Vabbé, parliamoci chiaro: quelle immagini le avrete viste tutti, quelle della rissa al Guendalina lo scorso 28 luglio 2019, con lanci di oggetti e quant’altro. Avrete visto quelle, e avranno oscurato tutto il resto: avranno oscurato lo spessore imprenditoriale di un’impresa, legata al clubbing, capace di portare nel cuore del Salento i nomi più grossi in campo techno e house a livello proprio mondiale (oltre che di dare lavoro a molte persone), e di farlo da tantissimi anni, con solida continuità; e avranno oscurato pure quanto smisurata sia stata la reazione, con la chiusura non solo del Guendalina in sé ma anche con l’annullamento del Pyrex Arena Festival. D’altro canto siamo tutti appesi non come le foglie d’autunno sugli alberi – quello è poesia, quello è Ungaretti – ma all’articolo 100 di un codice varato ancora in epoca fascista, il TULPS, che può permettere la chiusura di alcuni locali per generici (e discrezionali) motivi di ordine pubblico, ovvero “può sospendere la licenza di un esercizio nel quale siano avvenuti tumulti o gravi disordini, o che sia abituale ritrovo di persone pregiudicate o pericolose o che, comunque, costituisca un pericolo per l’ordine pubblico, per la moralità pubblica e il buon costume o per la sicurezza dei cittadini”. Già quando entrano in campo le categorie “moralità” e “buon costume”, in Italia – al contrario di altri paesi più evoluti – si punta subito il dito contro il clubbing e le clubbing, come se ci fosse un automatismo dietro. E infatti, così è data. Ma ridurre la storia e lo spessore del Guendalina e del suo direttore artistico, Vincent De Robertis, solo a questo episodio è ridicolo tanto quanto l’applicazione cieca del TULPS. Non solo non vogliamo fare questo errore, ma con Vincent ci siamo fatti una lunghissima chiacchierata che parte sì dai fatti dell’estate scorsa, ma poi va ad affrontare temi molto importanti e strategici, offendo una visione chiara e non scontata (e assolutamente significativa, visto che è messa in campo da una persona che sono vent’anni che “fa” invece di “parlare” e basta). Se anche solo un minimo siete interessati a tutta una serie di meccanismi “dietro le quinte” che sono legati ai dancefloor e all’imprenditoria notturna, e se in genere siete interessati alla club culture nel suo complesso, questa intervista è oro. Buona lettura.
E insomma Vincent, come va?
Beh dai, diciamo tutto bene. Normale che si sia passato due, tre mesi di ansia, di incertezze, di paure: sia dal punto di vista sanitario che dal punto di vista lavorativo, del futuro che ci aspetta. C’è stato un momento, quando le cose parevano davvero solo peggiorare senza nessuna inversione di tendenza, in cui ho pensato che saremmo stati fermi minimo un anno, un anno e mezzo, se non di più. E ci stavo male. Molto. Somatizzando parecchio.
Beh, avevi già la pelle molto dura, dopo tutto quanto successo l’estate scorsa, dopo la chiusura forzata del Guendalina in seguito alla famigerata rissa.
Abbiamo perso più o meno un fatturato di un milione di euro, l’anno scorso. Non solo abbiamo dovuto rinunciare ai potenziali utili delle serate al Guendalina e del festival, ma è andato perso l’intero cachet di uno degli artisti grossi già bookati (per fortuna solo uno), e poi tutta la promozione già fatta, i lavori per mettere in regola la Pyrex Arena, il compenso dell’ingegnere, degli elettricisti. Sono spese grosse. E nulla: tutti soldi buttati al cesso. Guarda, in realtà non voglio nemmeno provare a quantificare il danno reale definitivo, sennò mi torna la depressione.
A molti mesi di distanza, cosa possiamo dire di tutto questo?
