A volerla prendere sul ridere – e uno dei migliori giornalisti musicali italiani già l’ha acutamente fatto, sul suo profilo Facebook – si potrebbe dire che Clark non ha avuto l’idea più astuta del mondo a uscire con un suo disco “classico” lo stesso giorno in cui Floating Points e Pharoah si palesavano con la loro sortita assieme alla London Symphony Orchestra, rubandosi così tutta la scena. Fuor di battuta, in realtà non è che Clark sia uscito con una label proprio deboluccia: ok che la Luaka Bop di “Promises” ha un suo pedigree, va bene, ma la Deutsche Grammophon di pedigree ne ha in realtà il decuplo. Probabilmente “la” etichetta di musica classica per eccellenza. Hai detto nulla. Quindi ecco: a Clark il supporto non è che in teoria dovesse essere molto minore, se vogliamo buttarla tutta sull’hype e su quanto le etichette discografiche siano in grado di generarlo.
Qui entrano in campo però due considerazioni. La prima è che l’incontro fra un producer di peso in campo elettronico e quella che è la label-simbolo del mondo classico è ormai una non-notizia. E’ infatti dal lontano 2005 che l’etichetta tedesca ha varato, tra lo scorno dei puristi e la soddisfazione del suo reparto vendite, la serie “Recomposed”, che negli anni ha ospitato da Carl Craig e Moritz Von Oswald ai Tale Of Us (o, variando nelle traiettorie, a Jimi Tenor o Max Richter, quest’ultimo acclamatissimo per la sua reinterpretazione di Vivaldi). Ciò che un tempo avrebbe generato un effetto-wow pari a quello di Ricardo Villalobos su ECM (il re della techno minimal nell’etichetta di jazz colto per eccellenza) ormai è invece abbastanza routine. Anzi, la Deutsche Grammophon in questa commistione ci crede ormai così tanto che proprio in questi giorni in tutti i suoi canali ufficiali campeggia la notizia dell’uscita prossima ventura di “Reprise”, ovvero lì dove Moby rifà i suoi grandi successi con l’ausilio di una orchestra magiara, la Budapest Art Orchestra. Ovvero la stessa orchestra che si è messa al servizio di Clark per “Playground In A Lake”, questo il nome dell’album che ha avuto l’ardire di uscire incautamente lo stesso giorno dei Punti Fluttuanti e dei Faraoni.
E’ uscito lo stesso giorno, sì, e un po’ ci si è schiantato contro. Qui infatti arriva la seconda considerazione. Ovvero: crediamo che sia semplicemente per un dislivello qualitativo – per quello, e non per altro – che la release di Clark se la si è filata poco, mentre quella di Floating Points e Pharoah Sanders ha rapito invece tutti i titoli, i post, le discussioni (flame compresi, e ci sta: perché se ti esponi tanto su un disco, e qui lo si è fatto, ci sta che ci siano un po’ di persone che ti dicano “Ma che cazzo stai a di’, coglione”, in una dinamica su cui siamo anche tornati un paio di giorni dopo, parlando poi di tutt’altra musica e tutt’altri dischi). Se “Promises” infatti emoziona e continua a farlo ascolto dopo ascolto, almeno per quanto ci riguarda, “Playground In A Lake” non è certo un brutto disco, quello no, ma non resterà fra i caposaldi di un artista che invece solitamente amiamo parecchio.
La verità è che l’incontro tra elettronica e classica, tra digitale e musica colta contemporanea è una brutta bestia. E’ un po’ come il producer di pop o elettronica da dancefloor che si mette a fare ambient, come chiacchieravamo con Cosmo e Splendore pochi giorni fa: è “facile”. E’ quel tipo di mossa che ti fa fare bella figura (o almeno lo pensi), ti fa passare per colto e preparato, ti permette di arrivare apparentemente ad un risultato suggestivo senza troppo sforzo. Apparentemente. Perché poi, nella realtà dei fatti, spesso hai fatto invece una mezza cagata. E qui torniamo a parlare di Moby e di “Reprise”, così come di Deutsche Grammophon: il disco esce a fine maggio, ma intanto è stato fatto circolare l’antipasto. Sentite la reinterpretazione di “Porcelain”:
Non sappiamo come la vedete voi ma a noi, sinceramente, pare una fetecchia mediamente inutile. L’orchestra c’è, ma viene usata nel modo più scolastico possibile. La traslitterazione in ambito sinfonico di “Porcelain” impoverisce in modo drammatico e quasi imbarazzante la sottile magia dell’originale (uno dei pezzi più belli ed intensi del leggendario “Play”). D’altro canto lo stesso Moby, uno che ormai ha raggiunto lo status di quello che può e vuole dire quello che gli pare, auto-sputtanamenti compresi, ha confessato che lui non ha la più pallida idea di come si dirige un’orchestra e sì, ha fatto un lavoro di riarrangiamento del suo repertorio per “Reprise”, qualcosa l’ha fatto, va bene, ma poi ha consegnato digitalmente le tracce all’orchestra e nemmeno si è degnato di un viaggio a Budapest per interagire con gli orchestrali e il direttore, “…tanto sarei stato di troppo”.
