Volcov è un caso più unico che raro. Lo pensiamo adesso, ma lo pensiamo in realtà da tantissimo tempo. Da vent’anni, praticamente, visto che ne seguiamo le imprese fin dagli esordi: visto che è della stessa città di chi vi sta scrivendo (Verona), anche se poi paradossalmente ci si è conosciuti solo pochi anni fa; ma soprattutto visto che è uno di quelli che ha sempre seguito, nel clubbing, la strada più sofisticata, ricercata, anche se questo significava essere completamente fuori dalle mode. Ora la ruota pare girare nel verso giusto: anche nelle faccende di casa nostra, Enrico Crivellaro aka Volcov sta diventando un nome di peso, un headliner insomma, un venerabile maestro da inserire assolutamente in line up se ci si vuole dare il giusto spessore; e infatti il suo nome figura benissimo nel cartellone ad altissima qualità di Polifonic, che questo weekend renderà la Puglia uno dei centri europei del clubbing migliore. Abbiamo parlato di questo (ed Enrico ha detto delle cose molto particolari a proposito, sul discorso dei festival); abbiamo parlato di parecchio altro. Il personaggio-Volcov emerge a pieno. Così come emerge che personaggio-Volcov, e Volcov come dj e producer, sono un grandissimo patrimonio dell’elettronica di casa nostra, da un sacco di tempo. Un tempo lo sapevamo e pensavamo in pochi, ora non più. Perché se oggi impazzite per Theo Parrish, beh, Volcov ne è amico da quasi vent’anni. Quando esserci amico ti dava punti di coolness pari a zero.
La tua carriera, a mio modo di vedere, ha avuto un andamento molto strano. Sei stato uno dei primissimi rappresentanti di casa nostra – tolti i “grandi vecchi” che spopolavano ad Ibiza negli anni ’90 – ad avere un grande riconoscimento all’estero, quando averlo era difficilissimo e il clubbing più sotterraneo e ricercato in Italia era considerata la nicchia della nicchia, lontana mille miglia dal peso che poteva avere invece in Inghilterra. Bene: proprio in Inghilterra, la Terra Promessa, tu eri conosciuto e rispettato, con connection importantissime. Avresti dovuto essere, anche solo per questo, un “padrino” del clubbing italiano di un certo tipo, quello più ricercato e raffinato, quello insomma che non pensa solo a “sbocciare”. Invece sei a lungo tempo rimasto confinato in un angolo, semi-sconosciuto, raramente menzionato. Tant’è che ora che il tuo nome circola parecchio, in pochi tuttavia sanno che la tua storia artistica ha ormai vent’anni: le prime relase della tua prima label, la Archive, sono datate tipo 1998…
Esatto. Se è per questo ho ovviamente iniziato anche prima ad interessarmi di musica, però è quando mi sono spostato a Milano che le cose hanno iniziato a succedere, ovvero quando ho iniziato a suonare in Pergola.
In Pergola? Un posto che ha fatto la storia del clubbing italiano alternativo; peraltro, comunque uno squat. Quando ancora il quartiere Isola era tutto tranne che gentrificato e alla moda, come invece è adesso. Un posto cioè che in teoria non sarebbe mai stato associato a uno che ha sempre fatto della musica molto “elegante” e, insomma, poco “da centro sociale”…
Già suonavo in giro per Milano, ad esempio m capitava di suonare abbastanza spesso con Stefano Ghittoni (metà dei The Dining Rooms, NdI). Lui ed altri iniziarono a dirmi “Ma perché non fai un salto in Pergola e chiedi se ti fanno suonare? Lì fanno reggae, ok, con quello non c’entri nulla; ma fanno anche drum’n’bass, jungle, quella roba lì ti piace”. Alla fine ci sono andato, ho conosciuto Luca Boselli – che era un po’ il “direttore artistico” del tutto – e ho iniziato a dirgli “Sì, qui vedo che fate un sacco di jungle, ma perché non pensare ad un appuntamento con della drum’n’bass un po’ più astratta, più mentale e meno giamaicana? Robe tipo Photek, le release della Reinforced…”. All’epoca conoscevo uno dei ragazzi che lavorava a Fat Cat Records – negli anni ’90 uno dei templi dell’elettronica a Londra, come negozio – e guarda caso lui era proprio quello più esperto delle sonorità di quel tipo. Fu lui il primo ospite. E’ così che la cosa prese piede. Solo che ad un certo punto dissi a quelli di Pergola “Ok, ottima la drum’n’bass, ma io vorrei fare qualcosa di più mio, una vera e propria serata Archive, qualcosa di più eclettico. Che ne dite?”. Mi diedero l’ok. Serata mensile. Primo ospite, Dego, dei 4 Hero.
