La scena è questa: siamo a Torino, a Club To Club, becchiamo Alessio Natalizia giusto alla fine di un panel dedicato a “The Italian New Wave”, un po’ intesa come l’agenzia di booking legata al festival torinese un po’ tout court come rappresentazione di un nuovo fermento italiano. Si parla di questo. Si parla dell’opportunità di questi incontri. Il discorso si fa subito interessante. Ma non potrebbe essere altrimenti: Alessio è una persona di intelligenza davvero acuta, oltre ad avere un curriculum vitae di grandissimo spessore. Gli esordi nel punk, l’avventura coi Disco Drive (in piena sbornia post punk / disco, quando sembrava che dagli LCD in poi questo genere avrebbe conquistato il pianeta e perfino l’Italia), poi l’accostarsi al mondo elettronico con progetti collaborativi o in solitaria subito molto riconosciuti all’estero (Walls, Banjor Or Freakout e l’ultimo, quello ora in atto, Not Waving). Un cervello in fuga, visto che questa svolta ha coinciso con lo spostare il proprio baricentro esistenziale e lavorativo a Londra. Ma i fili con l’Italia sono molto forti. Ad esempio quelli con Cosmo: perché è stato Jacopo Marco Bianchi a volere espressamente Alessio come produttore dell’ultimo album dei Drink To Me (la “ragione sociale” originaria del Bianchi), ed è sempre Alessio – appunto come Not Waving – ad essere il primo ospite di un tour, quello a nome Cosmotronic, che rischia di essere una svolta sotto parecchi punti di vista tanto per il successo che sta montando quanto per la particolarità del tutto (ne parlavamo qui). Il tour in questione inizia domani, 16 marzo, a Bologna: è il momento giusto per ripescare quella chiacchiarata con Alessio fatta qualche mese fa, dalle parti di Torino, alla fine di un panel che…
Quindi insomma, sei un po’ perplesso quando vedi questi panel sulla “musica elettronica italiana”… non sei del tutto a tuo agio.
Ma no dai, non è che non mi trovo a mio agio. Anzi: io capisco che questa idea, questo “format” come dicono loro stessi parlando di The Italian New Wave, nasca da ottime intenzioni e con delle belle idee dietro. Però ecco, sinceramente: io credo che una vera e propria “new wave” si debba ancora creare. Mettere tutti quanti noi sotto lo stesso cappello, chi fa parte di Italian New Wave ma in generale è italiano e fa musica elettronica, è forzato. Ed è forzato per due motivi diversi: uno perché ognuno ha la propria individualità e non vedo delle cifre comuni troppo spiccate, due perché proprio in generale a me questa cosa sa un po’ di ghettizzante, o meglio, rischia di essere tale. L’idea, ripeto, è giusta e mi piace molto: c’è un sacco di musica veramente figa che sta uscendo dalle mani di producer italiani, e oltre a essere figa è anche perfettamente esportabile, direi come mai prima. Ma onestamente: io, più che italiano, mi sento cittadino del mondo. Io di mio sarei contro le nazioni, contro i confini. Oddio, a dirla tutta io sarei anche contro la definizione di “artista”… quindi figurati se ad “artista” leghi pure “italiano”… faccio proprio fatica! (ride, NdI)
Eh, sei bello radicale.
C’è una ragione. Evitando queste categorizzazioni, evadi anche dei possibili limiti. Perché quando dici “artisti italiani”, boh… quando mai hai sentito dei panel con solo “artisti americani”? O “artisti inglesi”?
Però noi siamo un po’ il terzo mondo della musica, o di sicuro non siamo fra i paesi “forti”.
