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[tab title=”Italiano”]La prima volta che sono venuto a contatto con Nonclassical ricordo di aver passato un po’ di tempo a chiedermi se quello che stavo sentendo fosse in realtà il suono di un violoncello o di un synth ben programmato. Scorrendo le note, ho scoperto che il concept consisteva nel ricreare un suono artificiale da quello che usciva da un violoncello vero. Questo è il processo che ha spinto Gabriel Prokofiev, nipote del celebre compositore russo Sergei Sergeievich Prokofiev (tutti abbiamo sentito almeno una volta questo pezzo), a fondare nel 2004 l’etichetta londinese, che successivamente si è sviluppata anche in una nuova forma di clubbing. Lo scopo della ricerca all’interno della label è di affiancare in maniera quasi provocatoria un’elettronica ben radicata nella contemporaneità con un repertorio classico – o ‘colto’ come preferite chiamarlo – invitando ensemble, quartetti d’archi, DJ producer ad interpretare e quindi reinventare composizioni classiche d’avanguardia. Per capirci meglio, un po’ come se l’Ircam portasse alcuni dei suoi concerti durante l’Atonal (cosa che in un certo senso già accade). Curiosi di comprendere meglio cosa avesse in mente, Gabriel ci ha spiegato la sua personale visione della musica contemporanea e dei nuovi orientamenti in ambito classico quanto elettronico per il futuro, arrivando alla conclusione che sì, questo pare essere il momento migliore per un cambiamento radicale.
Dopo oltre dieci anni di attività, come si presenta la label oggi?
Sono stati anni di intenso lavoro, ma anche di costante ricerca, scoperte e sperimentazione. Il concetto di base della label è di pubblicare nuova musica di compositori viventi, oltre alla parte importante che dedichiamo ai remix. Ci interessa in particolare scoprire giovani producer e musicisti di frontiera che lavorino su remix delle composizioni contemporanee. Ciò che rende Nonclassical una realtà unica è la volontà continua di cercare musica nuova, ma non nel senso accademico e tradizionale della musica colta. Per ‘nuova’ intendo aderente alla contemporaneità e connessa con il mondo reale. Mentre con i remix ci spingiamo oltre, mettendo in connessione quel repertorio con quello che accade nel mondo dell’elettronica, dai club alla produzione. Continuiamo quindi a ricercare nuovi suoni e direzioni alternative, spingendoci oltre i limiti comunemente imposti. Ripensandoci, il progetto Nonclassical è stato avviato forse nel momento peggiore che stava attraversando l’industria musicale. Siamo partiti con tre release su vinile proprio quando si è verificato il crollo del mercato. Abbiamo ripiegato pubblicando su CD, pensando che alla fine saremmo comunque andati in perdita e che avremmo dovuto invece dedicarci esclusivamente al digitale. Ora in realtà abbiamo appena pubblicato un nuovo vinile, essendosi nuovamente imposto sul mercato. Inoltre come staff, abbiamo Daniele [De Nardo] che ha molta esperienza della scena elettronica e finalmente anche un nuovo manager. All’inizio ricoprivo personalmente quel ruolo in qualità di fondatore, ma ho dovuto delegare un’altra persona, occupandomi ora principalmente di composizione. Anzi, a volte temo di aver rallentato il lavoro, non avendo effettivamente abbastanza tempo per fare ricerca e conoscere nuovi musicisti. Ammetto anche che in alcune occasioni non abbiamo avuto le risorse economiche o umane per promuovere le nuove uscite, per quanto di valore artistico. Ora invece, con una nuova organizzazione interna, sono convinto che saremo molto più presenti nel panorama attuale, che si presenta oggi più competitivo che mai. Un tempo i negozi di dischi accettavano quasi tutte le proposte, mentre oggi si trova a fatica spazio per quello che realizziamo.
Quando avete cominciato dieci anni fa il pubblico era pronto a recepire queste idee? Oggi in effetti il pubblico dell’elettronica sembra avere estrema necessità di un senso di nuovo e di sperimentazione verso territori ancora inesplorati.
Sono d’accordo, quando abbiamo avviato la label ero convinto che il pubblico fosse là da qualche parte, mentre oggi mi rendo conto che quel pubblico è cresciuto e rappresenta una base solida. Magari sono troppo ottimista, ma è evidente che le condizioni siano cambiate. C’è un motivo ulteriore e cioè che la musica dance sembra aver esaurito quella componente di innovazione che aveva anni fa, quindi molti vogliono che ritorni quello stimolo ad innovare, che dica qualcosa di nuovo e che si spinga anche oltre il dancefloor. Ora è esattamente il momento di andare oltre, essendo anche il pubblico pronto a ricevere una buona dose di novità.
