Non è stata una edizione come le altre, per il Sónar, questa del 2022. I due anni di pausa pandemica, oltre a fiaccare la possibilità nostra personale di uscire e di “respirare” musica dal vivo, ha anche minato un po’ di certezze. Perché pure eventi grandi, grandissimi, più forti di ogni moda e di ogni difficoltà negli anni si sono ritrovate, all’improvviso, a dover stare ferme, a guadagnare zero o giù di lì per due anni e passa, a fermare tutto, a “morire” – seppure temporaneamente. E poi, quando ti risvegli dal coma indotto, in che stato sei? E come sono le cose attorno a te? Se a questo poi si aggiungono alcuni dubbi che comunque si sono palesati anche quando è ripartita la macchina, sono tornati gli annunci, è stata annunciata la line up, ecco che davvero stavolta era “…un’altra cosa”.
Ci siamo messi allora in tre, a scrivere ciascuno dei report separati. La cosa divertente – e rinfrancante – è che su moltissime cose eravamo e siamo perfettamente d’accordo. Quelle fondamentali. Dopodiché, ognuno di noi ha voluto aggiungere il suo colore, la sua visione, la sua scelta d’attezione: ne emerge un quadro complessivo vasto e sfaccettato. Non esaustivo, perché il Sónar – come praticamente tutti i giga-festival odierni – è ormai troppo grande per essere racconto e visto tutto-tutto, anche se si è in dieci, figuriamoci in tre; ma speriamo in questa maniera di avervi fatto davvero sentire l’aria che si è respirata il 16, 17, 18 giugno 2022 a Barcellona. Dopo due edizioni di lungo, lunghissimo, insostenibile, spaventoso silenzio forzato.
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Insomma, alcune cose sono cambiate, alcune no, ma finalmente, dopo due edizioni saltate, siamo tornati al Sónar.
E com’è andata?
…non vi nascondiamo che c’era un po’ di preoccupazione: il Sónar +D è stato ampiamente ridimensionato, con il mercoledì, il giorno dedicato solo alla tecnologia, cancellato, e fino a pochi giorni prima dell’inizio, continuavano ad arrivare mail “Ehi, ci sono ancora biglietti disponibili! Affrettati!”, che di solito non sono un buon segno. In ogni caso, era legittimo avere dei dubbi, dopo due anni in cui il mondo è cambiato in molti modi: sarà ancora come ce lo ricordavamo? Sarà ancora possibile un Sónar “come una volta”? Più di tutto, saremo ancora capaci noi, di goderci il Sónar come una volta?
Vi anticipiamo subito la risposta, che è un deciso e accoratissimo “Sì”, ma con alcune riserve che vi racconteremo: ma quello che conta è che sì, il Sónar è stato il Sónar.
Ha avuto, infatti, il solito valore aggiunto del Sónar, quello che si comprende davvero solo andandoci e quello che, più di tutto, è il motivo per cui in tanti, noi compresi, ci torniamo ogni anno: non i nomi grossi della line up, che pure c’erano e non hanno deluso, ma gli altri, quelli che suonano in un palco secondario alle due di pomeriggio e che non hai mai sentito nominare prima, ma che in realtà meritano tanto quanto i nomi grossi, se non anche di più.
Per farvi degli esempi, in una decina abbondante di Sónar abbiamo visto diversi nomi (all’epoca) semisconosciuti o quasi, che poi hanno fatto il botto: da Nicolas Jaar a John Talabot, da Rosalia ad Arca: quest’anno, inoltre, forse per esigenze di budget, i talenti “minori” erano suddivisibili in due categorie ben precise. Da una parte i talenti locali, artisti spagnoli che magari al di fuori dei Pirenei non hanno grossissima risonanza ma che se la meriterebbero, anche perché tutti quelli che abbiamo sentito propongono musica assolutamente globale e appetibile per un pubblico più ampio di quello spagnolo, dall’altra i talenti di paesi, diciamo, non banali: il Sónar ha sempre avuto un’attitudine piuttosto “mondialista” e un’attenzione ad affiancare ai soliti inglesi-tedeschi-americani anche artisti di altre provenienze, ma quest’anno la tendenza era decisamente accentuata.
Dovessimo scegliere un giorno solo – scelta ardua! – a rappresentare più di tutti queste due anime della lineup del Sónar, sceglieremmo il giovedì, che è, in effetti, un po’ sempre stato il giorno “più Sónar” degli altri, quello in cui il pubblico è forse minore numericamente ma più attento, e in cui la lineup nasconde più spesso delle chicche.