Che però immagino venisse per fare i suoi set più eclettici, quelli per cui è conosciuto ora, mentre all’epoca i 4 Hero erano all’apice proprio della faccenda drum’n’bass.
Esatto: veniva per suonare eclettico. E veniva spesso: un anno credo che l’abbiamo chiamato sei volte! Un po’ perché ci divertivamo ad andare assieme a San Siro (erano gli anni di Ronaldo, bei tempi…), un po’ perché era bravissimo, l’esponente più interessante della scena in quel momento. Abbiamo fatto serate strepitose, anche coraggiose dal punto di vista produttivo (addirittura col doppio guest: Modaji e Jazzanova, Nubian Mindz e Alex Attias…); abbiamo anche fatto serate in cui suonavo solo io. Ecco, quelle erano serate in cui mettevo molta house. E venivo aspramente criticato per questo.
Eh, ci credo. Erano ancora gli anni in cui la house era una musica “commerciale”, consumista, ed era sacrilego che entrasse in uno spazio occupato…
C’è una persona, molto ma molto importante nella scena musicale italiana, che quando veniva alle serate e sentiva che mettevo roba cantata, pezzi di Ron Trent, arrivava da me e faceva poco amichevolmente “Oh, ma cosa stai suonando? House? In Pergola?”. Poi, negli anni, la cosa è stata sdoganata. E’ stata sdoganata così tanto che la suddetta persona ora organizza cose che in più di un caso sono legate a quel mondo lì. Ad ogni modo, queste serate Archive le abbiamo portate avanti per cinque anni, mi pare che il primo anno fosse il 2002…
…quando le cose erano molto diverse rispetto ad ora, in un determinato tipo di clubbing. Ad esempio i booking si facevano non tramite le agenzie ma per amicizia diretta, giusto?
Si faceva tutto senza agenzia, già. Un’unica cosa abbiamo provato a fare, passando per un’agenzia: Theo Parrish nel 2002. Sarebbe stata la sua prima data in Italia, era tutto fissato per maggio, un venerdì. Il punto è che il giorno dopo lui avrebbe dovuto suonare al Detroi Music Festival – che era alla sua seconda edizione, era ancora molto “sentito” come evento identitario della scena detroitiana e non come semplice mega-festival, lui ci teneva tanto – per fortuna però avevamo anche trovato gli incastri giusti coi voli, sarebbe riuscito ad arrivare in tempo. Ma l’agenzia ci mandò un contratto con delle condizioni talmente assurde che decidemmo di desistere, di lasciar perdere. Passarono almeno due o tre anni prima che Theo suonasse in Italia per la prima volta, a Bologna, grazie a Tommaso Meletti.
Comunque tra le serate Archive e le collaborazioni e le amicizie che ti eri assicurato, eri arrivato a una sorta di contatto diretto con la “zona nobile” della club culture europea: quella più alternativa che più piaceva a giornalisti, intellettuali e connoisseurs vari e meno alla massa. Cosa che all’epoca sarebbe stata sufficiente per renderti un eroe all’interno del clubbing italiano più “avanzato”, no? Ma non è successo. Sei sempre stato visto come uno sfuggente outsider. Pure lì. Pure nel campo in cui avevi i titoli per essere un piccolo re.
Io in realtà vengo dall’house.