È stato difficile all’inizio far capire di che cosa si trattasse il vostro progetto? Mi rivolgo in particolare alle serate organizzate da Nonclassical, quando, dopo un performance per così dire ‘classica’ si passa ad un set elettronico. Non c’è il rischio che il pubblico si senta un po’ spaesato, che non sappia dove/come collocarsi?
All’inizio le serate Nonclassical avevano cadenza mensile e si concentravano in particolare sulla performance ‘classica’, solo dopo abbiamo aggiunto un DJ set nella seconda parte curato da me o da uno dei resident. Il pubblico sembrava apprezzare molto questa scelta, che creava immediatamente una nuova atmosfera nella sala con qualcosa di non convenzionale e comunque di insolito come può essere il rework di un concerto di musica contemporanea. In questo modo portavamo in un contesto di clubbing sonorità di altri mondi musicali. Il risultato è che si ottengono suoni elettronici dagli strumenti tradizionali che nessuno si aspetterebbe di sentire. Tutto ciò ha creato molto interesse nel pubblico, specialmente della fascia più giovane, che rappresenta quella a cui ci rivolgiamo. È capitato che qualcuno del pubblico più adulto e magari più abituato ai concerti tradizionali ci chiedesse cosa stesse succedendo quando compariva il DJ. Per loro la musica era troppo rumorosa e slegata da quello che l’aveva preceduta e abbiamo dovuto quindi spiegare che quello era esattamente il concept della serata. A parte qualche caso simile, diciamo che la risposta è stata sempre ampiamente positiva. Da quattro anni inoltre gli eventi più grandi si svolgono al XOYO nel quartiere di Shoreditch, dove abbiamo invitato ospiti come JD Twitch di Optimo, che ha curato un set eccezionale che esplorava le origini dell’elettronica minimale. Era una serata in cui la prima parte ruotava attorno al minimalismo di compositori come John Adams, Louis Andriessen e Steve Reich, terminando magistralmente con il set di Keith.
Se pensiamo anche agli albori della musica elettroacustica all’inizio non esisteva separazione tra repertorio colto e pop, tutto era sperimentazione affine. Ora pare che sia necessario un approccio più globale alla contemporaneità, cosa che invece è mancata almeno fino a qualche anno fa, no?
Pare di sì e penso che sia ottima cosa, soprattutto considerando che la musica elettroacustica e la produzione elettronica contemporanea sono rimaste nascoste troppo a lungo, forse anche più della musica strumentale. Ma sapevo che si sarebbe creato un pubblico col tempo; ricordo i primi concerti di elettroacustica, mi rendevo conto che tutto ciò avrebbe funzionato benissimo anche per l’elettronica ma all’inizio c’era pochissimo pubblico. Ora fortunatamente la dimensione è completamente cambiata, aprendosi in maniera significativa.
Pensi che sia dovuto anche ad una questione di libertà creativa rispetto ai canoni imposti dalle forme classiche, come anche da quelle della musica dance, che comunque devono avere scopi ben precisi e che quindi alla fine rischiano di finire in compartimenti stagni?
In realtà tutte le forme hanno qualche rigidità, ma trovo che dall’altra parte ci sia stat un’enfasi eccessiva per inventare costantemente qualcosa di nuovo. Una sorta di obbligo dietro cui in realtà si nasconde una falsa idea di novità, in particolare per quanto riguarda la produzione elettroacustica e tutta quanta la musica scritta. Quindi alla fine tutto suona uguale, è facile seguire l’ultima tendenza, riproponendo sempre gli stessi suoni e a volte, per dare un senso di originalità, si cerca di inventare qualcosa di indefinito in termini di struttura o di impianto armonico. È un metodo che funziona in particolare anche con la composizione atonale, nel senso che è relativamente facile ottenere qualcosa di vagamente indefinibile, che fa apparire il risultato più sofisticato e complesso di quanto realmente sia. Quindi sì, a volte è una tendenza, una vera ossessione a scovare qualcosa che suoni diverso, mentre in realtà l’attenzione dovrebbe essere rivolta a suscitare emozioni quanto a stimolare l’intelletto. Essere originali è certamente importante, ma è fondamentale saper comunicare un’idea e stabilire una connessione con l’ascoltatore. Quindi penso che la funzionalità di scrivere musica dance sia di grande aiuto. Il pubblico della classica è invece troppo passivo e rispettoso nei confronti dell’esecuzione. Durante gli appuntamenti di Nonclassical è interessante notare la reazione del pubblico quando una performance non incontra grande interesse, le persone iniziano a dirigersi verso il bar, a parlare e a distrarsi. Potrebbe anche sembrare scorretto, ma in realtà costituisce un giudizio chiaro sull’esecuzione e sulla composizione. Questo è molto importante, secoli fa era normale anche per la musica classica, quindi è essenziale che i due mondi comunichino tra loro. Per quanto riguarda la scena elettronica, trovo che sia troppo compressa in generi e trend, quando certi suoni diventano di moda, allora tutti devono seguire quella stessa direzione. In questo senso ci dovrebbe essere maggiore libertà, prendendo spunto dalla classica. Quest’ultima invece dovrebbe essere più consapevole del pubblico. Perché per un pezzo dance lo scopo è magnificamente semplice: avere una struttura funzionale al movimento del corpo. Alcuni usano il pretesto della libertà incondizionata del compositore, senza prendere in considerazione gli effetti della musica su chi ascolta, però alla fine ricordiamoci che scriviamo musica perché sia recepita! Tutta l’arte è comunicazione, quindi perché si dovrebbero passare ore per finire un brano orchestrale se poi non vogliamo comunicare con il pubblico? Questi compositori dovrebbero essere meno arroganti e pensare di più a chi hanno di fronte.