Dico subito una cosa: una parte di colpa è mia. Una cosa che ho capito è che bisogna chiudere le serate ad orario ragionevole, se non le 4 massimo le 5, perché poi tirare troppo in lungo ti porta a situazioni davvero difficili da gestire. Passate certe ore, la gente va fuori di testa. Quelli che hanno creato il casino che poi ha fatto scoppiare tutto il caso non erano dei killer sanguinari o chissà cosa, non erano criminali; erano semplicemente dei bulli. Vedi, qui in Puglia abbiamo un problema storico, mutuato dal calcio: l’odio fra leccesi e baresi. Figurati che io il calcio lo odio già di mio, non me n’è mai fregato nulla… Ad ogni modo: per una stupida questione di rivalità calcistica ‘sta gente ha iniziato a “prendersi”, a lanciarsi delle cose, lì è nato il casino. Ma, vogliamo dirlo? Alla fine non c’è stata una persona che sia finita in ospedale. Non c’è stato un ferito, non c’è stata nemmeno nessuna denuncia. L’unica cosa che c’è stata è stata un’eco mediatica incredibile. E quel video, che ha fatto il giro del mondo e milioni di visualizzazioni, è finito anche su schermi in cui era meglio se non ci finiva, è finito in Procura, in Questura. Quindi, anche se non c’era nessun reato specifico e nessun episodio realmente grave si è deciso che si doveva lanciare un preciso segnale all’opinione pubblica. Va bene, ok, ma non si è pensato che lanciando questo segnale si danneggiava un’azienda in modo grave, si lasciavano delle persone a casa senza stipendio; affidandosi all’articolo 100 del TULPS è stata imposta la chiusura del locale e poi l’annullamento del festival. Ora, parliamoci chiaro: io sono il primo a dire che le leggi vanno rispettate e, se sbagli qualcosa, è giusto che paghi. Quella sera ho sbagliato in una cosa: non ho rispettato l’orario di chiusura. Verissimo. Mi meritavo una multa. Dammela. Anche grossa. 5000, 10000 euro, quello che deve essere. Ma non puoi chiudermi il locale solo perché non ho rispettato l’orario di chiusura ufficiale. E’ un eccesso, è spropositato, è una cattiveria gratuita.
Guarda, parlando in generale: ok, anche con la clava dell’articolo 100 del TULPS le discoteche e i club sono nell’occhio del mirino, e arrivano chiusure e sospensioni di licenze spesso senza motivo o comunque sproporzionati negli effetti. Ma se club e discoteche sono diventate un facile capro espiatorio per fare bella figura presso l’opinione pubblica facendo la “faccia feroce”, non è che un po’ di colpa va ascritta anche ai club e alle discoteche stesse? Non è insomma che ci abbiamo messo del nostro, a diventare un capro espiatorio così facile ed immediato?
Io sono andato a fondo, per capire bene cosa è successo quella sera. Ho indagato. E ti posso dire che c’è gente che prima le sue frustrazioni se le sfogava negli stadi, sì, mentre ora negli stadi questi signori non sono più graditi. Ci sono le segnalazioni ora, c’è il DASPO… insomma, da quelle parti hanno capito che è meglio non farsi vedere. Qual è l’altro posto affollato dove poter mostrare la propria, ehm, virilità, il proprio “coraggio”, il proprio bullismo, metterlo in azione? La risposta è facile, la puoi immaginare.
Vero.
