho sempre percepito un forte legame sentimentale col vostro Paese visto che la mia famiglia è di origini italiane. Mi sono sempre sentito a mio agio venendo qui, come se fossi a casa mia. Davvero.
Quando penso, ad esempio, alla diffusione dell’house music, ricordo che dopo la sua nascita fra Chicago, Detroit e New York City, tutti i grandi artisti (o per lo meno la maggior parte) vennero in Europa per spargere il “verbo di Jack” e favorire la diffusione del genere fino alla sua definitiva esplosione. Mi sono sempre chiesto – e considerato che sei stato fra coloro che hanno avuto le chiavi della scena newyorkese di quegli anni saresti stato sicuramente preso in considerazione per una cosa del genere – se anche durante gli anni ’70 ci fu l’occasione di esibirsi in ambito internazionale sull’onda del fenomeno della disco. Siete mai usciti dagli States per promuovere quel tipo di suono o si è sempre mantenuta più una cosa “locale”?
Devo dire che mi è capitato, al tempo, di suonare in parecchi posti lontano da casa. Ma mai fuori dagli Stati Uniti. Devi anche mettere in considerazione il fatto che ogni singolo sabato notte dal 1971 al 1983 dovevo suonare qui. Spesso capitava lo stesso il venerdì, altre volte era una Maratona dal mercoledì alla domenica. Capirai da solo che non era davvero pensabile in alcun modo di mettere in calendario un viaggio di quel tipo a quei tempi.
Per altro di recente pare che la disco e l’R’n’B siano tornati alla ribalta in maniera globale. Un processo nato anche grazie all’ultimo album dei Daft Punk che li ha riportati nuovamente sulla bocca di tutti. E’ tranquillamente possibile accedere a quel tipo di suono in molti dei club “underground” nei quali mi è capitato di passare in giro per l’Europa. Un’altra cosa che ho notato è che molti artisti spesso sembrano più indaffarati a fare a gara a chi ha pescato il vinile più vecchio e raro invece che concentrarsi sul creare qualcosa di nuovo che possa identificare musicalmente il nostro tempo. Credi che questa “bolla revival” sia qualcosa che scemerà col passare del tempo e di cui non rimarrà traccia alcuna o magari essere alle prese con questo tipo di suono potrà favorire ed ispirare la nascita di qualcosa di nuovo ed interessante da un punto di vista artistico/produttivo?
Guarda, non saprei proprio. Ci sono stati tanti momenti storici in cui la disco ha tornato a far parlare di se nel corso di questi ultimi decenni. Ma credo che quello attuale sia senza dubbio il più grande di tutti. Se questo aspetto riuscisse a favorire ed ispirare la creazione di nuova musica sarebbe davvero fantastico. Ci sono già un sacco di nuove uscite che hanno il sapore della musica dei miei tempi. “Uptown Funk” di Bruno Mars potrebbe essere un ottimo esempio. Suona proprio come un sacco dei nostri classici.
Classici di cui però ho letto non eri un gran fan a suo tempo. Anzi, al contrario preferivi suonare tracce magari meno rinomate che potessero realmente sorprendere ed educare il tuo pubblico con qualcosa di mai sentito prima. Considerato che oggi chiunque può accedere pressoché a qualunque contenuto musicale tramite una moltitudine di formati e scoprire ogni traccia che viene suonata è ormai un processo quasi istantaneo, credi che questo tipo di approccio potrebbe essere ancora valido?
Per farti capire: pensa che io ancora oggi mi ritrovo a scoprire alcuni lati B di dischi che al tempo non erano particolarmente rinomati e considerarli tranquillamente delle hit da suonare oggi. Per altro mi diverto a fare un sacco di edit di vecchie tracce in modo tale da cercare ancora di sorprendere il mio pubblico con qualche chicca dell’epoca dovutamente rimodellata.
