Per molti, Giuseppe Vitale è un precocissimo talento del jazz italiano, un pianista dalla tecnica scoppiettante. Ma per ancora più persone, potrebbe diventare a breve altro, potrebbe cioè diventare uno di quei nomi da segnarsi anche se non si ha la minima famigliarità col contesto jazzistico più abituale e tradizionale: una volta indossata infatti l’inedita identità artistica a nome Ze In The Clouds, con un piccolo aiuto di LNDFK e Dario Bass e l’appoggio della nuova costola discografica di Jazz:Re:Found (Time Is The Enemy, che si aggiunge a Happy Few), Vitale ha tirato fuori un disco che ehi, vi consigliamo davvero di ascoltare, a nome “Magical”. Sappiamo che ci odierà per questo, Giuseppe, ma veramente ci viene da dire sia un esempio perfetto di “Thundercat italiano”. Lo è per la capacità di incrociare perizia e virtuosismo con personalità ed originalità, e tutto questo fatto crescere e macerare in una dimensione molto bizzarra, molto faccio-quello-che-mi-pare. In una parola: un talento notevolissimo, uno da mettere decisamente nei nostri (e vostri!) radar. È una persona davvero interessante anche per un confronto su idee, attitudini, contesti. Questa intervista è una delle più interessanti che ci sia capitato di fare di recente. La sua personalità, viene fuori tutta. Meno male che ci sono artisti così. Era un po’ che ci ripromettevamo di farci una chiacchierata; ora, finalmente il momento è arrivato. Eccome come è andata. (spoiler: gran bene)
Allora Giuseppe: eccoci, finalmente.
Sì, mi sono un po’ preparato prima di parlare con te: mi sono letto un po’ di cose tue che hai scritto, un po’ di interviste…
Oh, mi spiace.
(scoppia a ridere, NdI) No no, era una cosa bella! E poi lo dicevo per rompere il ghiaccio, dai.
Guarda, a rompere il ghiaccio ci pensa già da solo “Magical”. Trovo che sia un disco veramente interessante. E particolare. Tant’è chi ti chiedo subito: è stato fatto, pensato e suonato tutto d’un fiato, seguendo l’ispirazione del momento, o è invece un prodotto progettato e preparato a lungo?
Entrambe le cose, in realtà. Complessivamente ci abbiamo messo quasi due anni a farlo: non pochi. Un po’ perché il Covid ha rallentato tutto, un po’ perché le due persone che mi hanno aiutato a farlo stavano lontane, a Napoli. E poi, perché comunque ci sono state liti, discussioni…
Ah!
Ma sì, ma è normale, è giusto. E’ così in ogni progetto un minimo sentito, no? Sai cosa, fino a poco prima della pandemia suonavo veramente tantissimo in giro, davvero parecchi live a getto continuo, e sì, avevo effettivamente l’idea di fare un disco come Ze In The Cluouds ma continuava a restare solo un’idea, un abbozzo, un qualcosa buttato lì. Nel momento in cui si è fermato tutto, il mio manager – ma anche i miei amici – hanno iniziato a ripetermi “Ora basta, ora questo album lo devi fare davvero!”. Ho iniziato allora a fare su e già da Napoli regolarmente, naturalmente quando si poteva. Inizialmente eravamo io e Linda (LNDFK, NdI), poi si è aggiunto anche Dario (Dario Bass, NdI). Diciamo che metà disco è stato fatto in un anno e sei mesi; l’altra metà, in un tour de force di tre settimane. Davvero un incubo, quest’altra metà. Ma era necessario.
L’album è venuto fuori come te lo aspettavi, se ripensi a come avevi iniziato ad immaginartelo? O alla fine è venuto fuori diverso?
E’ venuto fuori assolutamente come me lo aspettavo. Ed è venuto fuori esattamente come doveva essere. Ti dico questo anche se, paradossalmente, all’inizio non avevo idea di come potesse specificatamente venire fuori il tutto: perché si trattava di pezzi che avevo scritto già e già facevo dal vivo, ma lì erano per forza di cose sviluppati in maniera diversa, differente. “Tradurli” nel formato che si può sentire nell’album non è stato un processo semplicissimo. Che poi, ogni singola canzone è come se ne contenesse più d’una…
Vero, sono praticamente delle matrioske. Confermo. In tutto questo, in questo contesto così “mosso”, come ti sei gestito la faccenda della scelta degli arrangiamenti?