Facciamo ora un passo indietro per scoprire il percorso che ti ha portato alla nascita della label. Da dove sei arrivato esattamente, dall’ambito tradizionale o passando per l’elettronica?
Ho percorso entrambe le strade in realtà. I miei genitori erano entrambe artisti figurativi, mio padre era pittore e scultore e mia madre pittrice ed arte-terapista. Mio padre è cresciuto in Russia, ma si è trasferito in Inghilterra cercando di costruire la propria carriera lontano dalla figura incombente di suo padre. In questo senso non sono cresciuto esattamente in un contesto dove si ascoltava o si eseguiva musica classica, contrariamente a quanto molti potrebbero pensare. Ho poi seguito lezioni di pianoforte come tanti altri e ho studiato musica a scuola, suonando il corno in orchestra e cantando in coro. Mi piaceva molto anche se poi a dieci anni ho iniziato a scrivere canzoni pop e a fare concerti, ma i due mondi rimanevano comunque separati. Dopo mi sono interessato ai sintetizzatori, a dodici anni ho preso un DX100 e ho imparato le basi della sintesi FM. Ero veramente preso da queste cose e ho poi deciso di studiare alla Birmingham University che aveva un ottimo dipartimento di musica elettroacoustica e una sala chiamata BEAST (Birmingham ElectroAcoustic Sound Theatre) con un eccezionale impianto multi-speaker. Ho quindi imparato ad utilizzare software come Pro Tools e le fondamenta dell’elaborazione del suono con un insegnante importante come Jonty Harrison. Ero molto contento di approfondire il repertorio elettroacoustico in quanto era a tutti gli effetti considerato un processo compositivo anche se non dovevo preoccuparmi delle grandi questioni attorno alla tonalità e alla struttura armonica. Potevo sperimentare liberamente con il suono e basta, cosa che mi faceva impazzire! Ho poi seguito un master in composizione elettroacoustica alla York University ma ad un certo punto mi sentivo ingabbiato nell’ambiente della contemporanea, troppo distaccato dalla realtà. Con alcuni colleghi abbiamo quindi creato nerve8, una formazione con cui realizzavamo progetti di sonorizzazione in spazi non convenzionali come gallerie d’arte e locali, cercando di aprirci ad un pubblico nuovo. Dopo il diploma ho deciso di ritornare con una band electro punk-funk chiamata Spektrum con cui avevamo firmato un contratto con la Playhouse e prendendomi quindi una pausa di almeno tre anni dal resto. In quel periodo ho lavorato esclusivamente come producer, muovendomi tra tastiere, synth e sampler. Mi sono poi spostato sull’hip hop, come rapper nel quartiere di Hackney a Londra. Nel 2003 ho incontrato una violoncellista mia collega a York, che mi ha chiesto a comporre un brano per l’Elysian Quartet: quel quartetto è stata poi la prima uscita di Nonclassical. Un occasione per ritornare alla musica classica, anche per quello che dicevamo sulle possibilità creative e per liberarsi da una serie di vincoli. Sentivo la necessità di una maggiore libertà, senza dover rientrare per forza in uno stile specifico. A dire il vero con Spektrum eravamo abbastanza autonomi, ma quando ho sentito persone che chiedevano di adeguarci a delle sonorità più facili per la radio, allora ho capito che dovevo cambiare strada per avventurarmi dove mi era concessa libertà di azione. Ho passato quindi i cinque anni successivi vivendo una doppia vita: da un lato come producer, suonando con Spektrum e come rapper e dall’altro scrivendo musica classica.