Ecco: quella è gente frustrata. Soprattutto: quella è gente emarginata dalla società, non li vuole nessuno da nessuna parte, sono tagliati fuori da tutti e tutto. Quindi: qual è l’unico modo che hanno per farsi notare, per dimostrare che “esistono”? La violenza. Il bullismo. Questo, esattamente questo è l’unico motivo per cui si comportano così. Non c’è un calcolo, dietro; non c’è la voglia di creare un business illegale. Non è criminalità organizzata, insomma. E’ solo gente disperata. E’ gente che, per farsi notare, crede di avere a disposizione solo ed unicamente la violenza, l’aggressività. Sai quel è il problema? E’ che sono tanti. Loro sono tanti, le istituzioni sono poche, e hanno poche risorse. Come fanno a contrastarli? Poi guarda, al sud c’è questa cosa dell’essere “malavitosi” come qualcosa di bello, di aspirazionale, qualcosa a cui “appartenere”. Questo è un problema. Grosso. Da combattere. Ma cosa credi di ottenere chiudendo le discoteche? Pensi che all’improvviso si risolva tutto, e questi qua scompaiano? Ti sbagli, ti sbagli di grosso… Se non vanno più nei club, perché li chiudi tutti, troveranno allora altri posti dove andare e “farsi vedere”: le spiagge, le piazze, le sagre, ovunque ci sia un po’ di assembramento. Il quadro è chiaro, insomma: non è un problema delle discoteche e dei club. E’ un problema sociale. I giovani, devo dire specialmente le nuove generazioni, sono violenti. Ma di una violenza strana, quasi senza spiegazioni, difficile da capire. Non so quale ne sia il motivo; chissà, forse la violenza che passa in televisione, che ci inconsciamente in questi decenni ha fatto da condizionamento, forse è questo, forse è altro, non lo so; quello che però è sicuro è che i ragazzini oggi hanno la rabbia addosso. Una rabbia che spesso non avrebbe proprio ragione di essere. Perché non sono criminali. Non sono vissuti in un contesto criminale. Non sono figli di boss. Sono figli di gente che ha un lavoro normalissimo. Eppure, usano l’alfabeto della violenza, dell’aggressività. Noi gestori di club e discoteche di tutto questo siamo vittime. Perché questa gente arriva, e noi come possiamo difenderci? Cosa possiamo fare? La security, secondo te, cosa può fare?
I giovani, devo dire specialmente le nuove generazioni, sono violenti. Ma di una violenza strana, quasi senza spiegazioni, difficile da capire
A norma di legge, quasi nulla.
Può intervenire; può provare ad allontanare le persone; ma per la legge non può impedire a qualcuno di accedere ad un luogo pubblico. Quella è prerogativa solo delle forze dell’ordine. La security, se guardi alla legge, ha praticamente il ruolo di uno steward: gestire l’afflusso delle persone, stop. Se si crea un casino non può fare quasi nulla; se è vittima di violenza e di aggressività, non può reagire in alcun modo. E questo ci sta. Ma significa che il problema è sociale, e non può essere girato alle discoteche e ai club. Perché non hanno i mezzi, e nemmeno il ruolo, per gestirlo.
Ok. Ma c’è almeno qualcosa che un direttore artistico può fare, per minimizzare i danni e i guai? Intendo a livello di scelte in cartellone, ad esempio.
E’ brutto dirlo, ma purtroppo ci sono alcuni artisti che sono delle vere calamite per i personaggi di cui abbiamo parlato finora. Questa “gente da stadio” ama alcuni specifici dj… non farmi fare i nomi.
Non ti preoccupare, non serve, non è questione di puntare il dito contro qualcuno (…che è pure incolpevole, tra l’altro).
Alcuni dj sono proprio gli idoli di questo tipo di pubblico. Altri tipi di pubblici, più adulti, o dove ci sono più ragazze, preferiscono altri nomi. Quindi sì, con la programmazione noi possiamo un minimo provare ad influire su certe dinamiche. Bisogna lavorarci su.
Tu in tutti questi anni hai sempre lavorato parecchio sui nomi più forti della scena techno e house.
Ah, li ho fatti praticamente tutti.
