Avete notato come si sia praticamente smesso di parlare di dubstep? Pensate a quanto sono cambiate le cose rispetto al passato recente: intorno al 2007-2008 era il trending topic assoluto, avvicinandosi poi al 2010 è diventato l’argomento di dibattito per l’avvicinamento alla techno operato da Scuba, Shackleton e gli altri, e dopo ancora ci sono stati Jamie XX, James Blake, Machinedrum/Sepalcure e SBTRKT a far buzz intorno alla parabola post-dubstep e future-garage, ultima vera espressione intellettuale del filone (rivelatasi poi fenomeno di nicchia portato avanti da una strettissima cerchia di producers raffinati). E poi basta, o quasi. Dalle esaltanti speculazioni intorno al cambio volto del 2011 (anche in forme particolarmente appassionate, vedi lo scambio epistolare tra Joe Muggs e Rory Gibb su Quietus) al silenzio pressocché assoluto di oggi. In mezzo c’è stata una cosa sola: l’esplosione dei drop e del brostep, i grammy a Skrillex e la contaminazione globale via Korn, Muse, Cypress Hill e – non dimentichiamolo – Doors. Il dubstep (ora col nu- davanti) è diventato argomento scomodo, fonte di dissapori tra conservatori affezionati all’old-school e nuovi adepti esaltati per una moda che loro riconoscono su coordinate recentissime (diciamo pure dai Nero in avanti), e anche i salotti della critica han preferito cambiare argomenti (perfino la trap ormai coinvolge di più).
Eppure si tratta di un tabù fondamentalmente ingiustificato. O meglio, figlio dell’analogo tabù che da sempre si ha verso tutti i fenomeni mainstream, che scatta automaticamente NON se un determinato sound cambia in peggio, ma se solo allora inizia a ricevere l’acclamazione del grande pubblico. Se il (comunque opinabile) degrado stilistico può in maniera naturale generare amarezza, è il successo mediatico che dà vita all’odio e al rifiuto dell’argomento, sfociando molto spesso in reazioni di pancia e preconcetti difesi anche senza aver mai approfondito le nuove pieghe. Siamo in un campo pienamente pregiudiziale, che da sempre fa un fascio di tutti i volti che appaiono su MTV e che in passato è già stato ingeneroso verso mainstream act dignitosi come Craig David o Justin Timberlake. È un atteggiamento comprensibile e del tutto lecito, ma con un grosso rischio annesso: perdersi quel che di buono c’è nella nuova tendenza. Perché in mezzo a tanti capolavori di superficialità e cinismo che popolano il brostep e tanto fanno incazzare i puristi (storica in tal senso la polemica a distanza tra James Blake e Skrillex), c’è anche tanto materiale di buon livello, che risponde a robuste derive stilistiche e segue ragioni ed evoluzioni perfettamente condivisibili.
Il brostep (usiamo questa definizione per abbracciare in maniera complessiva l’hardcore dubstep degli ultimi anni, evitando di perdersi in stucchevoli differenziazioni tra astruserie come drumstep, emostep, jugstep, pornstep e così via) in fondo non fa altro che spostare i riflettori dagli spazi ai drop, e quella di accentuare oltre il limite gli elementi d’impatto più diretto di un genere è storia vecchia. Il metal ha fatto lo stesso con analoghe distorsioni e ci sopravvive da decenni senza che il mondo se ne abbia a male, il processo disco-house ha ragionato allo stesso modo col beat quadro e anche l’hip-hop, nelle sue vere origini, nasce per dare enfasi alla sezione rap che tanto esaltava il bronx dei tempi. È accaduto anche al dubstep, e anche in questo caso ciò che era prima è stato pressocché rimpiazzato. Non è massificazione, ma strategia di sopravvivenza: era già un bel po’ che il filone non diceva più nulla di veramente nuovo e l’alternativa alla solita, inevitabile chimera pop era la storicizzazione in resina che è capitata alla drum’n’bass. Un po’ riduttivo per le mille nuove possibilità che il dubstep è in grado di aprire.