Lì le idee arrivavano già col pezzo, erano subito pronte, c’erano praticamente già. Del resto se si tratta di arrangiamenti voglio fare tutto da solo: non mi affido mai ad altri. Anche perché di solito ogni singola parte di una mia canzone è abbastanza elaborata, abbastanza complessa – meglio che ne abbia io il pieno controllo, ecco. Sai cosa è stato un po’ più laborioso e su cosa mi sono affidati volentieri ad un aiuto esterno? Il suono. Trovare il giusto suono. Anche su perché questa cosa, il trovare il “proprio” suono, non mi sono mai realmente concentrato – del resto non è che puoi fare tutto e tutto bene, no? Devi fare delle scelte.
La tua scelta è stata quella di suonare gran bene. E fin da subito, tra l’altro: sei giovanissimo.
Ma guarda, io ho iniziato a studiare pianoforte abbastanza tardi.
Cioè?
A quattordici anni.
Alla faccia del tardi.
Però va detto che già l’anno dopo ero praticamente già un professionista. E di lì a poco ho iniziato ad uscire nei primi dischi, nel circuito jazz. Ma come Ze In The Clouds, con l’identità di “Magical” insomma, questa è al contrario la prima release in assoluto. E quindi, avevo l’obbligo e il dovere di lavorare bene sul suono per definire al meglio questa nuova identità, tanto più che quella di Ze è una musica dove la perizia puramente strumentistica non è al primo posto, fra le cose che contano. Di solito, quando la gente ascolta musica sul genere di quella che faccio come Ze di si focalizza prima di tutto sulla voce, come regola. E, onestamente, la voce è lo strumento che mi interessa ed appassiona di meno. Onestamente: io non so cantare. Diciamolo. Ma ci tenevo che questo disco fosse accessibile, fosse in qualche facilmente “riconoscibile” da un certo tipo di pubblico che non è quello solito del jazz.
(Eccolo, “Magical”; continua sotto)
Anche tu un po’ stufo della gabbia del jazz più tradizionale?
E’ una gabbia molto rigida. Però occhio, non sto parlando del jazz come musica, ma del jazz come scena – almeno qui in Italia. Come pubblico, ecco. Sugli artisti, nulla da dire invece. Anzi: mi sono stati d’enorme aiuto, più d’una volta m’hanno non solo insegnato tantissimo ma proprio aperto la mente…
Qualche nome?
Beh, i soliti. Quelli con cui ho lavorato. Fresu, Bagnoli, Faraò. I big. Che evidentemente non sono big per caso. Ad ogni modo, “Magical” non ha nulla a che fare col circuito del jazz italiano.
Un circuito in cui appunto gli artisti mediamente sono molto più aperti e curiosi del loro pubblico di riferimento.
Già, è così. Però, onestamente: sono discorsi che manco mi interessano tanto, sai? Io ho fatto “Magical” perché volevo fare qualcosa di mio, perché volevo lasciare un segno particolare e personale. E questo va al di là di ogni considerazione su “scena” o “non scena“. Se non funzionerà, a livello di riscontro, amen; vorrà dire che funzionerà qualcos’altro in futuro. A me però fondamentalmente interessa solo fare della musica che mi interessi e mi stimoli. Sta tutto lì.
Sei uno che ascolta molta musica di altri?
No.
Ma manco Thundercat, che secondo per “Magical” è un riferimento abbastanza evidente?
Quasi mi scoccia che mi chiedano sempre questa cosa…
Eh, mi tocca.
Io lo stimo infinitamente, Thundercat. Di più: è un mio mito. Ma in tutta onestà, non lo sento come un’influenza. Le influenze per me sono state Stevie Wonder, i Beatles, Sam Cooke, la tradizione di un certo tipo. Gente come Thundercat o un Louis Cole per carità sono bravissimi, fantastici, ma io con loro ci voglio suonare ia festival, non è che voglio averli o vederli come un’influenza da cui prendere ispirazione. Capisci la differenza? Io ho una mia personale visione della musica, credo in parte diversa dalla loro, e voglio portarla avanti. Poi può essere che ci sia un terreno comune, può anche essere che questo terreno diventi col tempo ancora più comune, così come il contrario. Ora non lo so. Ora, più che altro, mi pare che siamo su lunghezze d’onda, in parte, differenti.
Nelle tue lunghezze d’onda quanto rientra però in generale la musica urban contemporanea, trap, hip hop, eccetera? Anche solo per motivi anagrafici, dovrebbe essere abbastanza nei tuoi radar, no?