A proposito di vincoli e tonalità, fa strano se pensiamo che per secoli la musica occidentale si è mossa cercando soluzioni all’interno del sistema tonale oppure studiando qualsiasi modo possibile per eliminarlo. E oggi le cose non sono cambiate moltissimo…
Il mio parere è che in un certo periodo c’è stata una sorta di ossessione attorno al concetto di tonalità. Oggi dovremmo ormai averlo superato in quanto abbiamo a disposizione molte altre soluzioni e sistemi per esprimere quello che vogliamo dire in musica. In sostanza penso che se decidiamo di muoverci all’interno di un linguaggio tonale e magari anche modale, questo non sia esattamente un problema, come anche se preferiamo abbandonare quei territori per sviluppare altre forme. E i compositori non dovrebbero preoccuparsi di aderire a questo o quel sistema, sarebbe cosa da pazzi, come tornare indietro di 150 anni e pretendere che si possa scrivere in una sola tonalità. Considero tutte queste come possibilità e nient’altro. Abbiamo una storia musicale formidabile alle spalle, c’è stata una sperimentazione enorme e oggi possiamo fare tesoro di tutte queste esperienze e cercare le zone ancora inesplorate.
Penso che sia anche la questione alla base di due uscite che possiamo prendere come riferimento dell’estetica di Nonclassical, parliamo di Cello Multitracks e della più recente Klavikon, dove avviene chiaramente quel contrasto tra suono reale e digitale.
Ricordo che nel periodo in cui mi sono dedicato esclusivamente alla musica elettroacustica, l’aspetto di cui sentivo maggiormente la mancanza era proprio l’elemento umano. Intendo dire che è sempre interessante ascoltare musica ‘meccanica’ da qualsiasi dispositivo, ma durante una performance live è importante che non ci sia solo un DJ a schiacciare play o a fissare un laptop. Dal suono acustico si ricava una ricchezza di armonici imparagonabile, quindi penso che sia interessante scoprire come accostare questi due mondi sonori in maniera direi avventurosa. Questo è in sostanza il processo adottato con Cello Multitracks e per i quartetti per archi che ho composto. Attraverso la componente elettronica, usando sequencer come l’MPC o la 909 o programmi come Logic e Cubase, abbiamo lavorato su un approccio completamente nuovo alla struttura ritmica, approccio che non è mai esistito finché non abbiamo avuto a disposizione la tecnologia necessaria. In questo senso ritengo che questo approccio ‘meccanico’ sia di notevole interesse, in particolare dopo anni di continua evoluzione oggi possiamo portare quelle idee all’interno di un contesto acustico, capendo come adattarle alla nuova situazione e muovendoci con un’intento quasi post-elettronico. Anche la produzione contemporanea ci ha aperto prospettive nuove sul suono, pensiamo ad esempio a Jimi Hendrix che con la chitarra elettrica è riuscito a creare un universo sonoro completamente sconosciuto prima. Con Cello Multitracks ero interessato a scoprire quali nuovi tipi di suoni sarei riuscito a tirare fuori da uno strumento come il violoncello e ho realizzato che si possono ottenere sonorità e bassi ancora più pieni di quelli di un synth, decisamente più mordenti. E ancora quando è un essere umano a suonare quei ritmi meccanici, c’è sempre una minima dose di imperfezione che rende il tutto molto più reale e comprensibile; dobbiamo quindi lavorare in questo modo per fare uno step superiore. Leon [Michener] ha fatto la stessa cosa con Klavikon, portando l’elemento umano sulla componente meccanica. È attraverso queste finezze e tutte queste nuances che possiamo avviare un grande cambiamento. La stessa cosa vale anche per la dance e tutto sta nel calore umano che si può ottenere anche suonando lo stesso kick per ore. L’altro aspetto sta nella fonte sonora, utilizzando strumenti classici come un pianoforte o un violoncello al posto di un oscillatore – che sia un plugin o un synth – si possono ottenere sonorità molto più complete, profonde e a volte anche delicate, in pratica una palette nuova di strumenti e possibilità. Abbiamo una regola assoluta in Nonclassical, vale a dire che per i remix non si possono utilizzare altri suoni di partenza che non siano quelli registrati in presa. Quindi se qualcuno vuole aggiungere una drum rack, non potrà usare un set di strumenti virtuali o dei preset, ma dovrà ricavarli dal suono del violoncello o del quartetto d’archi che sia. In Cello Multitracks c’è un piccolo strappo alla regola, in quanto Tim Exile ha utilizzato dei suoni più tradizionali di drum machine, ma ad esempio la potenza della parte ritmica del remix di Marks Lancaster arriva interamente dall’elaborazione dei suoni del violoncello, che contribuisce a dare una sonorità più organica all’insieme.
