C’è a casa nostra una scena viva, magmatica, anche entusiasta, piena di bei talenti; ma è anche una scena la cui musica (per ora) non attrae grandi folle sui dancefloor e non ha (per ora) una popolarità diffusa. Una musica ipertrofica: lo è nel cambiare definizioni (un tempo era “abstract hip hop”… ora questo termine lo usano presumibilmente le nostre nonne), lo è nell’assorbire stimoli dall’esterno in maniera golosa ed “orizzontale” (ad esempio, la fascinazione per gli stilemi pop più crassi del rap americano, fascinazione che ha colpito un po’ tutti quanti – Dj Shadow era un visionario, non un idiota, quando fece “The Outsider”, disco che univa il suo tocco “storico” a quello che all’epoca sembrava impresentabile ed insopportabile hip hop da tamarro americano… sembrava… e forse lo era).
Una scena piena di belle persone, umili, gentili, super-appassionate di musica, che non si trincerano mai – almeno per quella che è la nostra esperienza – in snobismi di genere e in prese di posizione sospettosamente monolitiche, al contrario di molti colleghi di area più dance (curiosa questa cosa che ora tutti ascoltano techno e producono techno-dub, no? Le stesse persone, le stesse!, che prima ti parlavano solo di minimal e al massimo di tech-house… due generi, anzi, attitudini radicalmente all’opposto, se uno ci pensa).
Una scena che deve farsi le ossa. Come tutti. Ma che ha la fortuna di ritrovarsi nella congiuntura favorevole, ora che Flying Lotus e Hudson Mohawke (i due estremi sonori entro cui racchiuderla, probabilmente) sono delle stelle di prima grandezza che muovono pubblico e soldi per davvero. Nella prima data di Hudson Mohawke in Italia noi c’eravamo, a Milano: noi, e altre dieci persone di fronte al palco, presenti lì un po’ per caso. Altro che Kanye West. Le cose, per fortuna, sono cambiate.
Già. Congiuntura favorevole in corso, amici di quella parrocchia musicale lì. Occhio. Oggi a Milano, per fare un esempio concreto, Shlohmo tira più di Steve Bug: l’avreste mai detto, tre anni fa? Giochiamocela bene. Giocatevela bene. Lo diciamo con affetto. Lo diciamo alle persone che hanno partecipato a Beat.it primo volume (pare sia in preparazione un secondo: bene), operazione in cui chi vi scrive è stato coinvolto di striscio (per le note di copertina), meglio dirlo, ma pensiamo di poter affermare che la sua qualità sia oggettivamente alta, riascoltata a due anni di distanza suona infatti ancora attualissima ed assai fragrante; lo diciamo poi a quelle che partecipano a “In Hoc Signo Vinces”, in uscita in questi giorni per la White Forest Records: qui un teaser che presenta tutta l’operazione. Scorrere l’elenco degli artisti presenti in queste due faccende vi dà già una bella panoramica. Fatelo, controllate, ascoltate. Segnatevi i nomi. Merita. Vi vogliamo spingere a farlo, voi, attivamente: ecco perché in questo articolo non troverete elenchi esaustivi già pronti.
Ma giocarsela bene significa? Significa non fare alcuni errori. Significa non cedere alla tentazione della frammentarietà, che spesso sembra pervadere questo genere: tracce brevi, semi-lavorate, non strutturate a dovere. Ok, Madlib fa così, Prefuse faceva così, millemila artisti stranieri fanno così, ma loro se lo possono permettere (e tra l’altro mica sempre, o mica tanto). Significa poi anche non esagerare con la prolificità, tirando fuori in maniera disordinata tracce isolate, EP, remix, partecipazioni a compilation, questo, quell’altro, quell’altro ancora: questo tipo di musica non è musica da dancefloor canonica né ha quel tipo di pubblico, ha un pubblico che ancora ama il formato dell’album e che vuole un discorso di spessore dall’artista, un discorso elaborato ed articolato nel tempo. Capiamo la vostra smania di far sentire subito quello che avete fatto, senza aspettare di avere da parte un corpus complessivo di dieci, dodici brani consistenti, con la paura che nell’attesa quanto fatto invecchi, ma fidatevi: misurarvi su tempi più distesi e sulle distanze lunghe, musicalmente parlando, non può che farvi bene. E non può che fare bene a tutta la scena, dandole un’aura di maggior consistenza agli occhi, giocoforza più distratti, degli “esterni”.
