Attorno a Nils Frahm c’è un autentico culto (…e sì, facile che anche voi che state leggendo queste righe lo abbiate). Un culto che ha adepti pure ben famosi: uno di essi deve evidentemente essere anche Brad Pitt, nel momento in cui con la sua casa di produzione personale – la Plan B Entertainment – ha deciso di diventare il produttore esecutivo di “Tripping With Nils”, non solo un disco, ma anche un film con la regia di Benoit Toulemonde, film che è nient’altro che la documentazione di un magico concerto di Frahm “a casa sua”, ovvero in quella Funkhaus berlinese di cui lui ha occupato e ristrutturato una sala, in tempi non sospetti, per farne il suo studio di registrazione personale e che ora è una delle venue più iconiche della città. Siamo partiti proprio da questo, nella nostra chiacchierata. Avvertenza: tanto quanto la musica di Frahm è “alta” e quasi mistica, altrettanto però lui è simpatico, alla mano, pronto allo scherzo. Una bellissima lezione, in arrivo da un campione di una musica – la cosiddetta “nuova classica” – che macina attenzioni, numeri e riconoscimenti ma spesso si camuffa dietro una pretesa da cultura “alta” quando è invece, talora, catena di montaggio di “soluzioni facili” e, insomma, musicalmente un po’ paracule. Frahm in tal senso è al di sopra di ogni sospetto: per la qualità della sua discografia, per l’intensità dei suoi concerti e, come potete leggere e controllare voi stessi qui, per la bellezza della sua umanità ed (auto)ironia. Avercene, di musicisti così.
Bellissima la Funkhaus, eh, un posto magico, tutto quello che vuoi, ma è davvero maledettamente distante da tutto…
Questo è quello che dicono i berlinesi-berlinesi! Dai troppa retta a loro! Ma se senti uno che arriva da Parigi o Londra sappi ti dirà “Ma no, ma dai, è dietro l’angolo, che dici”… Io, nel dubbio, ho cambiato recentemente casa e mi sono messo proprio attaccato ad essa. Così per me è “vicina” per forza.
No guarda, non credo di essermi fatto suggestionare. Per dire, di notte è completamente isolata come trasporto pubblico e questo a Berlino è una rarità, la BVG arriva dappertutto e a qualsiasi ora di solito! Ma alla Funkhaus, no: c’è giusto un tram diurno.
Eh, ma è perché la gente qui viaggia con la mente, a che ti serve il trasporto pubblico! (risate, NdI)
Ma senti, cosa ricordi dei giorni, anzi, delle settimane e dei mesi che avevi passato originariamente dentro la Funkhaus a costruire il tuo studio personale?
Fu un periodo stranissimo ed al tempo stesso molto intenso. Più passavano i giorni più avvertivo il bisogno di fare musica ma… non potevo! Ero in mezzo ai lavori! Poi però mi dicevo che stavo costruendo un posto con le mie mani, al cento per cento secondo le mie esigenze, e la soddisfazione saliva forte dentro di me, oscurando tutto il resto. Sai cosa, è la stessa sensazione di fare un soundcheck infinito, lungo tipo sei mesi: quando poi finalmente suoni le prime due note del concerto, beh, ti fa strano. Molto strano. In effetti da un lato stavo divinamente, per la sensazione di soddisfazione personale di cui ti dicevo; dall’altro è stata proprio questa soddisfazione a tenermi a lungo lontano dalla voglia di mettersi lì a scrivere musica nuova seriamente.
Il disco che è venuto fuori da tutto questo percorso è “All Melody”, e in un’intervista ho letto che affermavi che ad un certo punto ti era venuta proprio l’ansia di completare in fretta il lavoro. Ti dirò: “Nils Frahm”, “fretta” ed “ansia” sono tre cose che faccio fatica ad immaginare assieme.