Eh. Che a lungo tempo è stata associata quasi esclusivamente al clubbing commerciale, come si diceva.
Ho iniziato comprando Mr. Fingers, che è tutt’ora il mio eroe: suonavo quelle robe lì. Ma quando ho iniziato a fare il dj per davvero, non ho fatto quello che facevano un po’ tutti in quel circuito: accettare di suonare come secondo o terzo dj in alcune discotecone-chiave. Quando ho visto che avrei dovuto seguire quel tipo di iter lì, ho fatto una cosa molto semplice: me ne sono tornato a suonare in cameretta. Stop. Allargando anche così lo spettro delle mie conoscenze. Poi sì, col trasferimento a Milano, con le serate in Pergola, si sono all’improvviso aperte più possibilità, ho iniziato a fare qualcosa di più. L’etichetta. Qualche data all’estero. Ma era tutta una situazione, come dire?, un po’ naïf… Ti faccio un esempio: Domu. Come dj e producer, secondo me non aveva niente da invidiare ad un Floating Points. Nulla. Se Domu fosse arrivato sulla scena oggi, con gli skills che ha – che sono molto superiori a quelli di un Floating Points, pur con tutto il rispetto per quest’ultimo – oggi avrebbe fatto sfracelli. Invece nulla. Anzi, devo aggiungere che all’interno di quella stessa nicchia c’era grande rigidità, ma una rigidità sana. Cioè: dovevi stare al tuo posto. L’hype era bandito. Non potevi arrivare dal nulla e metterti a fare il fenomeno. Dovevi portare il giusto rispetto ai capi della scena, agli IG Culture. Domu è stato un rarissimo caso in cui, per manifesta superiorità di tecnica e di talento, sono state date subito delle residency, a uno appena affacciatosi alla scena: caso rarissimo. Ma appunto: è successo tutto nel periodo sbagliato. E’ successo quando internet non c’era, e anche se eri bravo facevi più fatica a farti conoscere in giro. Il talento di Domu è rimasto un best kept secret. Che poi oh, in quegli anni abbiamo fatto anche cose importanti, l’album che abbiamo fatto assieme, “This World”, anno 2003, è uscito su Compost…
…che però era già in fase calante, come profilo.
Ma al di là di questo, io stesso avevo un atteggiamento molto purista. Anche quando stavo a Londra, non andavo mai a flirtare con i radio show chiave dell’epoca. Avevo un piglio che era un po’ quello di Reinforced, di Underground Resistance: “La musica parla, and that’s it”.
Si diceva che eri snob, antipatico.
Ci sono alcune cose che mi piacciono: su quelle, so di essere molto appassionato e passionale. Poi ci sono quelle che non mi piacciono: e quelle, semplicemente, non mi interessano. Quando stavo a Londra incontravo altri producer italiani che facevano questo, facevano quello. “Ti do il mio disco, così lo suoni”: e la mia risposta era “No, non lo suono, non darmelo, non mi interessa”. Sono fatto un po’ così. Ho uno spirito critico abbastanza spiccato: sia nei confronti di quello che faccio io, sia nei confronti di quello che fanno gli altri. Capisco che questo atteggiamento possa lasciare perplessi.
Non hai rimpianti, comunque.
Assolutamente no. Io, se metto on line un mio set del 1991, 1998 o 2005 non ho nulla di cui vergognarmi, ho suonato sempre e solo roba che mi rappresentasse al cento per cento, senza farmi infuenzare dagli hype del momento. Non so se tutti possono dire lo stesso.
Com’era il tuo rapporto con Verona?