Proviamo invece a guardare la cosa con imparzialità e senza pregiudizi, andando in fondo alle diverse facce del brostep e distinguendo tra i buoni, i brutti e i cattivi senza rancori repressi. E facciamolo sul serio, non nelle versioni edulcorate che stan venendo fuori sempre più spesso nelle riviste specializzate fuori confine. Come Fact, che la scorsa estate ha pubblicato un articolo col freno a mano tirato dal timido titolo “In defence of wobblers“, che voleva dichiarar simpatia alla nuova generazione ma, evitando di sbilanciarsi troppo, è finito per tirar fuori sempre i nomi dei soliti Skream, Rusko, Caspa, Benga e Loefah, ossia artisti amati dai più che per primi hanno intuito le direzioni di cui parliamo. No, stavolta ci tuffiamo a pesce e andiamo in cerca delle chicche nascoste tra nomi più o meno sconosciuti, sguazzando un po’ in mezzo al fango. Perché il fango è molto (c’è poco da negare), ci son schiere di nomi di nessun talento che han semplicemente cavalcato quest’ondata di passione drop, con pezzi taglia e cuci di crescendo insulsi e scariche di drop come un collage privo di ogni senso estetico. Però c’è anche del buon materiale, ed è stato semplicemente oscurato da ciò che di cattivo ha portato la nuova deriva.
I brutti
I veri “brutti” sono quelli che han capito quanto si può guadagnare sfruttando i meri meccanismi di causa-effetto legati al brostep e li hanno replicati in serie, con la massima banalità e senza il benché minimo talento, tanto è l’effetto distorto a far tutto. Gli speculatori del drop. Come i Krewella: due femminette dalla scollatura facile e un producer dalle fattezze urbane, balzati improvvisamente agli onori di cronaca col Play Hard EP e la hit “Killin’ It” che meglio di tutti spiega il vero male che il bro può offrire. Un’ansia incontrollata porta a correre il più veloci possibile verso il lato metal di questo suono e il rumore sintetico, il resto è puro riempitivo ricolmo di luoghi comuni plastificati, voci trancey ed EDM da provetta. Il drop diventa unica ragion d’essere e tutto il resto è solo mero contorno. Questa è pornografia del suono. Voglia di comunicare zero, coraggio meno dieci. Ancor più se rientra in una discografia che ha fatto del riciclo di formule stranote e stracollaudate il suo filo conduttore, dalle sfacciataggini dance pop Guetta style di “Feel Me” o “Alive” all’ultima “Come & Get It” che mette in gioco un piatto revival d’n’b. Esteticamente insopportabili.
Certo, vincere facile piace a tutti, e sono in molti a esser cascati nel vezzo manieristico per scalare le classifiche. Rientrano in questa categoria anche i controversi Nero, gli idoletti dello UK dubstep finiti primi in classifica album nel 2011 con Welcome Reality, disco che in realtà è ben lontano dall’essere la loro cosa migliore. Il loro background era tutto di dnb incazzata e frenetica, resa senza compromessi in pezzi come “Ragga Puffin” e “Dick Tracy”, ma nel 2008 furono tra i primi a darci giù coi bassi anticipando gli eccessi di oggi, calando un poker di inflazioni wobble con “This Way”, “Bad Trip”, “Something Else” e “Night Thunder”. Roba che sorpassava da destra anche i Benga & Coki più spericolati. Peccato che poi le tentazioni mainstream della nuova onda abbian preso il sopravvento e nell’album ci sia finito un mix di ruffianerie che coinvolge la trance melodica di “Guilt” e la teen dance di “Crush On You“, peraltro mal assortite con le inevitabili scariche sintetiche. Peccato davvero, perché c’era ancora qualcosa di buono tra le loro possibilità e un pezzo come “Me And You”, con la sua carica un po’ dance punk un po’ electrorock, poteva sopravvivere benissimo anche senza i giochi di luci a contorno.