Oh, ti ringrazio per questo! Sì, nel mio mondo ideale tutto si evolve in maniera naturale, organica: sia come modi che come tempi. Ma sai cosa, con tutto il mio team ci eravamo accordati due anni di pausa da tutto, niente concerti, niente interviste, e avevo tra me e me pensato “Ma che figata, in questi due anni di tranquillità minimo minimo tiro fuori almeno due album di materiale nuovo, ma minimo proprio”. E invece…
Invece nulla, eh? Ma è stata dura riprendere il ritmo?
Sì. Soprattutto all’inizio, quando ho ripreso seriamente a scrivere e poi a suonare in giro. In due anni in cui mi ero tenuto lontano dalla musica e dagli impegni “ufficiali” da musicista non è che abbia poltrito e basta, sia chiaro; però ecco – facevo altro. E ho perso completamente la forma, la condizione. Per fare il musicista, intendo. Sai, suonare per due ore completamente da solo, tanto per fare l’esempio più banale, è un’attività che richiede un grande sforzo sia fisico che mentale, cosa che spesso si sottovaluta. E lì puoi anche fare tutte le prove che vuoi nel tuo studio o in una sala di regitrazione, ma nulla è all’altezza di quello che è davvero il suonare dal vivo, di fronte ad un pubblico. Nelle prove che hanno preceduto il tour conseguente ad “All Melody”, quello che poi abbiamo immortalato in “Tripping With Nils”, sai quando sono riuscito per la prima volta a fare tutto il concerto di fila, ma proprio di fila, senza pausa sigarettina o senza dire “Vabbé, vado un attimo in bagno”? Due giorni prima. Solo due giorni prima. E quando ci sono finalmente riuscito la prima cosa che mi sono detto è stata “Madonna, ma non ce la farò mai a farlo di nuovo, collasso, non ce la faccio”. Poi invece riprendendo a suonare la forma torna, progressivamente. E quando abbiamo registrato “Tripping With Nils”, beh, penso di poter dire che come forma ero veramente in uno stato di grazia, mai stato così bene.
(Eccolo, “Tripping With Nils” in versione audio; continua sotto)
Idea tua, quella di uscire con quello che è praticamente un film su un tuo concerto?
Se dicevo di no, la mia etichetta minimo minimo mi portava in tribunale… (ride, NdI) “Dai, meglio farsi riprendere mentre suoni che farsi mesi e mesi in carcere”, mi sono detto (altre risate, NdI). Scherzi a parte, penso sia sempre una buona cosa avere ogni tanto una nuova documentazione di quello che è il mio suonare dal vivo. Anche perché a occhio la gente apprezza molto quello che faccio live, anzi, non sai quante volte sento o leggo cose tipo “Eh, Frahm, sì, non male i suoi dischi, ma dovresti vedere dal vivo che roba che è… E’ lì che viene fuori il suo valore per davvero!”: e allora, visto che a stare a lungo in studio di registrazione mi sono divertito soprattutto io, era giusto dare una soddisfazione anche a chi mi segue, no? Perché coi fan c’è proprio un bel rapporto. Perché deluderli? In più, devo dire che già con “Spaces” avevamo capito che la mia musica si prestava molto bene ad essere catturata live; se a questo aggiungi il fatto che sì, nel web di registrazioni di miei concerti ce ne sono molte (tra Arte, Boiler Room, Montreaux), ma sono tutte ormai datate – la più recente credo sia del 2015 – e soprattutto sono fatte da persone che non mi conoscono bene, che non conoscono bene la mia musica, che devono venire fuori con la versione definitiva di quanto ripreso la sera stessa (“Ciao Nils, eccoti la registrazione del live”, “Ma come? Ma se ho finito di suonare dieci minuti fa? Come avete fatto?”, “O così o ci licenziano…”), insomma, se metti insieme tutto questo allora sì, venire fuori con “Tripping With Nils” può avere un senso, no? Con questo concerto alla Funkhaus non c’era bisogno di venire fuori con la documentazione filmata a dieci minuti dall’ultima nota, da consegnare al broadcaster prima di subito. No. Avendo avuto cento volte più tempo per rifinire e montare il girato, forse non è troppo ambizioso affermare che effettivamente potrebbe venire fuori un prodotto almeno due volte meglio di quello che finora si è visto in giro.