Il palco principale, il SonarVillage, quest’anno aveva tra l’altro una lineup interamente femminile, di cui l’headliner era indubbiamente Jayda G, che ha fatto il solito set da Jayda G a fine giornata, ma la parte interessante era tutto ciò che è venuto prima: AWWZ, Manara, UNIIQU3 e Lady Shaka hanno presentato quattro interpretazioni diverse della stessa idea, “Siamo in astinenza da due anni, facciamo festa e poi penseremo alle cose più intellettuali”, mettendo sul tavolo anche uno dei temi portanti del suono di quest’anno.
Ognuna di loro, infatti, ha infilato da qualche parte nel proprio set una, o più citazioni degli anni ‘90, da JLO ai Backstreet Boys, dagli Inner City a “Show Me Love”, cosa che poi è successa anche nei giorni successivi e che ci ha stimolato due riflessioni diverse: la prima è che anche se a noi che con queste cose ci siamo cresciuti e poi le abbiamo superate potrebbero sembrare delle scelte un po’ “cheap”, è assolutamente normale che un musicista citi la musica con cui è cresciuto – ci sono artisti leggendari che ci hanno costruito una carriera intera su questa idea, prima di diventare due robot e poi irrilevanti – la seconda è che ci sono alcuni modi di far saltare una pista che funzionano bene ai quattro angoli del globo, come ad esempio i Masters At Work.
Insomma, il giovedì, ma anche il venerdì e il sabato pomeriggio sono passati come tanti altri Sónar, apprezzando nomi in cui riponevamo molta fiducia (Jamz Supernova, scoperta proprio a un Sónar e confermata bravissima, sia venerdì che sulle radio della BBC, o Conducta che si è preso il consueto slot UKG del SonarLab, o quell’assoluto cazzone di Tomm¥ €a$h), mettendone alla prova alcuni altri che hanno deluso le aspettative (LSDXOXO, che poteva scegliere se essere Green Velvet o Achille Lauro e ha scelto la seconda) e, soprattutto, scoprendone di nuovi e ricevendo sorprese: dal delirio frenetico di Partiboi69 ai due di Dembooty, Umami e CRKS90, che alle due di sabato pomeriggio hanno regalato uno dei set migliori del weekend, passando per la scoperta sorprendente che c’è ancora qualcosa di divertente nella techno, nel 2022, e si chiama Herrensauna.
Poi, passato il sabato pomeriggio, è arrivato il momento della svolta.
Ve lo diciamo nel modo più diretto possibile: non fate mai, mai, MAI l’errore di sottovalutare i Chemical Brothers.
“Sono in lineup solo perché erano lì nel 2020 ed era troppo faticoso annullarli”
“Li ho già sentiti una decina di volte, cosa faranno mai di diverso”
“A me comunque l’ultimo album non è piaciuto”
Quante cazzate: la verità è che non esiste, in questo momento, al mondo, un act in grado di mettere d’accordo tutti come loro, e di farlo per un tempo così lungo.
Chi scrive li ha visti per la prima volta vent’anni fa, nel 2002, per il tour di “Come With Us”, a un Heineken Jammin’ Festival in cui suonavano dopo i Red Hot Chili Peppers, i Muse e gli Afterhours, e già allora avevano preso un pubblico non proprio avvezzo alla musica elettronica e l’avevano letteralmente lanciato per aria: da quella volta li abbiamo visti, appunto, una decina di volte, e ognuna è sempre stata la stessa storia.
Il clubber di mezz’età un po’ snob e un po’ blasè, che pensa di averle viste tutte, quello più giovane che a stento sa chi siano questi due anziani signori ed è venuto per i nomoni della techno, quello che non sa davvero cosa ci faccia qui però gli hanno detto che c’è festa, quelli che sono qui per i Moderat, o Bonobo, o Arca, o Hawtin: sabato alle dieci e mezza sono praticamente tutti al SonarClub, e un’ora dopo sono tutti pesantemente disidratati, tra sudore e lacrime, e completamente senza voce.
Parlando con altri, dopo, è stato impossibile trovare qualcuno che dicesse anche solo “Sì ok, però…”, perché il live di Ed e Tom è stato, per l’ennesima volta, sorprendente: nell’accennare soltanto alcuni dei pezzi che non possono non fare, come “Believe”, o “Out Of Control”, nell’autocitarsi con i due robottoni sul palco, ma soprattutto, nel mettere d’accordo tutte le decine di migliaia di persone che affollavano il palco più grande di tutto il Sónar.