Una scena, lo ripetiamo, con dei talenti strepitosi – il primo che ci viene da citare è Digi G’Alessio (con l’alias Clap! Clap! Se n’è accorta pure la Ninja Tune, arruolandolo per una puntata della serie “Solid Steel”), uno che per noi è una forza della natura a livello europeo, e che se solo si fosse (auto)gestito in altro modo, con più misura, tenendo a freno il suo debordante entusiasmo, ora sarebbe già una stella di prima grandezza, al pari appunto di uno Shlohmo… ovviamente ha tutto il tempo per farlo e per diventarlo. Ma non c’è solo lui, ce ne sono tanti. E a questi tanti auguriamo di non essere costretti a suonare sempre poco e di fronte a poche persone perché non sono riusciti a costruirsi il “profilo” giusto. Come invece oggi ancora accade. Bisogna giocarsela bene.
Non gli stiamo dicendo di svendersi al sistema, “quel” sistema che trasforma in una star da mille/duemile euro a dj set uno che sforna un unico EP purché sia su una delle label che spadroneggiano per Ibiza (ed è un sistema sbagliato, che ha drogato non solo il mercato ma anche la musica e il modo in cui il pubblico la percepisce e fruisce)… il sistema che in Italia per troppo tempo è andato per la maggiore ma che sta iniziando a mostrare le prime, fisiologiche crepe. Gli stiamo piuttosto dicendo di imparare a leggere il contesto, a essere strategici, a capire come valorizzare il proprio talento nel mercato senza tuttavia svendersi. Ad agire insomma con calma, astuzia, consapevolezza. Imparando anche dagli altri. Anche dai meccanismi balearici, o hawtiniani, o discotecari; senza però abbracciarli o andare lì col cappello in mano.
La cosa bella di questa scena è che non arriva da te a lamentarsi “Eh, ma tu non scrivi di me, parli solo di Hawtin, di Guetta, di Loco Dice – stronzo!, venduto!, è colpa tua se io non sono ricco e famoso!”; hanno vivaddio superato questo atteggiamento recriminatorio (anzi: non ce l’hanno mai avuto), preferendo concentrarsi sulla musica. Evviva. Sono tutti complessivamente – chi più chi meno – dei “presi bene”: non se la prendono per le critiche quando li critichi, ti ringraziano per gli elogi quando li elogi. C’è poco narcisismo, grandissima voglia di collaborare (vedi appunto le compile che citavamo sopra). Ecco perché questa scena è “nuova”, al di là ancora dei suoni; ed ecco perché le vogliamo bene. E dovreste farlo anche voi.
Ma con oggettività siamo anche consapevoli che al momento il suo peso specifico e il suo favore popolare è ancora di nicchia. Il che non è un difetto, assolutamente. E’ che secondo noi merita di più, e soprattutto può ottenere di più. Merita di più ad esempio – sempre per portare una storia concreta – il lavoro che stanno facendo al Leoncavallo con la serata Lobo, dove la musica è ad altissima qualità ma dove, soprattutto quando non c’è il guest straniero, si fa ancora fatica a portare tanta gente. Eppure fidatevi che il live di Go Dugong non ha nulla da invidiare a quello di TOKiMONSTA.
Sta sicuramente a noi media seguire con più attenzione questa scena, ma sta anche a questa scena spingere a farsi seguire, imparando a giocare al gioco dei grandi, uscendo dalla propria “cameretta mentale” – facendolo però senza perdere la purezza, l’onestà, l’entusiasmo: si può fare, guardate uno come Four Tet. La convinzione che i gusti delle masse siano forgiati in maniera meccanica da quello che scrivono magazine e siti è sinceramente un po’ troppo sovietica e datata – in realtà sempre più sono fattori che si influenzano a vicenda, ora che l’informazione e la musica circolano in mille modi e ad altissime velocità.
Nuove storie, nuovi modi, nuove musiche. No, non sono tempo noiosi. Manco in Italia.