Ho notato una cosa: ci sono un sacco ma proprio un sacco di primi piani.
Ma perché alcune camere più distanti non funzionavano, e allora abbiamo dovuto metterne tanti.
Mi stai prendendo in giro, eh?
(ride, NdI)
Altra cosa che ho notato in generale, e pure in “Tripping With Nils” nello specifico si vede parecchio: la gente ai tuoi concerti è felice, sorride molto.
La musica è un’esperienza complessa e poliedrica: può essere felice, può essere triste, può essere entrambe le cose, può essere un’esperienza catartica. Se tutto questo “viaggio” termina con un sorriso, io ne sono felice. Quello che nel mio piccolo voglio – e che concretamente perseguo per come scelgo note, suoni, dinamiche – è rappresentare un ampio spettro di emozioni, da quelle più serie a quelle più felici e divertenti, perché in fondo anche la vita ci dà esattamente questo.
(Il trailer ufficiale; continua sotto)
Una cosa che mi ha sorpreso, tempo fa, è aver letto che ami molto Thelonious Monk. Anche io adoro Monk, eh, ma nel tuo caso la cosa mi ha colpito perché la tua musica è, almeno all’apparenza, distantissima dalle “angolarità” monkiane.
Quando un grande autore ha uno stile molto particolare, e quello di Monk eccome se lo è!, la cosa più saggia che puoi fare è non tentare di avvicinarglisi: perché qualsiasi cosa tu faccia, sembrerà sempre e solo una pallida, sciapa imitazione. Ma se si è musicisti, non si può non essere debitori di Monk. Prendi anche solo il jazz: senza Monk non ci sarebbe Miles Davis, senza Monk non ci sarebbe nemmeno Coltrane. Non ci sono dubbi. Tutto il lato più spirituale ed “intelligente” del jazz è stato profondamente influenzato da lui: mi pare oggettivo. Semplicemente, Monk è un genio. E se io non fossi in grado di comprenderlo ed apprezzarlo, beh, mi sa che farei meglio a darci un taglio con la musica. Chiunque non sia in grado di comprenderlo ed apprezzarlo farebbe meglio a cambiare mestiere, nel caso faccia il musicista.
Un altro amore in comune che abbiamo è quello per la ECM. Label con cui hai più di un legame, non solo come ascolti ma anche per via di tuo padre…
Beh, Manfred Eicher, il fondatore della label, è una persona incredibile. La storia è che Barbara Wojirsch, la art director storica della label, era molto amica di mio padre, che a sua volta faceva il fotografo (e Barbara ha usato anche alcune sue foto per le copertine di alcuni album). Mi ricorderò per sempre un giorno in cui, da bambino, sono finito a casa di Barbara e ho visto tutti i suoi “attrezzi da lavoro”, le foto in giro pronte ad essere incollate, il lavoro sul lettering… mi colpì davvero moltissimo la cosa.
Comunque insomma, entrambi ascoltavamo dischi ECM quando avevamo tipo otto, dieci anni. Non è una cosa sana, dai.
Beh, di sicuro se a quell’età ascolti dischi ECM la cosa ti fa sembrare un po’ strano agli occhi dei tuoi coetanei, vero.
Ecco!
Mah, si vede che è questione di predisposizione ad un certo tipo di musica. Prendila dal lato positivo: ok, a quell’età eravamo degli sfigati che ascoltava musica che nessuno della nostra età ascoltava e capiva, va bene, e questo è triste; ma quanta musica di merda ci siamo risparmiati nei nostri ascolti da piccoli? Tanta, mi sa. Però a questo punto voglio sapere come ci sei finito tu, ad ascoltare ECM a quell’età lì…
Beh, mio padre. Che mi fece conoscere Keith Jarrett e Pat Metheny quando avevo tipo sei anni, poi piano piano ho iniziato ad approfondire per i fatti miei, uno dei primi grandi amori è stato John Abercrombie per dire, in trio con Marc Johnson e Peter Erskine… Aspetta però: sei tu l’intervistato, non io. Ok l’ECM, ok i buoni ascolti, ma da quel che ne so quando eri piccolo non avevi esattamente il sogno di fare il musicista.
