Idee chiare, carattere, consapevolezza e caparbietà, condite da una buona dose di umiltà, sono le qualità che lo hanno portato dalla sua cameretta in provincia di Milano ad una major come la Universal. Passo dopo passo, senza mai bruciare le tappe, ma con alle spalle una solida gavetta fatta di anni passati davanti ad un computer. Si è costruito un suo sound, curato nei minimi dettagli con attenzione maniacale, si è dato un’identità dotandosi di un’estetica e di un immaginario ben precisi, mette in musica la sua forte personalità con la leggerezza di un ragazzo di poco più di vent’anni. Il suo nome, per quanto avvolto in un’aura scura e misteriosa, sta diventando sempre più caldo e chiacchierato in certi ambienti della dance meneghina, quindi abbiamo colto l’occasione per andarlo a conoscere un po’ più da vicino.
Innanzitutto vorrei che ti raccontassi un po’ a briglia sciolta: chi sei, da dove vieni, il percorso che ti ha portato a diventare, oggi, Not For Us…
Prima di essere Not For Us sono Alberto Cotta, ho ventun anni e vengo dall’hinterland milanese, da Cologno Monzese per la precisione. È fighissimo: abito in un posto in cui nel raggio di tre vie ci sono l’asilo nido, la materna, le elementari, le medie, il liceo e un cimitero, quindi volendo potresti passarci tutta la vita senza mai uscire dal quartiere! Sostanzialmente ho passato gli ultimi sei-sette anni nella mia cameretta a produrre musica, ho iniziato tra la fine della terza media e l’inizio della prima superiore. Ovviamente la consapevolezza, minima, di ciò che stavo facendo è arrivata più tardi, ma i primi passi sul sequencer ho iniziato a muoverli allora. Paradossalmente sono molto più giovane come dj che come producer, quella di mettere le mani sulla consolle è stata una scelta dettata dalla necessità di esibirmi per poter portare la mia musica al di fuori delle mura di casa mia. Mi diverto tantissimo a suonare, ma nasco assolutamente come produttore. Cazzeggiando su Myspace ero venuto a conoscenza di gruppi come Belzebass, Cyberpunkers, Pelussje e prima ancora Justice e Bloody Beetrots e tutta la corrente fidget milanese, che in ambito elettronico erano le sonorità che più si avvicinavano al rock in cui sguazzavo allora: non che ascoltassi chissà che rock, eh, le solite cose di cui ci si riempie a quindici anni, Red Hot Chili Peppers, Linkin Park, Metallica, però ecco quel sound electro un po’ grezzo e distorto mi ricordava le schitarrate ed è stato il punto di contatto attraverso il quale poi ho iniziato ad addentrarmi nell’elettronica, sicuramente erano i suoni che avevo in mente quando ho iniziato a produrre.
Di te ancora non sappiamo ancora molto, anche dal punto di vista musicale: in che direzione va la musica che stai producendo o che stai per pubblicare?
Sono uscito a novembre con un singolo, “Knit Me A Coffin”, e il remix di “Hurts So Good” di Astrid S. Al momento sto completando i lavori del mio primo album, che sarà anticipato da un altro singolo che si chiamerà “Remember” e uscirà il 23 dicembre. All’album ho avuto un approccio se vuoi utopico, forse anche un po’ pretenzioso: l’idea di fondo è quella di riuscire a crearmi un posticino da cui poter raggiungere persone che ascoltino sia musica elettronica che qualsiasi altro tipo di musica, mi piacerebbe che la mia roba venisse ascoltata principalmente per la gamma di suoni che utilizzo e per farlo ho scelto di volermi dedicare ad una cura del suono maniacale…
Ah, sei un feticista del sound design?
Ma neanche tanto del sound design, è proprio che mi piace l’idea che qualcuno mi ascolti per i suoni che uso piuttosto che per scelte di genere, anche perché ormai è tutto un crossover e fare delle distinzioni diventa sempre più difficile, oltre a lasciare il tempo che trova. Io stesso tendo a lasciarmi ispirare da cose molto diverse tra loro, che sia Trap, che sia UK Garage o mille altre sonorità, quindi per primo faccio fatica a confinarmi nei canoni di un genere ben definito. Per questo credo che sia importante avere una tavolozza di suoni, legati magari a determinate emozioni o a certi stati d’animo, da poter utilizzare all’occorrenza e nei quali possa in qualche modo essere identificato. Per me hanno anche una forte valenza figurativa, ogni suono si porta dietro determinate immagini, determinati scenari… Poi può anche darsi che gli altri ci vedano tutt’altro o anche che non ci trovino niente, per carità, però ecco, quello che sto cercando di fare è essere identificato da dei suoni più che da un genere.