E come ti poni di fronte all’esplosione dei cachet di questi ultimi anni? Ammesso e non concesso che ci sia stata, naturalmente, e qui voglio sapere la tua opinione. Però mi pare davvero che ci siano artisti il cui prezzo è quadruplicato nell’arco di pochi anni quando invece, nello stesso lasso temporale, non è che si sia quadruplicato il loro pubblico…
Allora. I cachet, per alcuni, sono alti. Per altri, sono invece onesti. Ci sono alcuni dj che sì, la loro fee è cresciuta vertiginosamente, ma se è successo è stato per la semplice legge della domanda e dell’offerta. Se oggi Peggy Gou costa 50.000 euro e tre anni fa la pagavo meno di un decimo, è perché la richiesta per lei è enorme: il 99% del pubblico i nomi che ti chiede oggi sono Peggy, Amelie e Charlotte – insomma il filone delle donne, improvvisamente popolarissimo – e qualche altro, tipo i Martinez Brothers. Ma ti faccio un altro esempio: Ilario Alicante. Ilario ha fatto la prima data da me quando aveva ancora 18 anni, prendendo 500 euro. Oggi costa tra i 15.000 e i 20.000 euro ma è giusto così, perché il suo profilo rispetto a dieci anni fa è cresciuto in maniera totale. Lui, ha un valore reale. Se lo chiami, la gente viene. Se lo chiami, hai la pressoché totale certezza che i biglietti si vendono e il locale si riempie. Quindi il suo prezzo è assolutamente giusto. Ma si può dire questo di tutti? No. Assolutamente no. Ce ne sono alcuni, di dj, che io veramente mi chiedo chi gli fa fare di voler essere un dj, visto che davvero ne hanno a malapena la capacità e spesso manco la voglia, eppure improvvisamente il loro prezzo è diventato altissimo. Gente che in un mercato “normale” dovrebbe valere 500 euro o poco più, arriva a chiedere fino a 10.000 euro; e non si capisce sulla base di cosa. Il problema sono loro. Non quelli dai cachet altissimi. Ci sono nomi che ti chiedono 30.000, 50.000 euro, ma li valgono; c’è un Kalkbrenner a cui ho dato 100.000 euro qualche anno fa, ma sono soldi giustissimi perché io i biglietti li ho venduti senza il minimo problema, senza dovermi nemmeno sforzare. Questa fa capire una cosa molto importante, quando si parla e straparla di “dj che costano troppo”.
Cioè?
Quasi sempre sono molto più corretti e ragionevoli i prezzi dei dj più popolari e costosi, quelli nel range dai 30.000 euro in su fino a 100.000 e oltre, di quelli invece attorno ai 10.000 euro. Che poi, questi ultimi spesso ti vengono imposti dalle agenzie, se poi vuoi avere una data dei più grossi, non nascondiamocelo, spesso è così: “vuoi Tizio?, bene, allora per averlo da te prima mi devi far suonare Caio e pure l’amico suo”… Non facciamo i nomi, ma sappiamo tutti che è così. E’ un meccanismo che non puoi eludere. Qui poi entra in campo un altro problema…
Quale?
Il giro d’affari. Peggy Gou se suona al Pacha fa incassare mezzo milione di euro, da noi massimo 200.000 euro. Perché da noi non puoi mettere gli ingressi a cinquanta, sessanta, ottanta euro; non puoi mettere i drink a venticinque; e da noi non puoi mettere la follia dei tavoli a 10.000, 20.000 euro, come si fa ad Ibiza o a Dubai o anche in altri posti, da noi è già tanto se osi metterlo a 500 euro. E stando poi solo all’Italia, c’è anche la differenza delle economie e dei poteri d’acquisto tra nord e sud: all’Amnesia o al Cocoricò possono mettere i biglietti a 40 euro, da noi per forza non puoi superare i 25 euro. 15 euro di differenza: se moltiplichi questa differenza per diciamo 2000, hai presente che cifra viene fuori? Capisci? Al sud la spesa pro capite è più bassa, i tassi di disoccupazione sono molti più alti. Quindi ecco, già l’Italia rispetto ad altri paesi è una nazione con una economia molto più debole e fragile, e all’interno di questa economia c’è un sud che è pure messo molto peggio di altre zone della Pensiola. Le agenzie dei dj però tendono a stardardizzare i prezzi: quindi fanno pagare a noi quello che fanno pagare a Parigi, Berlino, Londra, quando invece considerando il quadro macroeconomico da noi dovrebbero costare almeno il 20% in meno (…e per le date al sud dovresti applicare una ulteriore riduzione). Da noi insomma i cachet sono sproporzionati, rispetto al nostro potere d’acquisto. Però Solomun 60.000 euro lo pago io e 60.000 euro lo pagano altrove, in nazioni dove l’economia però è più forte: non dovrebbe funzionare così. Anche perché alla fine della fiera io faccio un Solomun e manco ci guadagno – visto che appunto il suo fee per il nostro territorio è fuori proporzione. Non lo dovresti fare, Solomun.
Ma lo fai.
Per prestigio.