Dal momento che hai vissuto in maniera approfondita entrambi gli ambienti, pensi che anche i musicisti classici dovrebbero avere un orecchio rivolto al dancefloor? Sapere cosa accade in quelle situazioni e viverle può essere d’aiuto anche per interpretare musica scritta oggi, anche se per intenti diversi? Bisogna dire che si sta affermando un’intera generazione di musicisti e producer che hanno avuto le più diverse esperienze quindi magari…
Penso che sia molto importante che anche loro siano a conoscenza dei vincoli funzionali di un certo genere. Dagli anni ’60 soprattutto per i compositori c’è stata questa tendenza ai limiti dell’arroganza per cui qualunque cosa venisse in mente, anche la più folle, la si doveva realizzare. Cosa che non ritengo fosse positiva né tantomeno necessaria. Se concedi totale libertà, difficilmente otterrai i migliori risultati, mentre se poni delle restrizioni a cui si deve trovare una via di fuga, allora diventa una sorta di sfida. Quindi è fondamentale per i compositori pensare per quale situazione stanno scrivendo, come ad esempio scrivere musica per il dancefloor. È qualcosa che accadeva normalmente più di duecento anni fa, quindi non vedo perché non potrebbero farlo anche oggi! Per un periodo avrei voluto curare un progetto in cui avrei messo insieme compositori accademici perché lavorassero insieme ad un album prettamente dance. Anche lo Smith Quartet ha pubblicato Dance, un album di brani commissionati a compositori che scrivessero però musica dance, per cui anch’io ho scritto un pezzo [Bogle Move] influenzato dalle forme di danza jamaicana. Quindi per tornare alla domanda, penso che anche gli interpreti dovrebbero osare di più e sentirsi a proprio agio con musica che richiede più groove. Ma è vero anche che ci sono sempre più giovani musicisti che conoscono molto bene il mondo dell’elettronica e del dancefloor; me ne accorgo in particolare con i miei brani orchestrali, sento che c’è una risposta diversa e questo è sicuramente un segnale del cambiamento.
Sicuramente! Quindi se da un lato portiamo un pubblico nuovo a conoscere la produzione contemporanea in contesti più easy e meno istituzionali e dall’altro abbiamo sempre più musicisti che masticano anche altra musica e non sono spaventati ad esplorare nuovi territori, questo magari porterà alla nascita di un nuovo linguaggio musicale?
Ne sono convinto, ci sono stati così tanti sviluppi interessanti negli anni passati che oggi possiamo mettere tutte queste novità insieme e vedere cosa otteniamo se dal loro incontro e quali innovazioni ulteriori possono nascere. Sicuramente la prossima ondata di novità avrà molto a che fare dall’incontro di questi due mondi apparentemente lontani, anche perché possono trarne reciproci benefici: la scena elettronica può imparare molto dalla carica emozionale della classica, mentre questa può sfruttare l’approccio dell’elettronica per ritornare nel mondo reale.
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[tab title=”English”]When I first got to know Nonclassical I was wondering if the sound I was listening to was coming out of a synth or a cello. As I looked in the liner notes I found out the idea was actually to create an artificial sound from a real instrument. A sort of personal research carried on by Gabriel Prokofiev, grandson of 20th century Russian composer Sergei Sergeievich Prokofiev (bet you’ve heard this one at least once), who in 2004 started his own label alongside a renowned (non)clubnight in London. The aim of Nonclassical is to showcase challenging music rooted in the contemporary electronic scene as well as modern classical ensembles interpreting pieces of advanced classical music. For the newcomers think of something in-between Ircam concerts staged at Berlin Atonal festival and you somehow get the picture. Read on as we’ve sat down with Gabriel learning his views over today’s thrive of a new orientation in both dance and classical music, considering his experience with running the label and coming to the conclusion that if we want a change, then this seems to be the right time.
It’s more than a decade since you started the label, can you tell us where does it stand now and what all these years have meant to you?