Qualche settimana fa sei salito sul palco del Fabrique di Milano per aprire ai Pendulum: quando ti esibisci dal vivo che suoni preferisci, com’è un tuo dj set?
Beh ovviamente dipende dal contesto, ogni volta è una storia a sé. In linea di massima mi piace suonare trap, anche se ultimamente sto sperimentando delle incursioni su una certa techno, sempre molto scura, che devo dire che ci si sposa piuttosto bene, soprattutto quando c’è da fare il cambio di marcia. Mi sto prendendo bene, sto arrivando ad un giusto compromesso tra techno, trap e Jersey club – vedi, prima parlavamo di crossover – tutto molto dark e per niente melodico. Mi piacciono un sacco anche hip hop e R&B, ma le influenze da quel versante riesco a farle venire fuori più nelle produzioni che nei set: nel senso, se sono in un club ci sta anche che suoni un pezzo di Travis Scott, per esempio, ma è abbastanza raro. A livello tecnico poi, al momento per suonare utilizzo un controller, perché mi piace fare moltissimi cambi ed avere la possibilità di giocare con le tracce, con i loop e con i sample. Sto progettando un live set un po’ più articolato, con tastiera, batteria elettronica e launchpad perché mi piace molto l’idea di poter editare le tracce sul momento per potermi adattare al meglio ad ogni situazione.
È notizia di questi giorni la tua partnership con Nike: di che cosa si tratta?
Praticamente ho prodotto la colonna sonora di uno spot per il lancio della nuova collezione ACG di NikeLab. Che poi lo spot dura un minuto, quindi colonna un cazzo, al massimo è un capitello sonoro… A parte gli scherzi, è stato un progetto molto interessante, oltre a me ha coinvolto altri tre ragazzi: Martina Bardot che si è occupata della fotografia, Martina Pastori della parte video e Vittorio Marchetti come art director. È stato figo far parte di un gruppo come quello, mi sono trovato molto bene e il lavoro è stato decisamente organico, la condivisione delle idee ci ha coinvolto tutti in uguale misura.
Il mood del video si sposa molto bene con il tuo personaggio e il suo immaginario, nonché con la tua musica: ti senti di rappresentare questo lato un po’ urban di Milano? Di fargli da soundtrack?
Si questo è vero, ma io non mi sento di rappresentare proprio nulla, figurati! Però si, ci sono dentro, sento di farne parte. Metterci la mia musica poi è ancora più figo, mi dà un’ulteriore possibilità di esprimermi come produttore, non per forza legata al progetto Not For Us ed è una cosa che mi piace tantissimo e che sicuramente ripeterò in futuro se ne avrò la possibilità. È bello ogni tanto staccarsi dal tuo ego musicale, mettiamola così, uscire dalla tua comfort zone e mettere le tue idee al servizio di altri. È stata un’esperienza che mi ha fatto crescere molto, professionalmente.
Dopo tanti “not for us” ricevuti in risposta dalle etichette è arrivata Universal: ci vuoi raccontare come è nato e si è sviluppato la relazione, fino ad arrivare all’album che hai in uscita? Non hai paura che il fatto di aver debuttato direttamente su una major possa in qualche modo condizionare il tuo futuro, anche sul piano artistico?