Diciamo che non pensavo potesse essere un lavoro, la musica. Ecco. Da teenager avevo due sogni: o fare il pilota d’aereo, o fare il pittore. La musica, boh, mi ci dedicavo più per fare un favore ai miei genitori, che apparentemente ci tenevano… Mi ci dedicavo oer fare un favore a loro, e su costrizione del mio insegnante di pianoforte.
Ah sì?
Era ferocissimo. Ma tipo che mi inseguiva proprio fisicamente: se aveva il sospetto non mi esercitassi durante la settimana, veniva a casa mia apposta a controllare.
Un incubo.
…capisci insomma che per me era molto più affascinante l’idea di fare il pittore: un mestiere più figo, e al tempo stesso molto meno faticoso! Perché nella mia testa io mi vedevo come uno in grado di stampare due, tre schizzi su tela con aria ispirata, “Ecco, questa è arte, arte moderna: godetene”, ed essere immediatamente attorniato da persone che mi davano del genio per questo. Altro che la musica, altro che il pianoforte, dove ero obbligato a passare le ore ad esercitarmi su stupide, inutili scale: fare il pittore sì che era una figata, minima fatica massima resa!
Poi qualcosa è andato storto.
Eh. Anche con la cosa del pilota. La Lufthansa ne ha perso uno potenzialmente ottimo (risate, NdI).
Quando hai capito che la musica sarebbe diventata invece una cosa seria, la tua futura vita?
L’epifania è stata quando il mio miglior amico a scuola, avevamo tredici anni, si era comprato una batteria. Aveva pure una cantina dove provare in santa pace, quindi insomma, inevitabile pensassimo che era il momento di creare una band. Solo che io suonavo il pianoforte: potevo anche spostarlo in quella cantina lì da lui, ma hai idea di quanto un pianoforte soccomba come impatto sonoro rispetto ad un batteria?
Decisamente.
E allora ne ho parlato con mio padre. Mio padre devi sapere che non era per nulla contento del mio desiderio di fare il pilota d’aereo, e allora mi ha proposto questo: “Senti, se rinunci a fare il pilota, io ti compro una tastiera, così puoi fare le prove col tuo amico”. Ho accettato. Già a tredici anni, la mia prima decisione fondamentale in campo professionale. Ma tu pensa (ride, NdI).
Tu sei di Amburgo, ma vivi a Berlino ormai da tempo: quale la differenza tra le due città?
Dai, è un confronto che non si può fare! Amburgo è una città bella e funzionale, dove la gente è contenta di vivere; Berlino, invece, è… Berlino, una città dove tutto è sbagliato. Se vivessi qua, lo capiresti. Non puoi paragonare delle città scintillanti ed organizzate come Amburgo, Monaco o Colonia con Berlino, credimi.
Però di Berlino parlano tutti, tutti la desiderano…
Perché la gente vuole sempre avere quello che non ha! Ma quando a Berlino ci vivi, hai un improvviso, terribile desiderio di avere quello che ti potrebbe dare una Amburgo…
Ma tu a Berlino ci stai bene.
La cosa meravigliosa di questa città è che puoi uscire in pigiama, magari con la faccia impiastricciata di vernice perché te la tiri da artista, da pittore, e nessuno ti dice niente, nessuno ti guarda.
E tu ne approfitti?
Non troppo, dai… (ride, NdI)
Ah ecco, perché ti immagino comunque una persona molto in controllo.
Karl Lagerfeld, sfortunatamente il più famoso stilista tedesco, una cosa buona almeno l’aveva detta: “Se esci in strada in pigiama, vuol dire che hai perso il controllo della tua vita”. Ha ragione. E io infatti sono felicissimo di perdere ogni tanto il controllo della mia vita!
Perdi ogni tanto il controllo della tua musica?