E anche vedere quella distesa di persone così grande tutta insieme a saltare, abbracciarsi, salirsi in spalla per vedere meglio i visual pazzissimi e cantare “Wide Open”, o “Swoon”, e urlare “Superstar DJs, here we go!” insieme, dopo due anni e passa in cui sembrava che non sarebbe successo più, ci ha commossi.
Ci piacerebbe raccontarvi di quello che abbiamo visto dopo i Chemical Brothers, come ad esempio Batu e la sua techno percussiva niente male, ma la verità è che dopo un live del genere qualunque cosa avrebbe fatto brutta figura, e in fondo è stato giusto tornare a casa con ancora negli occhi il ricordo di quel live, perfetta ciliegina sulla torta di un Sónar che è stato diverso dagli altri in mille modi ma che in almeno altrettanti è stato il Sónar di cui ci siamo innamorati, che ci era mancato enormemente negli ultimi due anni e a cui torneremo sicuramente anche l’anno prossimo.
(Mattia Tommasone)
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Erano credo le otto di sera. La calura assassina delle ore centrali della giornata cominciava a dare margine di manovra a una brezza tiepida ma goduriosa. Polo & Pan dirigevano, con grande sicurezza, le operazioni davanti a un Sónar Village pieno oltre ogni più rosea aspettativa eppure senza mai dare alcuna sensazione di scomodità. La condensa della birra che colava maliziosamente sulla mano era la cosa più vicina all’amore fisico che si potesse desiderare in un infuocato pomeriggio catalano. In mezzo al coefficiente umano – eterogeneo e splendido come sempre – c’erano anche tanti amici. Alcuni dei quali, per un motivo o per l’altro, magari abitano a venti minuti di distanza tutto l’anno ma alla fine te li godi davvero solo in questi pellegrinaggi musicali: chiacchiere infinite, prese in giro, appunti musicali oggettivamente da psicopatici con la mano sul mento quali purtroppo siamo.
Era essenzialmente tutto nella norma, insomma. E allo stesso tempo era la cosa più bella che potessimo chiedere al nostro amato Sónar dopo tre anni di assenza forzata. Un po’ come entrare in casa dei propri genitori e sentire l’inconfondibile profumo della lasagna di mamma di ritorno da un lungo viaggio. Quel piacere inaspettato nel ritrovare le proprie certezze ad attenderci dopo esserci resi conto – nella maniera più crudele possibile – di quanto a lungo le avessimo date per scontate.
Eppure i rumours della vigilia sembravano suggerire un volume di presenza sottotono, complice la “doppia” del Primavera e una line up forse un po’ avara sia di quei nomi acchiappatutto, che coinvolgono in primis quella fetta di pubblico generalista che “Vengo per il pop, poi giá che ci sono faccio un giro” quanto anche di headliner underground di spessore. Senza menzionare la mancanza, dopo innumerevoli edizioni, di Monsieur Garnier a chiudere la pratica la domenica mattina. Invece quanta gente, ragazzi. Soprattutto di notte, dove abbiamo visto il maestoso Sónar Club – la sala per eccellenza della parte serale – letteralmente murato in diverse occasioni. Probabilmente avevamo sottovalutato quanta voglia di festa fosse rimasta ad ardere sotto la cenere in questi lunghi anni di proibizionismo forzato. E anche quante persone avessero voluto dare fiducia a chi, per oltre due decadi, aveva regalato loro un’esperienza tanto prevedibile nei suoi punti di riferimento umani e logistici – purtroppo anche quelli meno buoni, ma ne parliamo fra un secondo – quanto elettrizzante sotto il profilo artistico. Tanto che, sulla navetta che domenica mattina ci riportava a Plaça d’Espanya dopo il giro finale sulla giostra, abbiamo battezzato l’ultima solenne tradizione dei nostri weekend del Sónar: la pre-registrazione per i biglietti dell’anno successivo. A mio parere il più grande complimento che si possa fare a un evento di qualsiasi genere. Stessa spiaggia, stesso mare. E ci mancherebbe altro.
Molto bella anche l’idea di distribuire dei QR code all’uscita del festival con un sondaggio per conoscere l’opinione dei clienti. Non ho idea se fosse qualcosa di ufficiale, probabilmente no, ma l’ho trovato un esercizio un po’ paraculo, in tutta sincerità: c’erano dentro tante domande giuste per evitare quelle scomode. E quindi, avendo la fortunata occasione di giudicare pubblicamente quello che è il mio ottavo Sónar negli ultimi tredici anni – ad onor del vero c’è chi, nello squadrone di Soundwall, arriva oltre i dieci o a quasi venti di fila a seconda del caso – ci tengo a spronare una volta per tutte l’organizzazione a migliorare quei pochi difetti strutturali che sembrano ripetersi, inesorabilmente, anno dopo anno.