Non credi che tutta questa accessibilità musicale possa aver ucciso un po’ di quello che era il ruolo originale del dj? Cioè quello che aveva il ruolo di promuovere la nuova musica per conto delle etichette, che suonava quel disco che tanto ti piaceva e che potevi sentire solo dai lui, che ti dava una ragione per andare nel club ed espandere i tuoi orizzonti musicali.
Non saprei dirti se sia perso quel tipo di funzione. Quel che è certo è che mi sento in diritto di rimarcare di aver patrocinato la diffusione di tanti dei grandi classici di quell’epoca. E forse la presenza di Internet renderebbe oggi questo tipo di paternità un po’ più difficile da conferire ad un dj.
Cambiando argomento, sai che recentemente sono stato ad un panel all’Amsterdam Dance Event in cui Dave Clarke ha lanciato (come provocazione) l’idea di obbligare i dj a sostenere un esame per testarne le capacità tecnica e dimostrarne l’attaccamento alla scena di cui fanno parte. Per quanto vada presa – ovviamente – come una mera provocazione, sarebbe interessante sviluppare questo tema in quanto effettivamente pare che ora come ora sia divenuto più rilevante saper vendere bene la propria immagine rispetto al proprio talento artistico. Che ne pensi?
Te la faccio semplice: chi non conosce la storia è condannato a ripeterne gli sbagli.
L’ultima domanda che voglio farti riguarda l’enorme eredità che i grandi artisti americani ci hanno lasciato. Essendo uno dei pionieri del djing moderno, mi piacerebbe chiederti quali artisti dovrebbero essere maggiormente menzionati come i veri “game-changers” della scena newyorkese di cui hai fatto parte. Al di là di quelli sempre citati come te, David Mancuso e Larry Levan.
Senza dubbio bisognerebbe menzionare Francis Grasso, David Rodriguez e soprattutto (e lui è stato davvero fondamentale ma non viene mai menzionato) una figura come quella di Richie Kaczor. Il dj che ha reso lo Studio 54 il mito che oggi tutti celebrano.
ENGLISH VERSION
These last days have been quite tough for true the electronic music lovers: one of the main head of modern djing and most probably the real godfather of this lovable as much as controversial profession, New York’s legend David Mancuso, founder of the infamous club The Loft, has suddenly passed away. And of course all the electronic music community did its best to a tribute with music, thoughts and for the most lucky ones even some common memory. Some days before this tragic event we had the occasion to share a nice talk with another founding father of that blend of disco, rebellion and excess which was NYC during the 70s and 80s. Nicky Siano, who’s looking forward to his forecoming gig at Dude Club in Milan next 9th of December, decided to show himself again for us (after giving us one of the best interviews back in 2014 for the release of “Love is the message”) to open up on hot topics and to discuss a bit about how easily he’s still getting surprised by music and life as it was back in the day.
You’ve been one of the first artists to play with three decks at once in the 70s and you always pushed yourself hard on technology improvements. For example you’ve been using drum machines live way before it became a regular thing. After the digital Era kicked in, everything related to live performances seemed way easier and accessible compared to how it was back in the day. Do you perceive this major change could have ruined a bit the “magician” imprinting who the djs from back then seem to have? Something like “What the hell is he doing there?!”
Now you just know it. Yes a lot of the magic is gone, but that still doesn’t take away from someone’s talent. Say everyone can get a drum machine on their computer, but someone like Nick Hook can program incredible beats and use effects in a very unique way. That is his vision, his talent. So the magic still exists in the talent.
During its early years it always felt like clubbing was a way to bring down the walls of prejudice brought by the outside social and political situation. And that, most probably, was what made it so special and important for the ones who were involved. Even before music. Did you have the same feeling living it in first person?
Just to be sure I got this right, did I have the same feeling about the fact that it was a social statement?
Exactly.
Yes, I knew it was a social interaction and a way of healing. How big was the impact of social matters within NY’s club scene at the time? If you have seen the film shot at the Gallery “Love is the message” the impact was evident in the smiles on everyone’s faces.