Ero già in contatto con Federico Cirillo, lo stimavo molto anche come produttore e seguivo la sua etichetta, la Gold Nite. Gli mandavo spesso le mie demo per avere dei feedback, come fanno tutti i produttori, senza tante pretese. Dopo i tanti rifiuti che avevo incassato dalle varie etichette mi ero un po’ demoralizzato, avevo smesso di mandare le mie tracce alle case discografiche ma continuavo a produrre e a far sentire ciò che facevo alle persone a me vicine che ritenevo competenti, cercando sempre di migliorare seguendo i loro consigli. Poi lui è arrivato in Universal e dopo un po’ abbiamo iniziato a ragionare sulla possibilità di farmi fare un album. All’inizio anche io ero un po’ titubante, come tutti avevo questa visione un po’ chimerica della major come il male assoluto, qualcosa che ti facesse vendere l’anima, ma poi vivendola dall’interno, conoscendo altri artisti e altri A&R ho scoperto che la realtà non è assolutamente come viene dipinta da fuori. Può capitare che in certe circostanze e per certi prodotti ci siano delle dinamiche un po’ più impositive, ma non è la regola come spesso si tende a pensare. Parlando con Fede, conoscendolo da un po’ di tempo, ho capito che quello che gli sta a cuore è la qualità del prodotto: al di là delle vendite e dei numeri, la mia libertà artistica non è mai stata in discussione. Dopo aver fatto queste riflessioni con lui, la mia percezione è cambiata e mi sono detto: perché no? Mi è stata offerta è un’opportunità incredibile da un colosso della discografia, con delle risorse che non avrei potuto trovare altrove, una professionalità che sta facendo crescere tanto e per di più il tutto è nato da una chiacchierata del tutto informale come potrebbe essere quella tra me e te ora… Poi alla fine sono convinto che, al di là del contenitore, ciò che conta è il contenuto. Se un artista esce con un album su una major, mi importa poco se l’ EP successivo esce in free download o su un’etichetta indipendente se il prodotto è buono. Personalmente non mi sento né condizionato né sotto pressione o chissà che. Sto facendo quello che mi piace nelle migliori condizioni possibili al momento, certe domande magari non me le pongo neanche. Per tanto tempo ho fatto cose che non mi piacevano, ho studiato cose che non mi interessavano, ho frequentato posti che non mi davano niente, tra l’università, la scuola, certi altri contesti. Adesso che mi sto dedicando completamente alla musica, non ti dico che sono felice come una pasqua, però mi sento bene, sento che quello che sto facendo mi porta da qualche parte. Certo, a volte c’è stress, c’è tensione, puoi essere triste in alcuni momenti, preoccupato in altri, però alla fine ne vale sempre la pena. Quindi finché ho la possibilità di andare avanti a fare questa roba, che sia con Universal o nella cantina di casa mia ha veramente poca importanza. Lo faccio e basta senza pormi più di tanti problemi, anche perché se no poi mi blocco a livello creativo e lì si che sono cazzi!
Tra le tue references, sia a livello di immaginario che sul piano musicale, citi Gesaffelstein, Porter Robinson, i Sigur Ros, Flume… Non si può dire che tu non abbia le idee chiare sulla direzione che hai deciso di percorrere, ma hai considerato il rischio che queste influenze così forti e così definite possano in futuro diventare una specie di gabbia stilistica da cui poi sarà difficile uscire?
Probabilmente sì, il rischio c’è. Però alla fine se c’è questa gabbia stilistica rappresenta questo periodo che sto attraversando e l’album che sto producendo, quindi fa parte di me in modo del tutto naturale. Poi ovviamente ogni artista – o wannabe artista come me – si evolve durante il suo percorso, quindi se in questo momento la mia gabbia è questa io mi ci crogiolo volentieri, è una bella gabbia dorata. Il prossimo album o qualsiasi progetto futuro potranno avere identità completamente differenti, nessuno lo vieta né sarebbe la prima volta. Personaggi che si erano costruiti un immaginario fortissimo, estetico, musicale, visivo, da David Bowie a Kanye West, hanno seguito l’evoluzione della propria personalità di pari passo con quella della loro musica. Se lo fai in modo sincero è una cosa che inevitabilmente succede.
Quanto del – passami il termine – personaggio Not For Us trova spazio in Alberto e viceversa?
Il 100% senza dubbio. L’immagine che ho scelto di dare al progetto è diretta conseguenza della mia personalità, è da lì che è stata estrapolata. È chiaro che poi un minimo va, diciamo, romanzata, ma l’input è assolutamente genuino e non potrebbe essere altrimenti, non potrei cucirmi addosso qualcosa che non sento come mio, non avrebbe senso. Parte tutto dal mio modo di essere, che si riflette nella mia musica e quindi inevitabilmente nella mia immagine.