Well, I suppose it’s been a real journey of love for music and of experimentation and discovery. The whole idea of the label is to release really exciting new classical music from living composers. But a very important aspect is then the side of the remixing: so it’s about finding adventurous young producers and other electronic composers who then work on remixes of the contemporary pieces. And that kept the label very unique. It’s always been about looking for new music – I and other people working for the label have found – that somehow wasn’t the typical academic music of the classical tradition. And to me it means music that I would call relevant or truly contemporary in the sense that is connected with real life and not contemporary in the way of an academy or a conservatoire. Then with the remixes we go a step further and we connect back music with what’s happening in clubs, studios and in the whole electronic scene. So the label is really about looking for new directions and new sounds, really trying to push boundaries. And that has just carried on. I probably started the label at the worst possible time in terms of economics of record labels; at the beginning we did three vinyls but then straight away we stopped because the market was collapsing. And sometimes there’s a lot of pressure, so we made some CDs of the albums but then we thought we’ve had just lost a lot of money and that we should have just done digital. But we always wanted to have nice releases, we did like to have a good CD. And actually now we’ve released our first vinyl again because it is kind of having a bit of a renaissance. Then there is Daniele [De Nardo] who has a lot of experience in the electronic scene as well so he’s bringing new energy to the label. We also have a new director of Nonclassical, because I was founder and director but I’m very busy as a composer and sometimes I’ve been probably slowing things down because we needed to do more research on new albums and I was just busy with some other work. Now we have a new label manager so I think after the first 10 years we should actually be releasing more and having a stronger presence. I’m so proud of what we’ve released but sometimes I think we didn’t have the capacity – like the manpower or the money – to promote it as well as we want it. It is more competitive than ever, in the past you had so many small shops that will stock everything and now even if the whole record shop business is coming back at the moment, unfortunately there’s not as much shelf space for what we’re doing.
Back then did you feel the audience was ready to accept this kind of new ideas? Now the overall club music world is asking for something different, that is really forward-thinking, but what about then?
When I started the label, I believed that the audience was out there but 10 years later now it feels like that kind of audience is developing more and is becoming stronger. Maybe I was too optimistic at the beginning but it feels like things are changing. Especially partly because the dance music itself seems to be less stylistically innovative than it was 10 years ago. Then a lot of people want something different so now they’re looking beyond the dancefloor to things that are more challenging. So yes, we are definitely in a time when there’s a good audience response!
What about Nonclassical nights, like hosting a classical performance and right after an electronic club-oriented set, could it be kind of disorienting from the audience side? Even if now there’s a whole new generation who is thrilled to look deeper into this kind of experiences…
Actually in the early Nonclassical nights we did a monthly series for a long time when we often focused more on the classical performances and then there was the DJ. People always loved the DJ part – could it be me or some of the other residents – because it just instantly creates a different atmosphere through the gig, something you don’t hear anywhere else really. With these remixes of contemporary classical something that’s quite production-wise sounds what you might hear in a club in terms of the power of the bass and some of the sounds. But suddenly with harmonies and with classical instruments that you really don’t expect to hear. I think that’s always been popular with the public, especially because we are going for a younger one. Maybe once or twice we’ve had some older more traditional people, some of them said “Really, why do we have to have this music in-between performances? What’s going on? It should be quiet, it’s too noisy!” and I just had to say “Well, this is how we do the night.” But normally we’ve always had good response. And then about four years ago we did some bigger events in XOYO club in Shoreditch where we invited some guest DJs. Like we had JD Twitch from Optimo, he did an amazing set looking at the real origins of minimal electronic music. Everybody loved it, it just worked so well! Before we had some John Adams’ and Louis Andriessen’s classical minimalism and some Steve Reich as well, then Keith just ended the night beautifully. And I think that’s when your point is correct then: there’s a whole generation now that grew up with DJs and dance music, so it’s very natural. And even the older generations, they have kind of given in because that culture has been around for too long now that it’s part of them, too. So when you mix that with more challenging contemporary music you have a really exciting night.
Also let’s say with electroacoustic music at first there was no split between art and pop, they were all part of the same stream. And now it feels like there’s a renewed approach to contemporary culture in a thorough way, something I think lacked in the last years. So for example ‘regular’ concerts and live electronics sets can go side-by-side now.
Well I think it’s great and you’re right, especially electroacoustic music and – let’s say – modern contemporary electronic music have really been hidden away in the shadows, even more than instrumental music. But I always believed there was a good audience for that and I remember my first experiences, going to electroacoustic concerts and thinking “This is really incredible, this really ties into the whole electronic music!” But there was no one there, like nobody knew about it. And now hopefully it’s opening out more and that’s great.
Do you think it’s also a matter of creative freedom? No doubts classical forms are strict and if you consider dance music alike has to fit in determined standards in order to drive the dancefloor through different moods.
Well, they all have their strictness, on one hand there’s this emphasys always trying to find something new but sometimes with electroacoustic or with written music there’s a false idea of newness and actually there’s a lot that’s very similar. People fall into a trend, certain sounds become fashionable and then to create this feeling of modernity often they try to make something structurally or harmonically vague and kind of slippery. And that’s the magic with music that’s completely atonal as well: depending on how you use it, you do have something you never quite grasp, so therefore it makes it feel more sophisticated and more mysterious than perhaps it really is. So sometimes I think there is some sort of fashion, almost an obsession in trying to sound supernew. Being original or complex becomes essential but I think the real focus should be about the emotional connection as well as the intellectual stimulation when communicating an idea. That’s why most people are moved to music. So I think the practicality of having people dance or trying to deal with an audience who’s less obedient can be of help. Classical audience often is so submissive and even if they don’t like the piece they still clap – they are sort of overly polite.