Ma guarda, non conosco praticamente nulla. Tranne vabbé, quello che spunta sempre fuori sui social… Però ti dirò: non ho preclusioni ed anzi, mi diverte pure quando qualcuno di quel giro lì mi chiede una mano, un intervento di qua, uno di là, come capita sempre più spesso. Oh, per essere giovane sì, sono giovane, quindi immagino sia naturale che mi ci trovi comunque a mio agio, è la musica della mia generazione. Ma io di mio sono molto più sfaccettato. Figurati: a me piacerebbe molto fare canzoni anni ’60, per dire, così come ci sono molti altri mondi musicali che non c’entrano nulla con la mia contemporaneità che vorrei approfondire.
Stando sempre sul jazz, un esercizio fondamentale è quello di cimentarsi sugli standard.
Eh beh, certo che sì.
Qual è il tuo preferito?
Direi “Round Midnight”.
Oh, bellissima scelta.
Peccato che non la sappia suonare bene (risate, NdI). In generale, comunque, nel jazz sono affascinato dalla ballad più classiche: ti lasciano spazio per sviluppare le armonie in parecchi modi interessanti. Una mia caratteristica buona è comunque che so adattarmi abbastanza bene: che sia jazz tradizionale, che sia roba ipercontemporanea, io riesco sempre ad infilarmici bene nelle cose. Boh, immagino che uno dei vantaggi dell’essere giovani sia proprio l’elasticità.
Un eccesso di elasticità non rischia però di compromettere la costruzione della propria identità?
Ma no, non credo. Anzi, è stimolante. So suonare, ho una padronanza di alto livello allo strumento, e mi chiamano per questo: bene. Ora però hanno anche iniziato a chiamarmi come producer: ottimo, è una cosa che mi sta prendendo molto bene. Aggiungo: nei pezzi miei, quelli che creo io, di solito suono tutti gli strumenti: impossibile quindi annoiarsi. Non vedo grandi problemi, insomma. Solo una cosa è importante, e spero resti chiara: il fatto che io faccia una cosa – che so, il suonare ipercontemporaneo – non significa che non voglia o non possa più fare altre cose che facevo prima, tipo il fare jazz un po’ più convenzionale. Anche perché io non seguo le mode. Non me ne frega niente, delle mode.
I social rovinano tutto: perché sono fatti per trasformare l’interesse in compulsione
Insomma, sei uno che sta bene dappertutto.
In realtà, sono uno che sta malissimo dappertutto (sorride, NdI). Quindi ovunque devo fare sempre lo stesso sforzo, senza distinzioni e differenze: lavorare per essere un po’ più a mio agio. Io di mio sono uno che sta molto chiuso in se stesso, e vorrebbe pensare solo alla musica. Mi rendo conto che in questa maniera spesso risulto come uno antipatico. Ok, va bene. Spero almeno che sia visto come uno antipatico, ma bravo.
Ma perché chiudersi, dai? Con l’abilità tecnica che hai, che ti fa da biglietto da visita, avresti tutto il motivo per stare a tuo agio un po’ dappertutto.
Io sono a mio agio quando devo suonare, quando sto con la musica. Lì assolutamente sì. Ma quando esco da quel contesto, boh, mi sento spesso un pesce fuor d’acqua.
Eh, ma ora come Ze In The Clouds hai tutta una identità da costruirti e devi anche farti conoscere, quindi interviste, curare i social… Insomma, ti tocca occuparti anche di cose che non sono musica.
Oddio, non so. Dici che dovrei? Pensi sia necessario?
Penso sarebbe un peccato non farlo. Non solo la musica è interessante, ma mi sembri molto interessante anche tu come personaggio. Ti dirò: di gente che suona e produce ne vedo e ne sento quotidianamente, ma tu per mille motivi si vede subito che sei uno particolare, ben sopra la media.
Sai cosa, è che io non ho idea di come sia il pubblico un po’ più generico, quello insomma dei non super fissati musicali. Finora ho conosciuto solo persone immerse al cento per cento nella musica. Capisco che aprendosi stilisticamente si possa arrivare ad una platea un po’ più generalista però ecco, non so come sia. Un po’ mi incuriosisce anche scoprirlo, ti dirò. Un po’ sì.
Hai anticipato la mia domanda, che è: quanto ti interessa effettivamente raggiungerlo, il pubblico un po’ più generalista?
Eh… in realtà, mi interesserebbe. Sì. Mi interesserebbe. Ma poi i social rovinano tutto: perché sono fatti per trasformare l’interesse in compulsione.
Ottima osservazione.
Sui social poi non si parla quasi mai di musica: si parla di industria, di meccanismi per farsi notare e farsi conoscere, e quindi già di partenza sono discorsi su cui non sono preparato, che mi interessano poco e che mi mettono anche in difficoltà. Però una cosa mi interesserebbe: far capire alle persone che ci si può divertire anche con la musica un minimo colta, un minimo complessa.