A Verona ho avuto una grande fortuna: la presenza di un negozio di dischi fantastico, Le Disque, che peraltro c’è ancora. C’era già quando avevo diciassette, diciotto anni; certo, andare a Londra restava in quegli anni un’altra cosa, ma anche in Italia arrivava roba buona. A Le Disque potevo trovarla, e potevo trovarla senza imbattermi in quei meccanismi che invece erano regola in altri negozi storici per dj del tempo, penso ai Disco Più, Disco Inn, dove erano già pronti sacchettoni di vinili con un contenuto diverso a seconda dell’importanza del dj. A Le Disque era un’altra storia: i dischi arrivavano il giovedì, noi eravamo lì, una decina, si metteva il disco sul giradischi, lo si ascoltava, chi lo voleva alzava la mano. Certo, magari le copie non erano dieci, quindi in qualche caso qualcuno restava a secco, ma nessuno era escluso in partenza dall’ascolto e dall’acquisto. Altrove non era lo stesso.
Ok, Le Disque, però a Verona una scena di clubbing di qualità era praticamente assente… non è mai stata una città facile, per le cose più legate al concetto di “cultura”, soprattutto se cultura contemporanea.
Però vicino c’erano situazioni importanti. Io ho avuto la fortuna di andare spesso al mare a Jesolo, e lì c’era Gemolotto. Ero piccolo: potevo arrivare al club alle 23, ma all’1 dovevo già essere di ritorno a casa. Ma benissimo così, guarda: perché sentire lui che iniziava la serata, che la “costruiva”, che all’inizio non si faceva problemi a suonare anche solo per i baristi mettendo però in campo tutta la sua tecnica, tutta la sua impostazione, beh, è qualcosa che mi ha ispirato parecchio. Sin da quando ho iniziato a fare il dj, per me è sempre stata una gioia fare le all nighter: iniziando quindi a suonare di fronte a nessuno. Io anzi soffro se devo iniziare a suonare di fronte ad una pista già piena. Perché amo costruire le cose con calma, da zero, decidendo io il mood. Comunque ecco, quella di Gemolotto è stata una grandissima scuola. Poi, nel 1992, ha aperto il Mazoom: per me una svolta, potevo arrivare lì anche alle sette della domenica mattina (appena svegliato), tanto si andava avanti almeno fino a mezzogiorno. Gli stessi orari dell’andare in chiesa per la messa domenicale… solo che io andavo a sentirmi Leo Mas, Fabrice e Gemolotto.
Che poi, mi ricordo che ai tempi il Mazoom era visto (anche) come un gran discotecone commerciale.
Eh. Partiva Fabrice, che di solito suonava cose molto downbeat, certi remix degli Orb, le cose più ambient di un allora giovanissimo Carl Craig. Poi piano piano si andava in progressione verso cose più americane, cantati soulful, le dive dell’house. Gran bella musica, con uno spettro stilistico molto ampio.
E’ che in quegli anni mi sa che in molti non si rendevano conto delle differenze tra musica dance di circuiti diversi. Un tempo anche nei posti cosiddetti “commerciali” poteva capitarti di sentire delle perle pazzesche, ricercatissime; cosa oggi impossibile. Oggi ognuno è perfettamente consapevole di quello che fa, ovvero del circuito a cui appartiene, e su quello si regola.
Secondo me negli anni ’90 c’era più di un dj, qui dalle nostre parti, che manco si rendeva conto di cosa stava suonando davvero. Oggi c’è molta più consapevolezza, sono d’accordo. I dischi magari la gente li poteva avere anche prima, ma se chiedevi a uno “Tu cosa suoni?” la risposta era spesso “Metto undeground”, che significava tutto e niente. Si suonavano uno dietro l’altro “Nation 2 Nation” di UR e puttanate commerciali, oppure robe di Morillo: un’insalata che se uno la sente oggi, rabbrividisce. Era tutto molto più naïf. Tuttavia, quando sono andato a suonare per la prima volta al Panorama Bar ho avuto la strana sensazione di sentirmi a casa e di essere tornato indietro nel tempo: mi sembrava di essere tornati agli anni del Movida, a Jesolo. Anche al Movida la gente arrivava vestita strana, mascherata, si divertiva in tutti i modi possibili. Mi è tornata su quell’atmosfera lì. Mi sono divertito tantissimo.
Che impressione ti hanno fatto Berghain e Panorama Bar?