Ecco, questo è un punto importante. Il prestigio. Non è che proprio ‘sta faccenda ha fatto esplodere i cachet dalle nostre parti? Qua, per una gara di prestigio e di ego, si fanno le aste. E i prezzi invece di calare ed adeguarsi al mercato restano alti.
Esattamente così. Ma attenzione: i “nomi di prestigio” non sono tanto e non sono solo le superstar, sono anche quelli che magari fanno poche date in Italia e in determinati circuiti. Penso ad esempio a Laurent Garnier: so di averlo pagato tanto per il valore che ha effettivamente sul mercato, soprattutto qui al sud (dove infatti non suona quasi mai). Ma il profilo artistico che mi dà lui è importante. Mi aiuta anche a costruire più facilmente le line up per il locale così come per il festival.
Ok, ma forse ci siamo un po’ incagliati su questa cosa del “profilo”. E non parlo di te, parlo naturalmente in generale: per inseguire il “profilo” figo di questo o quell’artista, spesso si sono persi di vista i conti e questo in qualche maniera ha dato il “via libera” a dinamiche di mercato insane e tossiche. Perché il nostro settore, economicamente, era in crisi anche prima del Coronavirus, non nascondiamolo.
Sì! Vero! Anzi guarda, forse il Coronavirus si rivelerà una benedizione. Farà ordine. Renderà tutti più ragionevoli.
Almeno quelli che riusciranno a riprendere.
Qua c’è da dire delle cose molto chiare: per come la vedo io, e faccio questo lavoro da ormai 25 anni, negli ultimi tempi sono davvero pochi quelli che c’hanno guadagnato; e quei pochi che c’hanno guadagnato, beh, non hanno guadagnato nemmeno così tanto in relazione ai rischi corsi, al lavoro impiegato, agli sforzi messi sul campo. E’ finita la vita facile. Molti questo non lo vogliono dire, molti lo nascondono; ma a me piace parlare chiaro. Negli ultimi anni non si è guadagnato quasi un cazzo. Se qualcuno dice il contrario, nella stragrande maggioranza dei casi – mente. Naturalmente ti sto parlando del nostro settore, quello legato a techno e house; perché magari facendo commerciale e reggaeton oggi si guadagna tantissimo, boh, ma questo onestamente non lo so, non sono cose che faccio. A me piace fare line up di peso in un ambito ben preciso; e onestamente posso dire che a livello di nomi non ho niente da invidiare a nessuno. Ma i profitti sono stati bassi, se appunto rapportati al lavoro, al rischio, all’ansia che ci si è presi.
E’ finita la vita facile. Molti questo non lo vogliono dire, molti lo nascondono; ma a me piace parlare chiaro. Negli ultimi anni non si è guadagnato quasi un cazzo. Se qualcuno dice il contrario, nella stragrande maggioranza dei casi – mente
Non è che forse c’è la responsabilità di aver educato male il pubblico, da parte vostra? Perché appunto c’è la corsa a vedere sempre i soliti nomi, e a mettere sempre quelli in cartellone; quando invece i dj bravi in giro non sono pochi, non sono certo solo quei “soliti”.