Uno che invece non è cattivo in sé ma ha una insopportabile tendenza ad esagerare è Doctor P. Inglese anche lui, di provenienza drum&bass anche lui, ma fin da subito scatenato in produzioni che mettono al centro le dissonanze più forti di cui il sound sia capace, avvicinandosi il più possibile alla soglia del fastidio fisico. “Sweet Shop” e “Big Boss” (quest’ultima divenuta un web cult, la Harlem Shake del brostep) si son prese il loro minuto di notorietà quando nel 2010 lo si chiamava “filthstep” e significava proprio distruggere l’equilibrio e il contegno proprio del dubstep, e sempre in quel periodo “Tetris” aveva rappresentato il perfetto esempio di aggressione al vintage, prendendo di mira i ritorni periodici delle fascinazioni 8-bit. Più recentemente il ragazzo ha dimostrato le capacità per un sound più ordinato e son venute fuori la pillola fashion “Neon”, brava a riprodurre la dimensione dance femminile alla portata del dubstep, e “Music Is Dead” con Dillon Francis, aderente con più astuzia alla forma electro house. Eppure la firma che lo rende riconoscibile è ancora quella di “Galaxies & Stars” e “Bulletproof”, che pare divertirsi a contraddire qualsiasi possibilità di contenimento della vena hard. Ormai al suo pubblico piace così. E in fondo anche a lui.
In tutti questi casi parliamo di personaggi che han scommesso tutto sulla superficie, artisti ipnotizzati dalle potenzialità intrinseche del suono e intenzionate a spingerle più in là possibile, senza provare a ricamarci sopra un discorso di validità più generale. Se ne possono fare tanti di esempi di questo tipo: Datsik (sulla carta capacissimo, sul campo deludente perché troppo scontato – vedi “Evilution” o “Napalm”), Zomboy (“Gametime”, “Dirty Disco”, “Nuclear”, il gioco è “trova le differenze”), Redneck (il video di “I’m Not Skrillex” illustra “come diventare un artista dubstep in un mese” e più che una parodia caustica ne è venuta fuori un’implacabile conferma in mano ai detrattori), Knife Party, Xilent, SKisM, Culprate. Quel che è importante evidenziare è come questo sia semplicemente l’inevitabile lato massificato di un genere à la mode, che ne rappresenta la maggioranza ma non la totalità. Accanto a questi convivono artisti capaci di intuizioni e iniziative, che sanno distinguersi con più carattere, intelligenza o anche semplice furbizia dagli altri. E son queste le realtà che è meglio non perdersi, per evitare di cadere nel tranello “è tutta la stessa merda”. Non è così.
I buoni
Tra quelli venuti fuori parallelamente al fenomeno Skrillex ce n’è uno in particolare che ha saputo dare al brostep un’impronta tutta personale. È l’israelita Borgore, un ex-metallaro convertitosi intorno al 2009 a quello che lui stesso ha definito “gorestep”, mostrando particolare amore per il tema orrorifico. Il suo meglio però l’ha tirato fuori l’anno dopo, con tre pezzi particolarmente riusciti – “Nympho”, “Ice Cream” e “Love” – che han riassunto al meglio i due veri volti del suo carattere, quello stilistico e quello umano. Stilisticamente, vien fuori una formula che volge verso l’hip-hop e riesce a sfruttare i modi urban votati all’headbanging (senza accelerare i tempi però: siam sempre sui 140 BPM, che nel quadro halfstep-oriented significano la metà), in modo da formare un intreccio interessante tra spavalderia rap e analoga spavalderia drop, senza che nessuna delle due parti abbia l’ansia di cedere il passo all’altra. Anzi, in “Ice Cream” sembrano strofinarsi addosso in modo così provocatorio che è quasi sesso. E il perché è spiegato dall’altra faccia di Borgore: umanamente lui è, in parole semplici, un porco maschilista della peggior specie. Un personaggio che ha voluto interpretare sta tutto nei suoi post Facebook, usa un linguaggio offensivo e riporta tutto continuamente all’ossessione per il sesso e la sottomissione della donna. “Bitches love cakes” è il nuovo mantra venuto fuori dopo Delicious, e tra i social fan c’è una consistente fetta di groupies pronte a farsi “sporcare con le sue torte”. Ma non è questo il punto, il moralismo qui è completamente fuori luogo. Musicalmente parlando, tutto questo è straordinariamente funzionale al suono reso. Prendete “Love“: 12 versi di serenata amorevole verso la donna, i suoi modi di muoversi, di ridere, di ballare, poi break di chiusura in maniera del tutto disinvolta. “But the thing I love most is cummin’ on your face. Suck it, bitch”. E subito dopo quattro minuti di drop devastati a rimarcare il gradasso che si nasconde nel meccanismo. Tutto coincide, una autoconsapevolezza impressionante, volontaria o meno che sia. Il brostep è ignorante, volgare, degradante, maleducato, offensivo, insolente. Ma solo se fatto bene. Mitico Borgore. “Buono un cazzo” direbbe lui, ma la verità è questa. Peccato che anche lui sembra aver preso una piega scontata e con Delicious pare ambire a un profilo pop che non gli si addice. È in arrivo l’album e c’è tempo di prepararlo con cura. Speriamo bene.