Apprezzatissimi i bicchieri ri-utilizzabili, peró l’acqua da 33cl a tre Euro con quel caldo è un peccato mortale di cui non mi faró mai una ragione. Considerato che l’alternativa era bere quella dei bagni, che dava la stessa sensazione di quando mandi giù per sbaglio quella della piscina: sia per la temperatura che per il gusto. Facendo invece un discorso più generale: se per il Sónar de Dia l’esperienza di bere e mangiare – sia da clienti regolari che da addetti ai lavori, precisazione quanto mai necessaria – si è mantenuta (grosso modo) equamente rilassante, al Sónar de Noche entrambe le operazioni si sono tramutate, per l’ennesima volta, in un mezzo incubo per i VIP e in un autentico inferno per gli ospiti con biglietto regolare: bar pesantemente sottostaffati, con birre lasciate a diventare calde dagli “spillatori” sul bancone per mancanza di gente che le distribuisse. Code di oltre mezz’ora per prendere una Coca Cola o qualcosa da mettere sotto i denti praticamente a ogni ora in un festival con questa esperienza sono inaccettabili. Dopo il LIVE dei Chemical Brothers – equivalente, in termini di dispendio di sali minerali, a una Spartan Race corsa sulle mani – abbiamo dovuto praticamente sequestrare uno dei ragazzi che giravano coi barilotti portatili di birra perchè alcune ragazze si stavano sentendo male per il caldo e non c’era assolutamente modo di prendere da bere ai bar della pista, ovviamente presi d’assalto da tutti i reduci della suddetta sauna. Sul caldo torrido del Sónar Club non so cosa si possa effettivamente fare a livello logistico visti i volumi enormi di capienza, ma se io che sono alto due metri e riuscivo a “respirare” sopra alla calca stavo soffocando, non oso immaginare le tante persone parecchio più basse che avevo attorno cosa dovessero provare.
Ogni anno ci lamentiamo sempre di queste due/tre pecche che (credo, crediamo) sarebbe davvero semplice sistemare. E puntualmente, ogni anno, ce le ritroviamo ancora in mezzo ai piedi e ci chiediamo semplicemente come sia possibile che nessuno le abbia notate o segnalate. O peggio ancora, se non siano state semplicemente ignorate da chi avrebbe il potere di cambiare le cose. Badate bene: se rapportate al computo totale dell’esperienza offerta, stiamo comunque parlando di minuzie eh. E forse proprio per questo da così fastidio trovarsele davanti ogni santa volta: basterebbe davvero pochissimo per rendere un festival già stratosferico ancora migliore. E allora se questo feedback potrà essere d’aiuto a chi, come noi, si presenterà ai cancelli della Fira di Barcellona il prossimo Giugno e quelli a venire, ancor più volentieri ci sentiamo in diritto di esprimerlo. Perchè in famiglia è importante essere sinceri, anche quando c’è il rischio concreto di fare incazzare la controparte. E Sónar per me, anzi mi permetto di dire per noi di Soundwall, è tra le cose più vicine a casa che si possano immaginare.
(Federico Raconi)
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C’hanno pensato i miei due ottimi colleghi Raibaz e Dask (aka Tommasone e Raconi) ad andare più nel dettaglio, a fare un racconto ad ampio raggio sul festival, sui nomi-rivelazione, sulle sensazioni, anche sulla logistica. Arrivando dopo di loro nella scrittura, e “barando” insomma perché comunque prima di scrivere io ho potuto vedere quello che hanno scritto loro, posso andare a “riempire gli spazi”, che poi detto così sembra quasi una seduta di tattica.
Ed in effetti non è sbagliato parlare di tattica, quando c’è il Sónar di mezzo. Perché contrariamente ad altri, contrariamente a quasi tutti gli altri, che pensano essenzialmente a prendere le cose-che-funzionano per far andare bene i propri festival (…ecco, diciamolo: la line up del Sónar Off che tanto piace a molti di voi continua ad essere da anni una noia mortale, con sorprese e novità quasi praticamente assenti: si va sempre e solo sul sicuro), il festival catalano è sempre stato uno di quelli che riesce a “dettare la linea”, anticipandola.