Qui sollevi una questione importante. E ti dico: purtroppo un promoter tutto questo non lo può cambiare. E’ brutto da dire, lo so. Ma alla fine, è il mercato che decide. Il suo verdetto è chiaro. Anche a me capita di bookare dei dj che manco mi piacciono, sia musicalmente che umanamente: ma se il mercato li pretende cosa posso fare? E per “mercato” intendo la gente, il pubblico, chi paga per venire a ballare, non è che ci sia un complotto dall’alto. E’ il pubblico che vuole certi nomi, non è che siano imposti. E guarda: c’ho provato, a fare delle scelte non convenzionali. Io sono uno che gira molto. E ho provato a portare i dj del Berghain quando ancora il Berghain non lo consoceva quasi nessuno, o ho provato a portare i nomi da Dekmantel – e lo facevo perché ci vedevo artisti assolutamente strepitosi, bravissimi. C’ho provato. Ma il locale, vuoto. Praticamente vuoto. Una situazione imbarazzante. Per tutti. C’è solo una cosa peggio del perdere soldi, per un promoter: perdere soldi ed avere pure il locale vuoto. Oggi puoi fare Carl Cox, che ha raggiunto dei costi siderali e magari alla fine facendo i conti su tutto ti accorgi che non sei andato in pari e anzi c’hai perso pure 10.000 euro; ma almeno hai avuto il locale comunque pieno, la gente s’è presa bene. Se invece fai Gerd Janson, che per me è uno dei primi tre dj al mondo, al Guendalina rischi di fare 500 persone invece che 3000. E con 500 persone, credimi, la situazione in un posto come il Guenda diventa triste, triste per tutti: per me che ci perdo dei soldi, per il pubblico che si ritrova in una serata morta, per il dj. Su tutte queste dinamiche, io come promoter posso incidere solo fino ad un certo punto. Posso fare tutti gli sforzi del mondo per raccontare quanto Gerd sia bravo, quanto sia un dj incredibile, quanto una sua data da noi sia un evento eccezionale: ma il pubblico è pigro e nella grande maggioranza dei casi guarda solo quanto un dj è popolare sui suoi social network, oggi. Perché sì, oggi ha preso piede questa dinamica, essere popolari sui social network è diventata una cosa fondamentale. E questo, credimi, non l’ho certo deciso io, non l’ho certo voluto io e non è certo una cosa che mi piace. Ma cosa ci posso fare? C’è una cosa che potrebbero fare i dj un po’ più di qualità, questo sì…
Ovvero?
Spesso chiedono troppi soldi. Se io devo scegliere tra spendere 15.000 euro per Ilario Alicante e 7.000 per Gerd Janson, io posso amare quanto voglio Gerd – e lo amo – ma la scelta più ragionevole è fare Ilario, punto. Ilario è una sicurezza; per Gerd invece ci vorrebbe un lavoro di almeno due mesi di comunicazione, di coinvolgimento di PR che masticano quel tipo di musica… e anche così non puoi avere la sicurezza che si ottenga l’effetto sperato. Con Ilario invece è tutto facile. Non devi smuovere nulla, si comunica bene da solo. Poi chiaro, alla fine Gerd lo fai…
…per tuo sfizio personale.
Esatto. Per tuo sfizio, e non per scelta imprenditoriale assennata. Ti faccio un altro nome che mi fa impazzire: Hunee. Accidenti lui se l’avrei fatto, al Guenda! Ma il Guenda è un club grosso, è mainstream, se faccio Hunee lo so che la serata va male e viene fuori un buco. Ma anche con questa consapevolezza, diciamo che l’avrei fatto comunque, ok? Ma l’avrei fatto se almeno mi costava una cifra molto bassa, qualcosa che mi permettesse di compensare il danno d’immagine del locale semivuoto, oppure di mettere un ingresso gratuito. Dovrebbe costare 1.000 euro, invece poi scopri che costa dieci volte tanto. E allora io dico: un certo tipo di dj dovrebbe capire che, in certi casi, forse sarebbe il caso di abbassare il cachet. E questo non per fare un favore al promoter, ma proprio per fare un favore a loro stessi e alla scena nel suo insieme. Se tu mi costi 1.000 euro, io posso permettermi di fare ingresso gratuito, posso permettermi una serata low cost che magari riesce ad incuriosire ed attirare; e tu ti ritrovi con una pista piena e con una bella situazione, in un posto a cui di tuo non saresti mai andato e raggiungendo delle persone che prima non avevi mai raggiunto, che non ti conoscevano. Se le condizioni sono queste, alla fine ci guadagniamo entrambi. Ma se tu Gerd mi chiedi 7.000 euro, beg, io faccio Ilario; e se tu Hunee fai lo stesso, io faccio Michael Bibi… Che manco ci terrei a farlo, Bibi, e però ora me lo stanno chiedendo tutti, tutti. Se i dj di qualità venissero a prezzi “d’attacco”, invece di voler stra-monetizzare pure loro, io avrei più margine per poter fare un lavoro per spostare le line up verso nomi nuovi, diversi, qualitativi. Ma questo non accade. Vogliono tutti passare all’incasso, subito. Non pensando ad un discorso di prospettiva. E allora, a questo punto, io mi devo tutelare per quanto possibile, privilegiando quasi sempre le certezze.