Un po’ è vero, ma questa cosa mi ha sempre dato fastidio. Io lo dico sempre: quando compravo un sacco di riviste musicali (Mucchio, Rumore, Blow Up…), e lo facevo regolarmente, da un lato leggevo dall’altro ogni volta mi incazzavo ferocemente quando vedevo che le recensioni dei dischi fatti da artisti italiani erano separate dalle recensioni dei musicisti stranieri. Come a dire: “Eh, noi siamo una categoria a parte, siamo inferiori, abbiamo bisogno del nostro recinto separato, non possiamo competere”. Ma perché? Perché darsi degli inferiori da soli, così? In Inghilterra non l’hanno mai fatto, questo discorso: non ho mai visto un giornale che separava recensioni degli inglesi da quelle di musicisti di altre parti del mondo! Li mettono insieme agli altri, i dischi dei propri connazionali, e anzi, ne approfittano per spingerli, ne sono al cento per cento orgogliosi. Io capisco il discorso che sta dietro al creare dei contenitori separati per la musica italiana, l’idea in origine sarebbe proprio quella di valorizzare, operando questa divisione, va bene, ma la linea tra aiutare e sostenere e creare invece dei limiti è molto, molto sottile.
Il rischio è quello di cadere in una specie di “quote rosa” assolutamente non meritrocratiche.
Esattamente così. Democrazia decisa a tavolino. Che finisce coll’essere molto limitante e anche poco efficace. Quello che conta è la qualità. Che sia italiano, tedesco, francese, inglese, quello che vuoi: non importa, non sta lì il punto. Il punto sta nella qualità di quello che viene fatto, di quanto ci si è lavorato sopra, di cosa si dice con la propria musica (e di come lo si è detto).
La conclusione di questo discorso potrebbe essere che, secondo te, non esistono delle specificità. E occhio, non intendo solo “specificità italiane”. Mi riferisco anche alla musica fatta a Londra, a Berlino…
Esistono le specificità, qualcosa è rimasto, ma molto meno che negli anni ’80 e ’90, molto di meno. Un tempo c’erano scene ben precise, che erano anche localizzate: Londra, Manchester, ma volendo anche Torino, dove ora ci troviamo. Ora queste identità hanno dei confini molto più confusi, indefiniti. Ormai, e questa cosa devo dire mi piace parecchio, puoi scegliere di fare un certo tipo di suono in qualsiasi parte del mondo. Non hai più limiti, in tal senso.
Non c’è il rischio dell’omologazione, così?
C’è. Un po’ c’è. Ma se uno considera i pro e i contro, pensa a questo: oggi, se una cosa è valida, valida davvero, da qualsiasi parte arrivi può comunque giungere fino all’orecchio della gente. Anche se di tuo stai in un paesino sperduto nel nulla dove non succede un cazzo. Quando ero ragazzino io, stavo nel mio paesotto abruzzese: ok, facevo un disco… ma poi? Lo potevo allungare agli amici, ad altri musicisti con cui venivo in contatto, musicisti magari anche europei, ma restava tutto sempre tanto circoscritto. Fondamentalmente, io nascevo in Abruzzo e morivo in Abruzzo, come musicista. Se non stavi in una città come Milano, era dura.
Al massimo, dall’Abruzzo, te ne andavi a Roma.
E infatti ci andavo: a comprare dischi, a vedere i concerti al Forte Prenestino… Guarda però oggi: io oggi torno nella mia città, e addirittura vedo che ci fanno un festival! Incredibile! Qualcosa di assolutamente impensabile, quando ci abitavo io! Il panorama musicale è cambiato tantissimo in tal senso. Anzi, ti dirò, di musica forse in giro ce n’è perfino troppa, tant’è che ora sono diventati importanti tutta una serie di elementi di contorno: la location, il concept, ‘ste cose qui… ascoltarla, la musica, è diventata quasi una questione accessoria. Perché davvero, in giro ce n’è tantissima. Sai, non è un caso se ho fatto uscire “Good Luck” alla fine del 2017…
…perché miravi alle classifiche di fine anno, quelle dei “Best Of”?