And how do you think it is today? Despite some of the world’s best underground clubs (Berlin’s Panorama Bar, in which you have played alongside Jerome Sydenham and Robert Owens some time ago, could be a good example) still give the feeling to gather so much different people together in the name of music and unity, I perceive a slightly minor “social” meaning in the way clubbing is conceived nowadays. Like it’s just something to have fun with and that’s it. Do you feel the same about it?
Honestly I don’t, I’m sorry. I’m very concerned about the world and the issues that face us, and our possible demise, so I program with messages now, it’s all about the message. Music is a healing entity, even today. The world is at a precipice but I see it at many of my recent gigs. People coming together for a greater good.
Maybe it’s just because of this that one of the most incredible things about the US club scene back then was the fact that most of the djs were also the ones who were setting up the club, preparing the decorations, designing the soundsystem. There were no rockstar guest artists coming in ten minutes before performing and getting out ten minutes after dropping the headphones. How different is to approach to a place and a crowd which you know better than your own family house?
I pray, I meditate, and I do what I feel the love inside me dictates.
And what where the NYC clubs who most represented this way of thinking?
At that time The Gallery and The Loft. Then aftet that time The Garage for sure. Most recently the Body And Soul parties.
Considering that we’re having this chat thanks to the gig you will play at Dude Club in Milan on December 9th, what’s your view on the Italian club scene? And when was the first time you came to play in our country?
1996 was the first time. I have always had a very sentimental feeling for Italy being of Italian descent. I have always felt welcomed and at home there.
When I think about house music for example, after its creation within cities like Chicago, Detroit and NYC, all the big names (at least most of them) came to Europe to spread the word of Jack. But since you were in full charge of the NY scene way before that moment, have you ever had the occasion to perform outside the US during the 70s or was it just a “local” thing back then?
I played in several cities in the States but not international at the time. You have to remember something: I worked every Saturday night from 1971 until 1983 and a lot of Fridays too. Sometimes even from Wednesday through Sunday. So there was no way to schedule these trips back then.
Recently it really seems like disco and R’n’B are kicking in again, thanks (for example) to Daft Punk’s brand new album who brought them mainstream again. You can also hear them in many of the so called “underground” club I’ve been visiting in Europe and many notorious artists are nowadays more concerned about digging old records and racing for the one who has the most rare vinyl instead of creating something new themselves. Do you think that this will be just a temporary revival “bubble” that will lead to nothing or maybe having this kind of vibes back could create some new inspiration for future music matters?
Well I don’t know. There were several waves in it’s revival but this for sure is the biggest. If it insprires new music, that would be wonderful. Many new records sound like old ones honestly. Bruno Mars’ “Uptown Funk” sounds like several classics.
But I read that back in the day you were not a big fan of playing disco masterpieces but you preferred to spin less known tracks that could actually surprise your audience. Do you think that this kind of “no one know this track” attitude could still be possible today, considering that with the internet everybody can find every track in a bit?
I am still discovering B sides that were not big then that have become hits for me now. Also, I do edits of many old songs so people get something they do not expect.
Don’t you think that this huge accessibility could have “killed” the original role of the dj who was promoting the tracks for the labels, playing that one track that you could only here from him and that was giving you a major reason to go to the club to expand your music knowlodge?
I don’t know if this kind of role has been lost today but I know I was responsible for introducing many classics and that might have not been the case with the Internet.
You know, recently I attended a panel at Amsterdam Dance Event where Dave Clarke was proposing to let new djs take exams to prove their commitment to the scene and its history. This could be a very interesting topic since now looks like being good in social marketing could be more relevant than having skills production and performing wise. What’s your opinion on this?
Those who do not know history are doomed to repeat the mistakes of the past.
My last question is about the heritage that mythological US artists have left us all. Since you’ve been one of the pioneers of modern djing and clubbing, I want to ask you which djs should be really considered as game changers within NYC’s club scene history. Maybe someone who’s not mentioned enough besides the usual names like you, Dave Mancuso or Larry Levan.
Francis Grasso, David Rodriguez and most important (and never mentioned) the great dj who made Studio 54 what it was: Richie Kaczor.