Col Sónar e grazie al Sónar abbiamo visto negli anni l’ascesa dell’electroclash e il ritorno ad una tech-house più morbida ed innvervisionsiana dopo le asperità minimal, abbiamo visto la saldatura allora inaspettata tra dubstep e techno, abbiamo colto il ritorno degli anni ’90 sotto forma di citazione, abbiamo visto la decadenza di Londra l’ascesa di Berlino e poi di nuovo una primavera londinese con nomi completamente nuovi, abbiamo notato che la musica da club iniziava ad essere sempre meno un affare solo occidentale, abbiamo visto la contaminazione col pop più arty, abbiamo visto che le barriere di genere (in tutti i sensi) erano sempre più anacronistiche: tutte cose avvenute davvero, ma che al Sónar sono avvenute prima che altrove.
Su questo, è un evento imbattibile. E fondamentale.
Parlando sinceramente: siamo un po’ perplessi che una delle cifre di quest’anno, soprattutto nella parte diurna, sia stato un discreto numero di act dove l’artista fa poco o nulla sul palco. Ora, lo sappiamo: tutta la musica elettronica è un po’ così, in un live set difficilmente puoi capire ormai se chi suona legge le mail o sta facendo davvero qualcosa, e pure il mondo del deejaying con la digitalizzazione ha molto appiattito la componente performativa, in favore (quando va bene…) di quella di cura del suono e della tecnica. Ok. Non siamo ingenui. Ma se la contaminazione col mondo del live sotto forma di incrocio tra hip hop / trap ed IDM / industrial e di artisti che sono molto più personaggi di un tempo (estetizzanti, fluidi, stilosi, dove l’immagine e l’attitudine parla tanto quanto la musica) deve passare attraverso dei live set dove l’artista se rappa lo fa sopra una base pre-registrata, dove se suona è più occupato non a suonare ma a far vedere vestiti con arazzi e svolazzi, sinceramente non ci convince.
Lo pensavamo la prima volta che vedemmo Grimes dal vivo: una specie di cabaret, dove nessuno suonava nulla e la stessa Grimes era tutta in playback – non contava più la musica, ma il mondo in cui l’intero progetto era confezionato. Ecco: questa cosa sta prendendo piede (già sei anni fa peraltro l’ottimo Mattia ne parlava a modo e con equilibrio), ed è successo più volte nell’arco del Dia: LSDXOXO, Sega Bodega, Eartheater i primi nomi che ci vengono in mente fra quelli che abbiamo visto, ma l’elenco andrebbe avanti un po’. E’ una tendena chiara: conta molto di più l’aura (o, se volete, la confezione) della sostanza e della effettiva qualità dell’esecuzione.
Sinceramente? Non ci esalta, questa deriva. E infatti ci siamo quasi commossi quando è stato il turno di Uncrompressed, il progetto collaborativo di tre nerdissimi fanatici del synth vintage come Hainbach, Look Mom No Computer e Cuckoo, uniti dalla piattaforma Patreon (bella intuizione, la sua, e bello anche l’aver voluto sponsorizare nel Sónar la parte dei talk) in un live dove non solo si suona per davvero, ma alla fine i tre addirittura spiegano per filo e per segno chi ha fatto cosa, e come. Si è respirata un’aria “antica”, da boomer se volete, in cui il Sónar era la Repubblica dei Simpatici Nerd di Talento, e non una parata di esangui artisti/performer che dal vivo vendono la propria sofferta e stilosissima esanguitudine più ancora che la loro musica e la capacità di saperla fare.
Non siamo contrari per principio alla propensione al cabaret, alla dimensione “arty”. Quando è fatta con tagliente ironia e non con estenuato autocompiacimento, ci piace da morire. Il citazionismo caciarone e tossico di Partiboi69 è stato per dire uno degli highlight assoluti del festival, per quanto ci riguarda (non perdetevelo, se lo incrociate quest’estate!), quindi davvero il nostro ideale non è per nulla il noioso dj/performer/musicista che fa-le-cose-per-bene; e pure il già citato live dei Chemical – una bomba assoluta – lascia sempre con la domanda quanto i due Fratelli facciano sul palco, anche se l’impressione è che a ‘sto giro facciano di più e si divertano di più degli anni passati (sottopongono tra l’altro i pezzi storici ad un lifting e ad una decostruzione mica male). Ma se l’elettronica live deve diventare un teatro, dove il contorno (il personaggio, i riferimenti…) deve prevalere sull’essenza (la musica e la capacità di farla), noi saremo sempre molto, molto, molto perplessi.
(Damir Ivic)