Si sente, caro Moby. E si sente un po’ pure in Clark: perché se da un lato il suo lavoro “classico” su “Playground In A Lake” è infinitamente più valido di quanto fatto su “Porcelain” (sia nei brani in cui c’è direttamente la Budapest Art Orchestra sia negli altri episodi dell’album), è anche vero che non è valido abbastanza a) per strappare un assenso convinto b) per rendere il Clark “classico” migliore o almeno uguale rispetto al Clark “elettronico”.
Non è tra l’altro la prima sortita di Clark su Deutsche Grammophon e, in generale, il musicista inglese già da tempo si era dimostrato affascinato dal percorso più classico/cinematico. Insomma, “Playground In A Lake” non è una bagatella messa in campo per vedere l’effetto che fa ma è qualcosa in cui lui crede veramente. Ma è altrettanto da infilare nel folder “veramente” il fatto che l’uso degli archi e dell’ambientazione classico-contemporanea, così come lo costruisce lui, impoverisce invece di arricchire la sua musica, la sua scrittura da compositore. E’ ancora tarato sui synth, sullo swing digitale, gelido e robotico (e anche irregolare, quando è il caso) che danno le macchine più di quanto riesca a fare musica generata da strumenti tradizionali; e quest’ultima in mano sua funziona solo quando è al servizio del digitale, e non viceversa. Non ha ancora fatto il “salto”.
Lo si capisce in quello che è profondamente l’episodio migliore del disco, l’unico pienamente riuscito: “Entropy Polichord”. Lì sì che il verbo orchestrale è preso e rivoltato in modo acutissimo, creando una specie di andamento inquietante, da insicura ed ipnotica vertigine, in un modo che sarebbe stato impossibile ai soli synth e plug in. E’ qui che Clark trova veramente una “nuova dimensione” artistica, facendo intravedere enormi potenziali in questo suo nuovo percorso verso una musica più “seria” nel senso di sinfonica e meno IDM anni ’90 (o da gelido cantautore digitale, perché in Clark c’è pure quello: ci sono alcuni episodi di “Iradelphic” che sono strepitosi).
L’onda d’ispirazione che percorre “Entropy Polichord” è come se arrivasse a lambire anche le successive “Aura Nera” ed “Already Ghosts”, a scorrere la tracklist, spegnendosi però progressivamente. “Earth Systems” un po’ si ripiglia, ma infine è con “Emissary” che emergono i limiti nitidi di questo album: è un po’ la canzone-simbolo dell’LP per vari motivi, ma legnosa è la parte vocale, trattenuta è la scrittura, così come didascalica è l’unione di attitudine elettronica ed attitudine classica. Allo stesso modo, scorrendo invece dietro con le tracce, brani come “More Islands” o “Disguised Foundation” mostrano chiaramente come Clark nella sua testa abbia ancora vecchi automatismi compositivi, che però applicati alla veste sonora “sinfonico-elegante” rendono tutto più debole, meno accattivante, meno sinistramente seducente. Forse solo in “Citrus” c’è un take affascinante sul minimalismo pianistico contemporaneo, coi “tagli” al punto giusto. Lì sì. Ma da un artista bravissimo e preparato come Clark vogliamo e ci aspettiamo di più, non bastano due tracce super su sedici.
Insomma: se ha avuto sfiga a fissare come release date la stessa del chiacchieratissimo “Promises” sfornato dal giovinetto inglese occhialuto e della vecchia lenza del jazz americana, è anche vero che Clark non ha fatto abbastanza per aggirare e superare questa sfiga. Non tutti i dischi sono capolavori o comunque lavori interessantissimi. Anche quando sulla carta avrebbero tutti gli elementi per esserlo. Talvolta ci si deve accontentare di dischi buoni, e purtroppo perfettibili.