Quelli che invece l’idea pop legata al brostep son riusciti a renderla nel modo più pulito ed efficace sono stati i Modestep, emersi secondo un processo che ricorda molto il periodo delle radio pirata londinesi, ossia release di 4-5 singoli nell’arco di un paio d’anni, attesa che l’hype si autoalimenti e poi album che sintetizza il percorso (Evolution Theory, uscito lo scorso febbraio). Qui il segreto è stato unire alla durezza bro una parte cantata cristallinamente pop, riconoscibile senza ostacoli ai frequentatori dei media di larga fruizione. E questo evitando ove possibile la dicotomia forzata, usando il drop per rimarcare l’energia di un brano che in realtà si pensa fondamentalmente pop-rock. I Linkin Park del brostep. Tra i pezzi più riusciti la hit “Sunlight“, con un appeal radiofonico irresistibile (per chi riesce ad apprezzare, ovvio) e una collezione di distorsioni forte eppure non invadente, funzionale al pezzo. Altri brani molto buoni della fase pre-album sono stati “Another Day“, vicinissima a un meno impegnativo tessuto electropop, e “Show Me A Sign“, che invece non nasconde un certo carattere heavy, mentre “Feel Good” e “To The Stars” han preferito accontentarsi di seguire con fedeltà un percorso già tracciato. L’album appena uscito però ha la pecca di dare uno spazio leggermente eccessivo alla deriva metal. Dai Linkin Park ai Rage Against The Machine, come a volersi ingraziare anche quell’altro tipo di pubblico, e questa suona come una scelta di produzione a tavolino poco supportata dall’ispirazione naturale, oltre a risultare un tradimento delle aspettative del pubblico puramente elettronico. Questo ovviamente a voler fare i pignoli, perché nel frattempo la UK chart conferma l’ottimo successo della band. A ciascuno il suo.
Flux Pavillon, invece, è uno che semplicemente ha talento da vendere. Co-fondatore della Circus Records insieme al gemello brutto Doctor P, il ragazzo è uno degli artisti più visibili nel panorama bro e ha già alle spalle diverse collaborazioni di spicco con nomi come Major Lazer, Foreign Beggars e Example. Lui coi drop ci interagisce in maniera propositiva, non forza il gioco sul suono ma trova sempre il modo di rielaborare i concetti per renderli funzionali a un’idea, che resta la protagonista della traccia. Così, oltre a brani ormai classici di hardcore dubstep come “Bass Cannon“, “I Can’t Stop” e “Got 2 Know”, gli son venuti fuori anche alcuni dei pezzi più originali del filone: “Superbad” con Doctor P e “Jah No Partial” coi Major Lazer restano tra gli esempi meno riconducibili a uno schema fisso, splendidamente immersa nel clima italo-poliziottesco la prima, in bilico tra ragga e drums in odore rave la seconda, mentre la “Daydreamer” con Example è di nuovo un grande esempio di sensibilità pop alla portata del nuovo dubstep. La sua musica non ha davvero bisogno del drop e infatti non gli erge nessun altarino ruffiano, qui conta l’energia, l’affinità che può esserci con l’intuizione originaria. E l’ultimo Blow The Roof EP uscito a gennaio continua a portare avanti un percorso di iniziative fuori schema, “The Scientist” ragiona su orizzonti alternative con poche barriere all’ingresso, “Do Or Die” insiste sul fronte rap e su refrain distorti ad impatto immediato e la “Double Edge” realizzata col professionista dello UK grime P Money ha un grado di cattiveria genuina che rinuncia senza problemi al metallo brostep. Dopo un inizio carriera nel segno dell’ambientamento dnb&dubstep, Flux Pavillon sta snocciolando nuove ipotesi uscita dopo uscita e ormai il suo nome è garanzia non solo di qualità ma soprattutto di sorpresa. Se ne vedranno delle belle.