Ma no, non è questo. Pensaci: senti un disco a gennaio, un disco notevole, ti dici “Uh, questo è un gran lavoro”, ma poi arriva febbraio e di dischi notevoli ne senti tre, quindi quello di gennaio è già bello sepolto e dimenticato a febbraio, figuriamoci a marzo, per non parlare di novembre o dicembre. Certo volte ascolto degli album e penso “Bello questo, è uscito qualche anno fa”, poi controllo meglio e vedo che non ha più di qualche mese! Consumiamo musica con una velocità pazzesca. Tra l’altro: ho letto da qualche parte che la durata media di ascolto di una traccia, su Spotify, è di venti secondi. La durata media. Di un pezzo. Ascolti venti secondi, e poi skippi su un’altra traccia. Tuttavia, resto convinto di una cosa: oggi, se fai una cosa fatta bene, se hai qualcosa di originale da dire, il tuo messaggio arriva. Non diventi ricco e famoso, no; ma almeno puoi arrivare davanti alla gente. In modi che prima erano semplicemente inimmaginabili.
Prima ricordavi di quando andavi a fare incetta di giornali musicali: sono ancora importanti, le testate specializzate?
Assolutamente no. Non ti offendi, vero? (Ride, NdI) Paradossalmente oggi possono essere più influenti i negozi di dischi “strategici”, possono spostare di più. A parte qualche eccezione fra le testate più note, naturalmente. Ma a dire il vero, anche lì: non hanno più l’influenza di un tempo. L’ho sperimentato proprio sulla mia pelle: tempo fa, ormai parliamo di sette, otto se non dieci anni fa, ci fu un articolo di Pitchfork su uno dei miei progetti Banjor Or Freakout, un po’ la prima volta che Pitchfork dava attenzione ad una cosa con un italiano di mezzo soprattutto dal taglio di un certo tipo; bene, dopo quell’articolo è come se fosse scoppiata una bomba, ebbi un record di accessi al mio sito, un mare di messaggi, un sacco di dischi venduti on line, mi contattarono anche delle etichette. Oggi, se esci su Pitchfork, la tua giornata non cambia più di tanto. Però senti, io credo che sia anche meglio così. Perché ci si basa di più sul passaparola: fai un disco, lo sentono i tuoi amici, ne parlano sui social, la voce si sparge. E ci si basa molti sui live. Accidenti se sono importanti i live. Soprattutto per gli artisti che stanno più o meno al mio livello. Fare un concerto giusto, nel posto giusto, al momento giusto.
Non è un allineamento di pianeti così scontato, questo. Posto giusto, momento giusto, gente giusta.
Sono quei luoghi dove sai che il tipo di musica che fai tu ha senso ci stia. Io sono perfettamente consapevole che la mia non è una musica che può andare bene a tutti e in ogni luogo. O meglio, aspetta: io ho una componente utopica fortissima, in me, che mi fa credere che in realtà la mia musica sia pop, sia per tutti, sia perfettamente accessibile. Anche perché la “coloro” molto, ci metto molto sense of humour, ho una forte componente giocosa in quello che faccio.
Tra l’altro proprio “Good Luck”, il tuo ultimo lavoro, mi pare sia il tuo disco più giocoso in assoluto, pur nei suoi spigoli.
E’ un disco che viene fuori da situazioni molto scure. Anche politicamente, se ci pensi, stiamo vivendo un momento abbastanza agghiacciante. Da qui il titolo “Good Luck”: come a dire, “Eh, buona fortuna…”. Ma al di là della questione generale artistica o politica, anche per me come persone il 2017 è stato un anno abbastanza complicato, molto stressante, piano di alti e bassi. Sai, tu come musicista vai in giro a suonare e per un’oretta, mentre sei sul palco, sei un eroe: ma dopo? Dopo c’è un sacco di solitudine. In hotel da solo, in aereo da solo. E questa è una cosa che, anche se non sembra, emotivamente esige parecchio. Per fortuna a me girare da solo, fondamentalmente, piace. E poi facendo il musicista è molto più facile conoscere gente. Per dire, la prossima volta che verrò a Barcellona so già che ho almeno una decina di nuovi amici che mi aspettano… e questo è bellissimo, è incredibile. Questo mi riporta ai momento migliori del punk.
(“Good Luck”, uscito per la Diagonal di Powell; continua sotto)
Poi ad un certo punto anche certi elementi del punk sono stati cooptati dal mainstream.