Al Panorama ho suonato tre volte e mi sono sempre trovato benissimo, divertendomi molto, facendo sempre le mie cose, sempre e solo quelle, senza nessuna necessità di cambiare o adattarmi. Al piano di sotto, al Berghain vero e proprio, ci sono sempre stato poco. In generale comunque tutto quel posto mi piace. Uno va lì, si perde nella musica, si dimentica del mondo reale. L’impostazione diversa, quella diciamo “all’olandese”, quella dove sono tutti gioiosi, c’è la birra, la figa, le luci, la musica è sempre “up”, la gente è tutta presa a cercare i brani con Shazam o a scattare foto con gli smartphone, devo dire che la trovo un po’ commerciale. Anche tutta questa musica disco, ora… e guarda, io sono quello che ha portato Sadar Bahar in Italia per primo, nel 2007, quindi non posso essere accusato di essere un nemico della disco; però ecco, certe volte mi sembra che questa cosa della disco stia diventando la nuova commerciale. Al Berghain è diverso. Niente telefoni, poche luci, devi stare concentrato sul suono, sulla musica, se non lo fai è inutile esserci, è inutile andarci. Questo approccio mi piace.
Che poi, ti facevo questa domanda perché se è vero da un lato che il tuo amore per Underground Resistance è cosa nota, è altrettanto vero che viene difficile associarti ad un circuito prettamente techno. Non dico solo come musicista guest, ma proprio come clubber, come attitudine tua personale.
C’è stato un periodo in cui a Londra ho frequentato parecchio i Lost Parties, era tipo il 1997, 1998, c’era Steve Bicknell, c’era Richie Hawtin, c’era Jeff Mills; ok, lo ammetto, io andavo soprattutto per stare nella sala due a sentirmi Kirk DeGiorgio (ride, NdI), ma non è che non frequentassi la sala principale. E’ che a me piacciono più di tutto le melodie: ecco perché per me la techno migliore è quella detroitiana, dove ci sono le texture atmosferiche, le melodie. La techno tutta cruda ed essenziale alla Robert Hood non l’ho mai capita del tutto, anche se un po’ di dischi anche di quel fronte li ho. Però li uso per lo più come tool, durante un set: un intermezzo necessario per allentare un attimo la densità melodica, visto che non puoi stare sempre “up”, devi avere delle parti dove “svuotare” il suono. Anche perché quando mixo, mixo molti brani cantati e spesso mi diverto a mettere in relazione i testi dei pezzi fra loro, le associazioni possono essere insomma testuali più ancora che sonore, quindi per passare un brano all’altro ogni tanto ho bisogno di qualcosa di “neutro” da mettere in mezzo.
C’è stato un periodo in cui eri fortemente associato a Londra.
C’ho proprio vissuto, per un paio d’anni. Lo dicevo prima: un ambiente con le sue regole, le sue gerarchie. Ma anche se eri ragazzino, se andavi lì con l’approccio giusto ti prendevano sotto la loro ala e ti insegnavano molte cose – da come muoversi con la distribuzione a cose più pratiche, legate proprio alla produzione. Prendi Phil Asher: è stato lui ad insegnarmi ad usare l’MPC. Ad ogni modo, dopo un po’ sono tornato in Italia. All’inizio ammetto che ho sofferto. Quando ho fatto il mio album, ho scelto come moniker Isoul8 non a caso: mi sentivo proprio “isolato” da tutto e da tutti, fuggivo da Londra, fuggivo da quegli che erano stati musicalmente parlando gli anni londinesi per me, per tornare alla mia prima passione – Mr. Fingers.
Piano piano le cose sono ripartite, comunque.