Posso fare tutti gli sforzi del mondo per raccontare quanto un Gerd Janson sia bravo, quanto sia un dj incredibile, quanto una sua data da noi sia un evento eccezionale: ma il pubblico è pigro e nella grande maggioranza dei casi guarda solo quanto un dj è popolare sui suoi social network, oggi
Insomma, il vero problema del sistema non sta nei “dj superstar”.
Esattamente così. I “dj superstar” li conosciamo tutti: sono dieci, quindici, non di più, e sono richiesti da tutti in tutto il mondo. E’ normale che alzino il cachet a dismisura, la richiesta per loro è continua. Il problema sono gli altri, i “dj medi”, chiamiamolo così, magari anche bravissimi, ma loro non aiutano minimamente i promoter ad invertire un certo tipo di meccanismo che porta i “dj superstar” ad essere dei privilegiati. In realtà cercano anche loro di puntare subito a massimizzare il profitto, esattamente come fanno i “grandi”, rendendo più difficile e più rischioso il ricambio. Se i dj “non superstar” ma bravi prendessero 1.000/2.000 euro a data per me sarebbe molto più facile provare ad inserirli nel mio circuito più mainstream, il problema invece è che partono tutti da 6/7.000 euro; che se poi aggiungi la booking fee, i voli per due, la cena per due, l’hotel a quattro, cinque stelle per due, diventano 10.000 euro in un attimo. Sono tanti, 10.000 euro.
Sfatiamo quindi un luogo comune: il vero problema non sta nei cachet più alti, non sta negli artisti più famosi. Non sono loro a bloccare il mercato.
Ci sono un sacco di hater che ci criticano perché “…fate sempre gli stessi nomi”. Sì: facciamo sempre i Kalkbrenner, i Solomun, i Martinez, i Luciano, i Marco Carola, i Capriati, i Loco Dice. Vero. Perché loro ci garantiscono, più o meno, delle certezze: ecco perché. Facciamo loro, oppure facciamo i resident. Il problema sono spesso proprio i tanto invocati dj “di qualità”: che dovrebbero mettersi una mano sulla coscienza, e capire che non sono Peggy Gou, non sono Loco Dice, non hanno quel tipo di popolarità, non possono tirare la corda… e per un certo tipo di pubblico il loro valore è pari a quello di un resident o di un qualsiasi anonimo dj che ha solo la fortuna di vivere a Berlino e che pago 1.000 euro, quindi i loro 5/6.000 euro diventano un controsenso, una speculazione. Insomma: se io faccio “sempre gli stessi nomi”, è perché le circostanze mi obbligano a farlo, non per una scelta e volontà mia personale. Figurati: alle attuali condizioni di mercato pensa che mi conviene più tenere chiuso due settimane e poi fare un mega-ospite, piuttosto che tre settimane con nomi più ricercati, originali e di qualità.
E appunto non è solo una questione di soldi.
Sì, non è solo quello: perché un locale da 3.000 persone se dentro si è in 500, ma anche in 7/800, diventa triste. Imbarazzante per chi ci va, imbarazzante per chi ci suona. E se inizi a “sbagliare” le serate, poi recuperare diventa molto ma molto più difficile.
(Il Guendalina al massimo del suo splendore e della sua capienza; continua sotto)
Quanto sono importanti oggi i PR?