Il punk, per me, è morto. Se oggi vuoi fare musica di un certo genere, con un certo impatto, il punk lo trovi molto di più nell’elettronica e nei dancefloor. Tra un dancefloor e un centro sociale, oggi, è molto più punk un dancefloor. Poi chiaro, sto generalizzando, dipende da posto a posto, ma il discorso complessivo è un po’ questo. Nel momento in cui ho dato vita al progetto Not Waving, che a modo suo è dance oriented, quando si è trattato di portarlo dal vivo beh, è stato come un’epifania, è stato come ritornare ai miei sedici anni, ai concerti hardcore dall’impatto pazzesco che mi avevano aperto la mente e fatto scoprire un mondo. Nei dancefloor, c’è un’emotività che non vedevo da anni, girando per i contesti più tradizionalmente dedicati alla musica live. Quelli diciamo di taglio indie.
Ma quali sono i confini del “tuo” danceflooor? Perché dancefloor, per te, non è certo l’Ushuaïa… non c’entri nulla con un posto del genere…
Assolutamente. Parlo della scena “mia”, che se vuoi è anche piccola, ma poi alla resa dei difetti io ormai suono ogni weekend: è tantissimo. Ogni tanto ci penso, e ancora quasi non ci credo. Suonare ogni weekend. Con questa musica. Che, appunto, non è semplicissima. Però magari arrivo un posto lontano, che so, Kiev, e scopro un sacco di ragazzini che hanno esattamente le mie stesse visioni sonore e i miei stessi riferimenti. E’ come il punk quindici, vent’anni fa, davvero; qualcosa che va oltre la musica, un senso di comunità, di appartenenza, un essere anche orgogliosi dei propri gusti e di quello che si fa… ma non in maniera chiusa, non secondo logiche predeterminate, come ad un certo punto è iniziato a succedere nella scena punk vera e propria. Che si era fatta quasi borghesia.
Una borghesia reazionaria e conservatrice: perché vuole sempre i soliti riti, quelli e solo quelli, non ne accetta altri.
Infatti. Che è esattamente la fine che sta facendo anche un certo contesto politico, a sinistra, di cui ho sempre fatto parte: ad un certo punto diventa prigioniero dei suoi riti, non riesce ad uscire da lì. Ecco, questi sono i pensieri che hanno fatto nascere “Good Luck”. Tuttavia va anche detto che nella musica elettronica spesso si tende un po’ troppo a lamentarsi, ad essere negativi, a puntare il dito contro i problemi. In particolar modo nel filone dove vengo infilato io, con quello che faccio: quello un po’ techno, un po’ industrial, un po’ dark. Musicalmente mi piace, questo contesto, ma certe volte questa scena esagera nell’essere nostalgica. Si guarda molto indietro.
E forse si guarda un po’ troppo allo specchio.
Vero, si guarda allo specchio e non prende in considerazione visioni alternative. Infatti io dico “Good Luck”, buona fortuna… e mo’ che cazzo facciamo? Facciamo che la risposta sono anche l’umorismo, il sarcasmo, il far affiorare fra gli spigoli anche delle melodie praticamente pop. Ecco cosa potremmo fare. Io, di questo, sono orgogliosissimo. Voglio che la mia musica possa andare bene anche per chi non mi conosce, per chi non ha mai sentito una mia nota prima. Vogliamo tra l’altro uscire pure un attimo dalla musica? Uno dei miei grandi riferimenti è il collettivo di designer ed architetti Gruppo Memphis, fondato da Ettore Sottsass: ecco, loro erano radicalmente contro il passato. Per principio. A prescindere. Una cosa che non esisteva prima e non è mai stata fatta prima, beh, va fatta, anche se fa schifo, per il solo fatto che appunto non è mai stata fatta prima. Ecco: io credo sia questa l’attitudine che la musica elettronica dovrebbe avere. Il che non significa che tutti per forza debbano fare cose nuove, inedite, manco io le faccio, ma l’attitudine, sì, l’attitudine deve essere quella.