Le cose andavano abbastanza bene fino al 2007, poi quando è arrivato tutto il discorso della minimal io ho semplicemente smesso di suonare all’estero, le offerte si sono completamente diradate. Al che mi sono detto: proviamo a fare qualcosa a Verona. Mi sono trovato con un amico, c’abbiamo ragionato un po’ su. Il pubblico a Verona mediamente non è troppo esperto, non è troppo sofisticato: ne eravamo consapevoli. Al che ci siamo detti che la cosa migliore da fare era provare a buttarsi sui classici, sulla disco, cose anche particolari e rare ma comunque facili da seguire anche se non sei un cultore della club culture. E’ così che nasce Garage Paradise. Il nome della serata non era solo e non era tanto un omaggio al Paradise Garage, l’accento in realtà era posto su “garage”, nel senso che comunque si metteva un sacco di musica cantata: c’erano le canzoni, nei nostri set. Abbiamo fatto alcune stagioni molto belle, pur mettendo una musica che non era né facile, né scontata, né di moda. Abbiamo chiamato come ospiti gente come Sadar Bahar, Luca Trevisi, Gino Grasso; ad un certo punto ci siamo estesi anche fino a Bologna. Nel suonare in quelle serate, ho potuto poi usare i molti edit che avevo fatto per conto mio: una pratica a cui mi ero dedicato fin dal 2002, e i risultati poi sono sfociati nella collana “Slam Jam Neroli Edits”. Pratica a cui ho dato un taglio, anche perché ora si stanno raggiungendo livelli ridicoli, si edita qualsiasi cosa si muova. Volevo togliermi la soddisfazione di arrivare al numero dieci come volumi, e così ho fatto, lì mi sono fermato. Oltre a Garage Paradise si sono poi aperte altre due, tre situazioni, e ad un certo punto Dj Deep si era intestardito che voleva fare una serata con me e Theo Parrish, a Parigi: non avevamo mai suonato assieme a Theo, anche se ci conoscevamo dal 1999. La stessa idea è venuta anche ad un promoter tedesco: ci ha chiamati a Berlino, abbiamo fatto la serata, da lì sono successo un po’ di cose.
(Volcov durante la serata al Rex con Dj Deep e Theo Parrish, 2013; continua sotto)
Eh sì, esistono alcune serate che diventano dei punti di svolta…
C’erano un sacco di dj, producer, promoter, quella sera. C’era Hunee (che quando ancora era completamente sconosciuto mi aveva già chiamato un paio di volte ad una sua serata, ed erano state date molto belle); c’era Tama Sumo; c’era altre gente ancora. Da lì sono iniziati ad arrivare vari inviti in giro; nel frattempo poi Ornella Cicchetti aveva deciso di riprendere il progetto di portare avanti un’agenzia, prendendo me e Sadar Bahar nel roster e gestendoci in maniera seria e professionale. Insomma, le cose si sono messe a posto, piano piano. Ti citavo Hunee, ti devo citare anche Antal: pure lui è sempre stato un ottimo dj, l’ho chiamato in Pergola io ancora nel 2001, figurati. Erano gli anni in cui Theo iniziava a suonare molto in giro ed iniziava ad avere uno status di culto assoluto: quindi c’era sempre più gente che voleva sentire lui ma non solo, voleva anche sentire gente che suonava con un approccio simile al suo. Da lì, è capitato sempre più negli anni di sentir suonare Antal o lo stesso Hunee in posti come Brescia o Verona: cosa che per molto tempo sarebbe stata inimmaginabile. Oggi un certo tipo di scena, un certo modo di suonare è emerso completamente, è addirittura overground, ormai. Sono fasi, sono cicli. E’ sempre stato così.
Si rimescolano le carte. Oggi è normale vederti suonare al Dude, che nasce invece come club esplicitamente techno.
Massì, ma anche il fatto che suoni al Panorama Bar. Me l’immagino, che qualcuno avrà detto “Eh? Lui? Ma cosa c’entra? Ma non faceva broken beat?”…
Che ad un certo punto la scena broken beat è diventata, nella percezione comune, una roba da quattro sfigati che non si fila più nessuno, dopo la fiammata d’interessa a cavallo del passaggio di millennio.