Pochissimo. Proprio poco. Servono al massimo tre, quattro “opinion leader” della zona: bastano quelli. Me li scelgo io attentamente. Ma il vecchio sistema, quello delle serate su cui lavorava un esercito di PR, decine e decine se non centinaia, non serve più a nulla. Può ancora ancora avere un senso se fai serate coi resident, con dj anonimi, lì magari qualcosa fa; ma se hai nomi forti in console la presenza dei PR non solo è inutile ma può essere addirittura dannosa. Sono più i PR che si fanno belli collegandosi alla serata col big di turno (che stai pagando tu, mica loro), senza darti assolutamente nulla in cambio: perché certi nomi attirano gente a prescindere. D’altro canto, che fanno i PR oggi? Perché quelli bravi, che parlano con le persone, che vanno nei bar, che allungano i flyer cercando un contatto reale col pubblico, non ci sono quasi più; c’è invece una flotta di gente che posta l’evento su Facebook e su Instagram, poi fa da centralino telefonico per tavoli e biglietti d’ingresso, ma il valore aggiunto che ti dà in quanto a biglietti venduti e riuscita della serata è zero. Il PR di una volta, quello che spostava davvero persone che altrimenti non sarebbero mai venute da te, praticamente non esiste più. Ormai stanno tutti sui social. Dove non spostano nulla, perché gli artisti importanti sono già fortissimi di loro, lì.
Veniamo al presente, all’attualità più stretta: come stavi impostando la stagione, prima dell’esplosione della pandemia? E cosa sarà di questa stagione adesso?
Prima dello scoppio del Coronavirus, avevo praticamente già chiuso una programmazione molto importante. C’erano praticamente tutti: Peggy, Amelie, Bibi, Ilario, Black Coffee, Luciano, Ralf, Luca Agnelli, Topping, wAFF… bene – tutti in stand by. Tutti. In Puglia si sta già riaprendo, almeno il 50% dei locali con lo scorso weekend ha ripreso le attività, e quindi anche santuari storici, posti molto importanti. Io sarò molto schietto: non ero pronto per riaprire. Lavoravo sì su una riapertura, ma l’avevo fissata per metà luglio e voglio stare su questo. E’ una scelta ben precisa. Ci sono tanti punti interrogativi, ancora: come reagiremo alle riaperture quasi integrali? Resterà il “contagio zero”? E’ giusto darsi 15/20 giorni per capire. Il nostro protocollo regionale dice che se dopo 15 giorni delle riaperture la curva dei contagi si continua ad abbassare, allora si può procedere ad una riapertura integrale, “normale” insomma, e non al 60% delle capienze e con una serie di limitazioni come ora. E io, insomma, preferisco aspettare. Se devo riaprire, preferisco poterlo fare già al 100% o quasi, senza restrizioni limitanti ed opprimenti. Se i dati continuano ad essere questi, sarà già possibile farlo nella prima metà di luglio (quindi sicuramente per metà luglio).
Vi siete parlati, fra colleghi, in questi mesi?
Sì, ma non siamo tutti uguali. A molti locali più commerciali va benissimo già una riapertura come quella che stiamo avendo ora, magari loro lavorano coi tavoli anche in pista cose così. Ma per me, per il tipo di locale che gestisco e di musica che faccio, non ha senso. Viene a mancare un certo tipo di energia. Però sì, fra di noi ci siamo parlati, sia in Puglia che a livello nazionale.
E?
E’ servito. A qualcosa è servito. Tante chat, tanti confronti, una unione e un senso di solidarietà fra competitor che, francamente, prima non avevo mai visto: è stato bello.
E’ stato bello, ma…
Sai, chi fa questo lavoro un po’ individualista lo è per forza. E un po’ di ego ce l’ha. Non potrebbe non averlo. Quindi sì, quando si ripartirà davvero si tornerà alla competizione, ma speso comunque dopo tutti questi mesi un po’ più smussata, un po’ più ragionevole e solidale… o almeno rispettosa.
Ti è mai venuta la tentazione di mollare tutto quanto, in questi mesi?
Dopo la scorsa estate, sì. Volevo lasciare tutto. E quando stavo riprendendo un po’ di fiducia ed entusiasmo, è arrivata la pandemia. Il problema ora è l’incertezza: sì, possiamo riprendere, ma – la gente verrà? Spenderà? Dopo tre mesi chiusa in casa, quanta voglia avrà di stare in mezzo a migliaia di altre persone? E quanta paura si avrà ancora del virus? Quanta sarà la pubblicità negativa dei media contro club e discoteche, che tanto lo sappiamo che ci sarà comunque? Sono tante le variabili, tante. Ecco perché l’unica cosa certa, oggi come oggi, è l’incertezza. Noi siamo qui. Ci siamo. Ma obbligati a vivere alla giornata.