Siamo stati alla Boiler Room, quella di Parigi di circa un mesetto fa, e ci siamo divertiti.
Molto anche. In qualche video ci si può pure vedere in prima fila, nostro malgrado, mentre balliamo e agitiamo le mani, poi però siamo tornati a casa e ci siamo messi a ripensare a tutto quello che abbiamo visto accadere dal vivo.
Spiegare il successo della Boiler Room è un po’ come spiegare la posizione di classifica occupata dall’Hellas Verona nel campionato di Seria A in corso: certe cose succedono perché devono succedere. Tempo fa, mettere dei dj per ore a suonare davanti una videocamera poteva apparire come l’idea più banale e al tempo stesso meno fruttuosa di sempre. Chi è che ha voglia di spendere tutto quel tempo davanti a YouTube, a guardare gente che gira le manopole mentre altri tizi dietro fanno dondolare il capo mentre bevono analcolici? Tanti, tantissimi. Milioni.
E in quei milioni ci siamo anche noi. Noi che mai avremmo immaginato di trascorrere serate ad ascoltare, male, la musica che più ci piace, osservando venti tizi che raramente danno l’idea di essere davvero coinvolti da quello che gli accade intorno. La Boiler Room trasportata nel mondo reale fa un effetto strano: sembra una serata, ma somiglia di più a un’allucinazione.
È il clubbing di Facebook.
Il concetto dietro la Boiler Room è quello del banale che diventa geniale, un puro spettacolo per geek e nerd della club culture che improvvisamente riesce a fare tutto il giro e a diventare quasi un simbolo pop dei nostri giorni. Una volta uscivamo per andare a ballare, adesso stiamo in casa e ascoltiamo i set con Shazam sempre pronto all’uso, mentre laviamo i piatti. Eppure, il sogno bagnato di ogni dj da cameretta visto da molto vicino acquisisce contorni e sfumature diverse: Boiler Room è essenzialmente un brand. Un contenitore spesso più potente del contenuto stesso. Un vero show televisivo – il Soul Train della generazione del refresh compulsivo – che segue proprio i crismi e i cliché dei tv show. La finzione domina su tutto: le ragazze carine vengono invitate a farsi vedere di più mentre ballano, la gente sgomita per finire nell’inquadrature, se ti accorgi di essere ripreso devi ammiccare, e così via. Non c’è realtà nella Boiler Room tutto è messa in scena, può andare in onda da Londra, Berlino, Amsterdam o New York, ma tanto è sempre uguale. Un luogo immaginario dai confini tanto sfumati quanto definiti.
Per carità, non prendeteci per moralisti, l’abbiamo detto subito: guardare la Boiler Room da casa resta un’esperienza interessante, partecipare a una puntata – chiamiamola col suo nome – può anche risultare molto divertente, anche se in certi momenti può sfociare nel disagio.
Un po’ come ritrovarsi nella parte finale di una puntata di Non è la Rai, circondato da gente che per due secondi di faretti addosso venderebbe anche la sorella, ma con in sottofondo musica dannatamente migliore. Almeno quella.
Emiliano Colasanti
Emiliano Colasanti scrive di musica da quando ancora non aveva Internet e doveva consegnare gli articoli su floppy disk, a mano. Collabora abitualmente con Rolling Stone.e cura il blog Stereogram per il sito di GQ.it. Ha fondato e gestisce (con Giacomo Fiorenza) l'etichetta discografica indipendente 42 Records, nel 2012 ha pubblicato per Arcana il libro: "Un mondo del tutto differente. La storia di "Wow" e dei Verdena". Dorme poco, mangia male, pensa spesso con nostalgia ai tempi in cui faceva programmi alla radio.
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