Milanese classe 1978, Nicola Ratti, è uno dei principali esponenti della nuova scena elettronica italiana votata alla ricerca e alla sperimentazione. Chitarrista con i Ronin e musicista poliedrico attivo da anni, il suo approccio attuale è focalizzato sulla sperimentazione analogica, il sound design e le installazioni sonore. Affianca alla carriera solista collaborazioni con Giuseppe Ielasi come Bellows e con Attila Faravelli ed Enrico Malatesta come Tilde, oltre a sconfinamenti sempre più presenti nel mondo dell’arte visiva contemporanea. I suoi album sono usciti per etichette come Anticipate, Preservation, Die Schachtel, Entr’acte, Senufo Editions, Boomkat Editions, Holidays Records, Megaplomb, Musica Moderna, Boring Machines, Coriolis Sounds, Where To Now? e Zymogen. È stato il curatore delle Variable Series presso lo spazio O’ a Milano, organizzatore del Festival Auna e attualmente, con Alberto Boccardi, è il curatore di Standards, Milano, luogo di incontro e approfondimento sulla musica sperimentale. “Pressure Loss”, il suo ultimo lavoro, appena pubblicato dalla londinese Where To Now?, definisce un ulteriore sviluppo del suo approccio minimalista all’elettronica, un salto nella contemporaneità che evolve attraverso ritmiche contrastanti, esperimenti tonali e atmosfere sotterranee. Lo abbiamo intervistato alla vigilia della sua data fiorentina, in Sala Vanni per la rassegna Hand Signed.
Il tuo ultimo progetto curatoriale, condiviso con Alberto Boccardi negli spazi milanesi di Standards, è solo uno dei progetti nei quali ti impegni a trovare spazi per musicisti che ami. Sto pensando ad appuntamenti come The Variable Series e Auna. Come si combinano il tuo percorso da musicista e quello da curatore?
Con le tre esperienze che hai citato ho cercato di dare una struttura a quell’attività di organizzazione di concerti che prima di esse era più sporadica e dettata più che altro dall’accogliere le richieste di musicisti di passaggio da Milano. Diciamo che rispetto a prima ora è più evidente per me un bisogno di organizzare “curando” piuttosto che “accogliendo”, secondo criteri che individuo come coerenti con il mio percorso artistico, come approccio non come stile. Le due cose si combinano bene ma allo stesso tempo la pratica curatoriale mi permette di seguire degli interessi che nel mio percorso personale non sempre riesco a coltivare, come ad esempio l’interesse e lo studio della relazione profonda tra suono e spazio. Questo vuol dire orientarsi verso l’organizzazione e promozione di pratiche performative che di tale relazione tengano conto e che quindi possono prendere forme diverse da quelle canoniche della performance live come installazioni, incontri, diffusioni che mettano in discussione le strutture canoniche della “musica dal vivo”. Vorrei precisare però che io non sono un “professionista” (parola che odio) del settore, non me ne vogliano quindi coloro che si sentono tali… in effetti oggi l’aggettivo “curatore” è decisamente abusato.
Due altri musicisti che sono stati ospitati nel programma di Hand Signed, Bill Kouligas e Oliver Coates, sono anche loro curatori di rassegne e festival. Una semplice coincidenza o lo sfogo naturale di un percorso di ricerca?
Non credo sia una coincidenza, ma i motivi possono essere molti: la richiesta da parte di qualcuno che ti chiede di organizzare i concerti nel luogo che possiede o gestisce, l’interesse personale in questo tipo di pratica, semplicemente la voglia di sentire un concerto che ti piace molto, un collega (altra parola che odio) che passa dalla tua città e ti chiede un aiuto per trovare una data. In fondo mi sembra un’attività coerente con l’essere musicista a tua volta.
In generale pare un momento particolarmente interessante per le rassegne che in Italia provano a saldare il rapporto tra la sperimentazione storica e le nuove forme: Terraforma, Standards, Hand Signed, En Avant a Torino… Che ne pensi?
Si hai ragione ma penso vada di pari passo con un interesse più globale verso la sperimentazione soprattutto in quel punto dove il confine tra di essa e la musica più riconoscibile si assottiglia di molto.
Ci racconti come è nata la collaborazione recente con Skyapnea su NTS Radio?
Ho conosciuto Giovanni Civitenga (la persona che sta dietro alla label Skapnea) qualche mese fa. Parlando gli ho raccontato del disco in uscita e lui mi ha proposto di fare un mix di due ore per il suo programma su NTS in corrispondenza dell’uscita dell’album.
Come musicista hai una formazione prima da pianista e poi da chitarrista, passando per l’avventura con i Ronin sei arrivato alla sperimentazione elettronica. È stato un passaggio organico o segnato da cambi repentini?
Mi fa ridere pensarmi “pianista” in effetti è stato il mio primo strumento ma andavo alle elementari quindi mi è un po’ passato di mente. No, non è stato mai repentino anzi è stato un lungo e costante percorso di ricerca oltretutto affatto terminato. Pianoforte a parte, gli altri momenti che citi sono sempre stati paralleli tra di loro magari con un’attenzione e impegno differente ma sempre presenti. Però sono molti mesi che non tocco la chitarra quindi forse non è del tutto vero quello che ho scritto sopra, diciamo allora che ci sono stati dei gradini e non è sempre stato un piano inclinato.
