Qualcosa sta cambiando nel linguaggio r’n’b moderno ed è sempre meno frequente trovare esempi di sound classico tra le nuove uscite. Sarà che la tentazione di seguire certe intuizioni recenti è troppo forte, sarà che è lo stesso pubblico a voler sentire questi cambi di programma, in ogni caso quel che si osserva è una rete di fantasie inedite portate avanti da vecchie e nuove conoscenze del genere, al punto che stan già fioccando speculazioni e etichette di conio recente (“nu R&B” è probabilmente la più immediata, ma non son mancate terminologie astruse come “PBR&B” o “r’n’b per hipster”). I progenitori diretti di ciò che accade oggi sono gli stessi che negli ultimi anni han conquistato i favori del pubblico: Janelle Monáe, The Weeknd, Clams Casino ma anche Drake, Frank Ocean e Kendrick Lamar, tutti interpreti in un modo o nell’altro di nuove esigenze soul, di rinnovamento delle tecniche ma anche di una certa necessità di colpire l’ascoltatore di primo impatto, incorporando con coraggio e malizia forme e attitudini comunemente attribuite al pop (quello stesso pop che, come osservavamo di recente, sta avvolgendo praticamente ogni cosa).
C’è una manciata di (ottimi) dischi usciti in questi mesi che raccontano meglio di tante parole di cosa stiamo parlando e, se da qualche parte dovremo partire, è il caso di impattare subito col personaggio che più degli altri rappresenta la cartina tornasole dello stato dell’arte r’n’b-pop, ovvero Justin Timberlake. Uno dei più bistrattati per le sue radici mainstream e nello stesso tempo l’oggetto dei più frequenti sdoganamenti da parte della critica, l’artista di Memphis ha tirato fuori giusto il mese scorso l’album “The 20/20 Experience” ed è stata un’energica svolta stilistica che ha assunto i tratti della piena maturità personale: via il finto moonwalking e i pruriti giovanili e dentro un ripescaggio della tradizione soul, funk e jazz e un ritmo più tagliato per il formato d’ascolto. In una direzione che rispetta su tutta la linea i fermenti recenti, colui che più di tutti ha “poppizzato” l’r&b si atteggia paradossalmente ad autore dei più sofisticati del suo genere. Nell’anima melodica di “Suit & Tie” o “Mirrors” c’è sicuramente la mano sapiente di Timbaland ma anche la vicinanza al classicismo intimista di Ocean e dietro al lungo respiro di pezzi come “Strawberry Bubblegum” e “Don’t Hold The Wall” c’è sì tutto lo stile di cui Timberlake è capace ma anche l’idea di “hip-opera” vista nella Monáe. Su tutte, c’è una voglia di coinvolgere un pubblico più adulto, di accattivare l’ascoltatore alternativo, magari di convincere anche l’orecchio esigente (sempre che non sia influenzato dal pregiudizio verso il nome). La necessità di svincolarsi dalle forme r’n’b consolidate è sfociata qui in una buona raffinatezza easy-listening, ora vispa ora malinconica, e a giudicare dall’ottima ricezione riscontrata (vendite doppie rispetto alle più rosee aspettative) la strada sembra fertile per ulteriori frutti.
E per un Timberlake che si lascia alle spalle la sua immagine popolare per reinventarsi produttore di carattere, c’è qualcun altro che percorrendo il percorso inverso finisce per passargli dietro dalla corsia opposta. Parliamo di Jamie Lidell: una carriera di trattamenti funk e riconoscimenti della critica e a febbraio il colpo di coda, un album con su il suo nome che è un gioco di riflettori e make up dall’attitudine fortemente pop e un enorme debito verso il Prince che fu. Eppure la fierezza del cantato, le melodie accattivanti, la centralità dei ritornelli, tutto questo appeal popolare è proprio la caratteristica primaria di questo nuovo r’n’b allargato, che è cosciente dei suoi mezzi ma sa anche (s)vendersi quel minimo per ottenerne una validità più generale. Il singolo “What A Shame” è tutto questo e anche un pezzo dalla tipica abbondanza rock, mentre invece sono tracce come “So Cold”, “You Naked” e “I’m Selfish” che esprimono meglio la ricerca del groove, del giro appiccicoso, della conquista a primo ascolto. Lui che ha sempre solleticato certi meccanismi commerciali sceglie così di giocarsi tutte le sue carte con un sound simpatizzante mainstream e devoto in maniera anche piuttosto esplicita a musicalità note da Michael Jackson in avanti. In molti hanno urlato allo sputtanamento commerciale ma l’album ha qualità ed efficacia, professionismo e sensibilità della materia non gli si possono negare. Non chiamatelo r’n’b ma nemmeno pop o elettronica, prendetela come freschezza contemporanea e mettetela in loop.
Non hai fatto in tempo a chiederti se quel che osservi son pure coincidenze che irrompe sul campo uno sulla carta estraneo, eppure pronto a chiudere il cerchio fugando ogni dubbio: Arthur Ashin, col moniker Autre Ne Veut, un ragazzo di scuola Oneohtrix Point Never/James Ferraro (quindi glo-fi, anni ’80 e synthwave) reinventatosi con l’ultimo album Anxiety artista modern-r&b completo. Soul bianco nella sua accezione più malinconica e un atteggiamento da confessione innocente che sta già tutto nella ricetta di Frank Ocean dell’anno scorso, ballate altamente emozionali come “A Lie” e “Ego Free Sex Free” e affinità neanche troppo nascoste a schemi mainstream consolidati (tra le passioni personali da lui citate nelle interviste ci sono Marvin Gaye, Stevie Wonder e lo stesso Lidell, ma anche Usher e – ehm – Katy Perry). Il bello però sta in un pezzo come “Counting”, rilassato, lacrimoso ma fiero di esserlo, pop come una volta eppure aggiornato alle idee dell’r’n’b recente, oppure “Play By Play“, un crescendo di cantato simil-radiofonico che arriva sul punto di esplodere nel ritornello killer ma vira all’ultimo verso i segnali intelligenti moderni, presi tutti in prestito da The Weeknd. Il nuovo r&b è tutto qui, magari ancora ingenuo e insicuro ma già pronto a conquistare il mondo.
Solo tre esempi, ma concreti e significativi nelle dinamiche che stiamo osservando. Sembra questa la nuova passione del pubblico alternative/hipster, avvistata già negli anni passati e riassorbita adesso in maniera programmatica dalle nuove produzioni. L’r&b classico esiste ancora, sia chiaro, come continuano ad esserci realtà attualmente impegnate nel suono tradizionale (vedi gli Inc., che proprio quest’anno hanno esordito sulla lunga distanza per 4AD), ma la sensazione è che attenzioni ed entusiasmi si siano spostati su fronti più innovativi. Se fino a ieri a tenere banco era l’hip-hop dei vari Kanye West, A$AP Rocky o Gucci Mane, sembra proprio che il 2013 si stia impegnando a cambiare le cose.