Sì, ha avuto un picco d’interesse altissimo, ma poi le cose si sono afflosciate. Anche perché s’è afflosciata pure la qualità musicale: le serate Co-Op erano diventate da un certo punto in avanti praticamente della serate drum’n’bass un po’ bruttine, tanto bassi distorti, pochi cantati, produzioni essenziali e ridotte all’osso. Che comunque, quello che era broken beat in Italia non l’ha suonato nessuno. Per finta, negli anni della moda, l’hanno fatto in molti: ma nessuno suonava quella autentica, c’erano al massimo delle versioni un po’ ripulite e laccate. Io in ogni caso vengo sempre visto come uno che arriva da una scena un po’ “alternativa” ma la verità, lo ripeto, è che io arrivo originariamente dall’house, arrivo da artisti come Ron Trent (…che poi lui ha pure la mia età ma vabbé, ha iniziato giovanissimo).
Ti senti un veterano, oggi?
In generale uno si sente sempre giovane, no? Perché sinceramente, quando hai a che fare con ragazzi di ventiquattro/venticinque anni, ti ritrovi a dire “Eh ma io quando nel 1997 ho suonato lì…” e loro ti guardano e ti rispondono “Io nel 1997 avevo cinque anni”, questo ti fa pensare. Capisci che sì, comunque, sei uno che… mmmmh. Boh, non so. Quando avevo vent’anni io, e andavo a comprare i vinili nei negozi dischi, guardavo arrivare dei dj di quarant’anni e dentro di me pensavo “Ma come, non hanno ancora smesso”…
…ora non solo ci sono i quarantenni che suonano, ma addirittura alcuni quarantenni di vent’anni fa suonano ancora adesso.
Il Danny Krivit della situazione: io c’ho suonato assieme un mese e mezzo fa, è ancora sul pezzo. Probabilmente, più vai avanti più ti dimentichi dell’età che hai. Ad ogni modo sì, ormai di cose ne ho viste succedere, vero; e forse proprio per questo ho maturato come atteggiamento un certo tipo di distacco.
Come vedi il fenomeno improvviso dei festival con un certo tipo di qualità per quanto riguarda la musica dance, in Italia? Hai suonato l’anno scorso a Fat Fat Fat e ci risuonerai ancora, suonerai quest’anno anche a Polifonic: festival dalla line up notevole. Sono realtà nuove, per certi versi impreviste ed imprevedibili fino a pochissimo tempo. Resisterà tutto questo? Si strutturerà? O è solo un momento particolarmente fortunato? Dall’alto del tuo “distacco”, come la vedi?
In Europa i festival di un certo tipo ci sono sempre stati.
In Italia no. Pochissime le eccezioni, negli anni.
Secondo me è un mix di circostanze. Siccome la musica, anche la musica da club, è diventata un lavoro per tanti, oggi c’è molta gente che ci lavora professionalmente. Sono nati nuovi mestieri. A questo, aggiungi che per ragioni meramente climatiche i club in italia lavorano pochi mesi all’anno, d’estate fa troppo caldo. Ecco, metti tutto assieme, fare un festival diventa quasi un obbligo per realtà che sono organizzate, strutturate, e che hanno bisogno di marciare continuamente per stare in piedi. Comunque sì, sono stato a Fat Fat Fat l’anno scorso, ho suonato di fronte a duemila persone: tantissime. Una cosa che solitamente odio.
E’ assurda questa frase, dai.
Eh, io sono uno che preferisce la console bassa, a livello dancefloor e non su un palco; sono uno che vuole l’eye contact con chi sta ballando; voglio insomma un discorso raccolto, intimo. Ma quel festival è stata una sorpresa: era come se tutti gli appassionati di un certo tipo di musica e di approccio che non erano andati al Dekmantel – si svolgeva lo stesso weekend – si fossero dati appuntamento lì. C’era tanta gente, tanta, ma non sembrava di essere ad un festival, dove il pubblico spesso è generico e un po’ indistinto: lì erano tutti attenti, curiosi, vogliosi di ascoltare e di capire, sembrava insomma una serata fra amici anche se eravamo in tantissimi. Vediamo come sarà Polifonic ora: comunque mi pare sulla falsariga di quello che succede in Olanda nei festival migliori. Si vede che in molti sono andati al Dekmantel e sono rimasti scioccati, tentando di espotare un certo tipo di modello anche qui da noi. Ci sono andato a suonare, lì al Dekmantel, ed è effettivamente stato gradevolissimo: c’è spazio per camminare, spazio per ballare, la musica si sente bene, è anche un posto dove potresti portare tua figlia per dire, poi c’è anche il fattore del curfew alle 23 che non è per nulla male. Penso anche per te, no? Se devi recensire un set di un artista che ti interessa, non devi per forza aspettare le tre di notte.