Delle tante collaborazioni in questi anni una mi pare particolarmente significativa e importante per il tuo percorso artistico, quella con Giuseppe Ielasi. Ti va di raccontarcela?
Sicuramente tra i vari progetti e collaborazioni quella con Giuseppe come Bellows è la più longeva e attiva. Il motivo sta nel fatto che non mettiamo alcuna pressione in essa, quando ci va o qualcuno ce lo chiede ci vediamo e registriamo del materiale nuovo, quando qualcuno ci chiama a suonare a delle condizioni accettabili accettiamo, non cerchiamo concerti e raramente chiediamo qualcosa a qualcuno. Ogni disco è un lavoro a sé, non c’è un’idea iniziale, improvvisiamo e facciamo solo quello che ci piace e che ci pare. Le paranoie e le ansie stanno fuori, o meglio dentro alle altre cose che facciamo separatamente.
Hai spesso lavorato alla composizione di colonne sonore per installazioni video e performance. Cosa aggiunge questa frequentazione alla tua ricerca musicale?
Molte di esse rientrano in quelle che io chiamo “attività remunerative” (sto cercando di eliminare la parola “lavoro” dal mio vocabolario) e in quanto tali valgono ciò che semplicemente sono. Ce ne sono alcune poi che hanno un senso anche all’interno del tuo percorso artistico e che quindi rientrano appieno in quel flusso di crescita e ricerca che ognuno di noi cerca di portare avanti. Il mio interesse per il rapporto spazio/suono ovviamente arricchisce queste esperienze così come la mia formazione da architetto.
Le trame ritmiche sono tra gli elementi maggiormente significativi nel tuo processo compositivo. Molte volte sembrano partire dal sampling e dall’editing, due pratiche che hanno molto a che fare con la natura ricombinatoria del suono digitale. Come ti rapporti a queste fasi del lavoro di produzione?
In realtà ultimamente non lavoro mai con il sampling e pochissimo con l’editing di tracce registrate. Quello che cerco in una composizione sta prima della registrazione ovvero nel creare delle strutture e delle successioni di eventi autonomi singolarmente ma complessi nel loro insieme. Le trame ritmiche a cui ti riferisci sono spesso ottenute dalla registrazione simultanea di 4 o più pulsazioni ottenute dalla combinazione di elementi elettronici e non digitali. Il momento compositivo quindi avviene prima di essere registrato sul supporto, ad esse poi segue ovviamente una fase di mix ma è molto importante che il materiale si soddisfacente già mentre lo si sta organizzando, settando e calibrando.
Stavo riascoltando W10, la traccia centrale di ‘Pressure Loss’, il tuo album su Where To Now?. Mi pare esemplificativa di un nuovo metodo compositivo basato su costruzioni ritmiche minimali, ispirate da scansioni techno. Coerentemente, il video generativo realizzato dal franco-canadese Simon Chioini gioca con poche e semplici forme tridimensionali in uno spazio cinetico e astratto. Come è nata questa collaborazione?
Simon mi è stato fatto conoscere da James e Matt (i due WTN?). Ho pensato subito che non andasse bene per il mio materiale, così digitale in confronto ad un materiale audio concretamente analogico e ottenuto attraverso la sincronizzazione manuale di vere e proprie macchine elettroniche, ma poi proprio per questo ho pensato sarebbe stato interessante il confronto e fare questo esperimento e posso dire di esserne stato molto soddisfatto.
Che tipo di live proporrai nella tua performance in Sala Vanni, a Firenze, per Hand Signed?
Ho lavorato molto nell’ultimo anno ad un’idea di live che rappresentasse fedelmente l’approccio e attitudine che sta dietro a Pressure Loss e quindi al tentativo di proporre un momento performativo il più possibile unico costituito dagli strumenti base che compongono il disco (lfo+cv+filtri modulari) all’interno di cui potersi perdere scegliendo a quale dei pochi elementi in campo prestare ascolto oppure distanziandosene percependone l’insieme. Perché questo funzionasse mi sono reso conto che la dilatazione delle durata limitando il più possibile il succedere delle variazioni, se non come sfumature, fosse un fattore necessario. Ne è uscito un concerto in 2/3 sezioni che si sviluppano senza soluzione di continuità lungo la durata dell’intera performance.
A cosa stai lavorando in questo momento e quali sono i tuoi progetti imminenti?
Ho cominciato pochi giorni fa a registrare del materiale per una nuova collaborazione in cantiere con il musicista statunitense Jake Messina Meginsky, un’altra collaborazione in previsione è quella con il danese Mads Emil Nielsen con il quale condividerò un paio di concerti in nord europa a giugno come occasione per conoscerci meglio e registrare insieme nei giorni seguenti. Come Bellows invece siamo in attesa della pubblicazione di un Ep e di un Lp, i tempi non sono ancora certi ma sicuramente entro la fine del 2016. Invece sul fronte “curatoriale” ho fondato un’associazione culturale (Frequente) con Gaia Martino, una giovane curatrice, ed Enrico Malatesta, già compagno nel progetto Tilde con Attila Faravelli, finalizzata alla diffusione ed organizzazione di eventi inerenti il suono e le arti sonore sia da un punto di vista performativo che didattico e laboratoriale.