And what I’ve found in Nonclassical nights which has been really nice is that when the piece of music becomes less interesting to the audience, you can feel it in the room. Because people start going to the bar, some people start talking quietly. And you can say that’s rude and people shouldn’t behave like this in a concert but that actually forces judgement on the performance and on the composition. And it’s something extremely important! In classical music that used to be normal, so it’s essential for the two worlds to communicate. I think a problem with a lot of the dance scene is it’s so genre and trend driven, so you get a certain sound and then everyone has to follow. The dance people can be much more free with their structure and take that influence from the classical world. But then the classical world could perhaps be more mindful of the audience. Because there’s a brilliant thing about the dance tune: you have to make sure you’re going to build up everything works for a human body. Sometimes you can use the excuse of being a free artist and do whatever you like to completely disregard the effect of your music with the audience, but we are composing for other people! Art is all about communication then why would someone spend so many hours finishing an orchestral score and work all their career if they didn’t want to communicate their music to an audience? Then they need to think about the audience and not being arrogant.
Now let’s go back in time and learn something about your background. How did you get to all this, did you started with classical music composition or rather was it through DJing and electronic production?
Well it’s kind of both to be honest. My parents were both visual artists – my dad was a painter and a sculptor, my mother painter and art therapist. My dad grew up in Russia but he moved in the UK and he was himself establishing his own career as a painter and a sculptor, kind of trying to escape the shadow of his father. So I think I didn’t grow up in a very classical music setting really – I sometimes think people may imagine I was among all these Russian musicians and sort of very much in the classical world. Obviously I took piano lessons, as a teenager I studied classical music at school, playing the french horn in the school orchestra and singing in a choir. I really loved it, but when I was 10 I started writing pop songs. Also as a teen I was playing pop gigs a lot and I was really into that but the two worlds were separate, really. I became then interested in synthesizers, I got a DX100 when I was 12 and learned how to program FM synthesis. I was all in that side of things but then I decided actually to study classical music and went to Birmingham University which had a really good electroacoustic department and and this hall called BEAST (Birmingham ElectroAcoustic Sound Theatre) with an amazing multi-speaker diffusion system. There I learnt how to use Pro Tools and basic studio sound-processing knowledge with a very good electroacoustic composer, Jonty Harrison. I really liked to make electroacoustic music because it was considered composition but I didn’t have to worry about the big issues in contemporary classical of tonality, harmony and I could just play with sound. That really freaked me up! Then I carried on and did a master in electroacoustic composition in York University but I felt so frustrated with the contemporary classical scene, it was so detached from most people’s lives. A few of us formed a group called nerve8 and we did electroacoustic diffusion in unusual spaces like art galleries and cafès trying to reach new audiences. Anyway when I finished my degree I then decided to go back playing in a band and then I spent a full three year break with Spektrum, which is sort of an electro punk-funk band. We signed to Playhouse and then I was working as a producer doing gigs playing keyboards, synths and samplers. Then I got into hip hop as well, producing MCs in Hackney. Just in 2003 is when I met a cellist I knew from York University and she invited me to write a string quartet for the Elysian Quartet and that became the first release on Nonclassical. Then I got back to classical music again, because of certain things as we were talking about the restrictions of the structure. I wanted to feel freer, without having to fit into a style. With Spektrum we were pretty free in our approach but then we would find people saying “You’re really good but it’s not quite radio-friendly, you have to do like this, like that..” and I felt “What the hell!” In classical music people want me to be more adventurous so when I went back I lived about five years of a double life on one hand still working as a producer, playing with Spektrum and producing different rappers and composing classical stuff on the other side.
Speaking of restrictions and tonality, it’s odd because if you think that for centuries our relationship with music has been all about finding ways to play around or to escape from tonality. And we are still there…
Personally my opinion with tonality is that there’s certainly been a period when there has been a bit of an obsession about that. We are kind of through that now and we just have more options before us over what we want to express with some music. If we want something to have some kind of tonality or modality that’s not a problem, but then if you decide to leave that ground because that might express an idea better, that’s fine too! And I think it’s crazy for composers to restrict themselves, it’s like going back 150 years and pretending to write only in a key or only in the Dorian mode.. Actually I think these are just all options. We’ve got this incredible music history behind us, there’s been a lot of experimentation and now we can look back into what has been experimenting and there are still lots of interesting areas that haven’t been explored.
I think that’s the point with a couple of releases we picked up as symbolic. I’m talking about Cello Multitracks and Klavikon where the contrast between ‘real’ and ‘crafted’ digital sound is definitely well-represented.