Eh, gli orari iniziano a farsi sentire, ogni tanto. A proposito: secondo te, in Italia, fra promoter ed appassionati di un certo tipo c’è un ricambio generazionale in atto, o siamo bene o male sempre gli stessi da un po’ di anni?
Per me c’è un deciso ricambio generazionale. Ci sono un sacco di giovani.
Ad esempio?
Non voglio fare una lista di nomi, gli esempi comunque sono tanti. Evidentemente c’è gente che deve aver sentito me, e quelli come me, e ha pensato: “Ehi, ma si può suonare anche in questo modo, dentro un club, chi l’avrebbe mai detto. Ora voglio provarci pure io”. Sì: perché in tanti si fanno grandi dicendo di avere questo o quel disco, questa o quella perla, va bene, poi però questi dischi supposti fighi e supposti ricercati bisogna suonarli davvero, in pista, non solo vantarsi fra gli amici di possederli. Sta lì la differenza. Vedo giovani che vengono su bene, che questi rischi se li prendono. Gli manca forse la gavetta, in effetti. Suonano benissimo, hanno dei dischi bellissimi, fanno dei set ottimi; ma oggi basta studiare un po’ un pezzo di set di Antal, uno di Hunee, uno di Theo, assembli tutto, metti insieme le idee migliori, e chiaro che ti viene fuori un bel set. Quando abbiamo iniziato noi, le cose e le conoscenze ce le dovevamo sudare. Andavi a caccia delle copie non solo dei dischi, ma anche dei giornali: I-D e Face si trovavano a Verona in un’unica edicola, e mica sempre!, senza contare che costavano diecimila lire, che all’epoca era un’enormità. Io un giorno mi ritrovai a Brighton, in un negozio di dischi che si chiamava Jelly Jam Records e dove il commesso lo faceva Luke Slater: beh, lui aveva addosso una maglietta della Transmat, era una cosa talmente pazzesca che gli chiesi subito se gliela potevo comprare… Oggi questo tipo di stupore, di meraviglia, anche di fatica nel trovare le cose, non c’è più. E nel non vivere niente di tutto questo, si perde qualcosa. I dischi ad esempio prima di comprarli li ascoltavi mille volte, perché i soldi erano pochi e dovevi valutare bene l’acquisto: in questo modo però una volta che l’avevi comprato lo conoscevi benissimo, praticamente a memoria, e un disco quando lo suoni se lo conosci veramente bene, allora puoi esprimere molto meglio il feeling che emana da esso, sai come valorizzarlo e metterlo in campo al momento e nel modo giusto.
Senti, hai avuto dei momenti in cui ti stavi stufando di tutta questa faccenda della club culture, del fare il dj?
(lunga pausa, NdI) No. Un momento brutto è stato quando Domu ha lasciato: ma è più un discorso di quanto mi dispiacesse la cosa in sé, non ero io personalmente che ero entrato in crisi. Ecco, a metà anni ’90 mi ricordo che mi ero stufato di comprare dischi dance e ascoltavo solo ed unicamente jazz, o cose alla Brian Eno. Per un anno sono andato avanti così. Tra l’altro, il nome Neroli arriva proprio da un disco di Eno che ho ascoltato molto in questo anno di stacco. Un anno che è passato come è arrivato. Poi tutto è tornato normale. Io sono sempre stato contento, e per un motivo molto semplice: ho sempre suonato la musica che volevo suonare, zero compromessi.