Io cerco sempre di non essere mai perfettamente in controllo della mia musica. Sempre. Sai perché? Se alla fine essa viene fuori esattamente come me l’ero pensata ed immaginata, un po’ mi delude. Il vero fascino del lavorare con la musica è proprio questo: riuscire a sorprendersi di se stessi. A me piace perdere il controllo, in musica: perché è in quei casi e solo in quei casi che puoi respirare finalmente una sensazione pura ed assoluta di libertà, visto che sì, stai perdendo il controllo, ma lo stai facendo in un ambiente per te sicuro al cento per cento come la musica. Io poi fin da ragazzino sono stato affascinato dagli sport estremi, la scalata libera in montagna, o le camminate sulla fune, e sono attività strane: da un lato presuppongono un controllo feroce del tuo corpo e della tua attenzione, dall’altro questo controllo è così intenso da “liberarti”, diventa una dimensione parallela in cui fai quello che non pensavi saresti capace di fare e di ottenere.
Ma sei mai stato sorpreso o addirittura preoccupato dall’intensità dell’amore che circonda la tua musica e te come musicista?
Sorpreso sì, preoccupato proprio no, mai. Sai perché? Perché quello che faccio, lo faccio ormai da molto tempo. E la crescita della mia popolarità è stata organica, lenta ma costante, non è che da un giorno all’altro la mia vita sia cambiata. Questo significa anche che non solo io ma tutto ciò che mi circonda – i miei collaboratori, i miei amici, i miei famigliari – hanno avuto il tempo di “abituarsi” ad un certo tipo di dinamiche, hanno avuto tutto il tempo di imparare a relazionarsi con determinati stati, determinate situazioni, determinate responsabilità. Tutto questo l’hanno e l’ho imparato anche facendo degli errori: ma con appunto il tempo di farli, di imparare, di rimediare. E’ una gran fortuna. Ed è da questa fortuna che deriva il mio non essere preoccupato.
Il tempo per questa nostra chiacchierata è finito e, guarda un po’, siamo riusciti a non parlare di “nuova classica”…
(ride, NdI) I giornalisti musicali, e in generale gli appassionati più forti di musica, mettono su un bel po’ di perplessità quando alcuni generi diventano popolari in maniera così sospetta: sospetta perché apparentemente erano generi senza presente e senza futuro, perché se ci pensi un certo tipo di musica a questo pareva destinata e stop, mentre ora invece di presente e di futuro ne hanno perfino troppo. Perché sì, vero, attorno a un certo di sonorità c’è un mercato incredibile. Probabilmente eccessivo. Ma di chi è la colpa? E’ un complotto di qualcuno? Boh, non credo. Non credo che qualcuno abbia inondato Spotify di milioni di euro per far trionfare proprio un certo tipo di sonorità, imponendolo nelle playlist… Io ho una teoria un po’ bizzarra, per spiegare il successo della musica strumentale.
Sono tutt’orecchi.
Tutti questi cantati con l’autotune, ecco.
Cioè?
Cantare è diventato così facile grazie all’autotune e la gente l’ha così capito che boh, molti proprio per questo motivo, per ritrovare un po’ di “magia”, si sono rivolti alla musica puramente strumentale. Per reazione.
Ah caspita, interessante.
Magari è una cazzata, eh.
Di sicuro però l’esplosione del fenomeno della “nuova classica”, di un certo tipo di musica elegante, rarefatta, fatta per lo più col pianoforte, ha in te un caposcuola.
Recentemente un mio buon amico è stato intervistato da NPR e, parlando di me, ha detto: “Sì, può essere che Nils abbia ispirato un sacco di persone, ma non è colpa sua se le ha ispirato a fare musica stucchevole, dozzinale. Lo puoi criticare Nils solo se si mette a fare musica stucchevole e dozzinale pure lui, allora lì sì”.
Ci sta.
Ma sai cosa? Io resto convinto che se tu fai qualcosa, e questo qualcosa ha delle conseguenze che non sempre ti piacciono troppo, un po’ di responsabilità comunque ne hai, non puoi fuggirne. Quindi sì. Colpa mia. Prendetevela (anche) con me.