When I was doing purely electroacoustic music I really enjoyed it but I realised I was missing the human element – this is the continuing problem with electronic music. I mean it doesn’t matter if you’re listening at home, on your iPhone or whatever, there’s a joy in ‘mechanical’ music but when you start doing live performances it’s really nice when it’s not just a DJ pressing play or staring at a laptop. Obviously with acoustic sounds you get all this richness of tone so I think it is very exciting to see how we can bring those worlds together in a really natural and adventurous way. That’s what I’ve done with Cello Multitracks and with my string quartets as well. I think through electronic music, through using sequencers like the MPC or 909 drum machine or even Logic or Cubase, we kind of created completely new approaches to rhythm. None of them did really exist until we had that electronic technology and this sort of mechanical approach is very exciting. There’s been a big revolution in the last few decades and now I’m interested in taking that mechanical energy and putting it into an acoustic framework, learning how it works and taking a new post-electronic sort of influence. And that’s obvious with sound in modern production, that’s opened our ears to a new approach to sound – like say with Jimi Hendrix and the electric guitar, he managed to create a whole new set of sound for the guitar. So then with Multitracks I was interested in seeing what really new percussive sounds I could get from the cello. You can get a really even nastier dirty bass sound than you can in the synthesizer, one that adds a whole kind of growl to it. And then what happens when a human plays some of these more mechanical rhythms, but they’re not as well it kind of humanises it bringing a new energy which is really an exciting influence. That’s sort of the next step to go. Leon [Michener] has done the same with Klavikon as well: he turned it to machine and you get back the human element. It’s about these little subtleties and nuances in the music which I think make a big difference. It’s the same thing with electro, even if someone is playing the same kick drum or hi-hat the whole time it does adds this warmth to it. The other thing is again finding new ways searching for new sounds and when you come from a different approach of your source sound being classical instruments which are very rich, that opens up a really interesting sound world. I think a lot of the time in electronic dance music the source is an oscillator – whether it’s a plugin or it’s a synth – and most sound fantastic, but if your sound source is actually a beautifully played cello or a great piano there are even richer and more complex harmonics and you do open up a much more deeper and sometimes fragile sound world. Obviously there’s this rule with the remixes at Nonclassical: we tell producers they can’t use other sounds than those from the original recording. So if they want to put drum sounds for example they can’t just use their generic drum set on their computer or sampler, they have to create them from the cello or from the string quartet, so that makes their remixes even more characteristic. On Cello Multitracks though there are a couple of remixes breaking the rule: in his remix Tim Exile used more classic drum machine sounds and it just works for his remix, otherwise we try to stick to the rule. While Marks Lancaster’s remix has got really tough drum sounds but they all come from processing and editing sounds of the cello. It has got a weird cut-up disco sort of thing, but it’s all from the cello, giving the whole thing an organic unique sound.
Having you experienced both sides, do you think classical composers and performers should also know how to deal with the dancefloor? I mean, it’s important to know how that energy can be brought back in a performance, even if so different. And there’s a whole new generation of open-minded musicians, even producers now come from such different backgrounds…
I do think it’s important that they are aware of the functional restrictions that music may have. There’s been this trend from the ‘60s onwards of some sort of arrogance of the creator, the idea that I’m the creator so whatever crazy idea I have it must be doable. I don’t think that’s been very good neither necessary. If you give somebody complete freedom it doesn’t give the best results. Better when you have restrictions and you have something to push against, actually it’s a lot more interesting, more of a challenge. So I think it’s important for composers to have to think of situations, like say writing music to dance to. I mean, if you go back 200 years classical composers were writing music for dancing, so I think they should do it now, too! Actually for a while I wanted to do a project getting together some more academic composers and ask them to make an album of them all doing dance pieces. The Smith Quartet also did an album called Dance and it was all new commissions from classical composers in dance style. I wrote a piece [Bogle Move] based on a Jamaican dance sort of influence of mine. So to answer your question maybe sometimes classical performers need to learn to play with more groove. But there’s more and more young performers actually who do really understand dance music and of music having a groove. And I find that with some of my orchestral pieces, the orchestras are really getting into it and that’s really nice.
It’s a hint that things are indeed changing. On one hand you bring new people to contemporary music in a friendly, not-intimidating environment and the other you have classical musicians who are not afraid of exploring new territories, I think that’s vital to the future of music as a whole to achieve finally a new language.
I definitely agree, I think there have been so many exciting developments in music in recent years and we can now bring them together and see what happens when you create new innovations from combining existing ones. I think the next step of innovation will have a lot to do with these worlds converging. Because the electronic dance scene needs some new energy into it and I think some new approaches can come from the classical world; and then the classical approach as well needs to come back to reality a bit more.[/tab]
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