Son solo i tre esempi più vistosi di materiale buono rintracciabile nel mondo brostep, ma non sono gli unici. A loro vanno aggiunti nomi meno noti come Sluggo (dotato di un particolare orecchio per il drop più sonicamente stimolante, vedi “Slime ‘Em”, “Spooky Surrender” o “Reckless”), i canadesi Zeds Dead (altri due che il drop lo mettono non per sfizio ma solo se rientra nella dinamica del pezzo, “Rude Boy” spiega tutto) e anche realtà più navigate come Bassnectar (passato da un background heavy metal a singoli dubstep che ne han preservato lo spirito come “Here We Go” o “Upside Down”). Son tanti i personaggi che parlano brostep in maniera intelligente, il segreto sta nel raggiungimento di una propria formula che non abbia l’ossessione (o peggio l’ambizione commerciale) per il drop e la cultura che gli gira intorno. Non a caso una delle compilation più interessanti in tal senso è la Circus One di Pavillon e Doctor P, venuta fuori in un periodo di passaggio tra il precedente dubstep già in fase wobble-addicted e gli eccessi esplosi dopo. È un terreno delicato, che volge già di per sé verso certi estremi, l’esagerazione è un rischio altissimo e quel che ci vuole è un senso di autodisciplina supportato da una teoria solida di base. Fortunatamente la scena è tanto vasta da includere anche personaggi di talento e alla fine la qualità la si può trovare, basta un po’ di ricerca e gusto della scoperta.
Il cattivo
Skrillex ce lo siam lasciati per ultimo, come fuori categoria. Il “Deus ex machina” del brostep ha meriti più storici che stilistici e rappresenta con buon coraggio e la giusta dose di furbizia il riferimento globale del pubblico della scena. Tracce come “My Name Is Skrillex” o “Scary Monsters And Nice Sprites“, per citare due dei suoi più grossi successi, non raccontano nessuna teoria sonica rivoluzionaria e non sono nemmeno arrivate prima degli altri, eppure han fatto da trendsetter, stabilendo un modus operandi di buona presa e facilmente replicabile e dando vita all’inevitabile stuolo di imitatori. Il tutto amplificato dal supporto empatico della cultura emo, che nel caso di Skrillex ha rappresentato il motore ideale per la visibilità globale e la formazione del fenomeno mediatico (ogni fenomeno mediatico, si sa, non ha bisogno di nuove teorie o intuizioni ma dell’incastro di una serie di fattori commerciali di tendenza). E se il polso verso le potenzialità delle mosse d’immagine è il primo punto di forza del personaggio, il secondo è l’abilità a non ripetersi troppo insistentemente, muovendosi in maniera imprevedibile su terreni diversi, rinunciando anche a cavalcare oltremodo i propri successi. È stato lui a ritrarre in maniera più vistosa il passaggio di testimone dal brostep alla fase successiva, vale a dire quella che definiamo più genericamente “drop music”, che si è slacciata dall’eredità -step e ha fatto del drop il suo faro-guida, lanciandolo su tessuti talvolta anche più convincenti come quello house di “Bangarang“. Ed è stato lui uno dei primi a mettersi in discussione, al punto che nell’ultimissimo EP “Leaving” son stati in molti a notare “toh, Skrillex vuol fare Burial”. Segni non solo di un posizionamento inattaccabile nello scacchiere della strategia commerciale, ma anche di un rifiuto a voler sfruttare troppo la cosa in termini di vendite. Lui nel quadro brostep è il tutto ma anche il niente, è ovunque ma è anche il più effimero in termini di struttura stilistica. Quello delle intuizioni modaiole è un terreno impervio, puoi esserne una divinità oggi e un fallito l’indomani. Lui questo lo sa e invece di trattenere stretto lo scettro, vuol solo evitare il crollo. E finora ci sta riuscendo.
Fine della storia, per il momento. Questa è la diapositiva di ciò che è accaduto e sta accadendo al nuovo dubstep. Niente falsi moralismi, nessun preconcetto né necessità di “difesa” dalle opinioni diffuse. Qui ognuno è indicatore a suo modo del fenomeno, ogni nuovo giudizio non fa che integrare il quadro generale. Tocca a voi immergersi nel fango e guardarvi intorno in libertà. Chissà che non ci troviate la vostra prossima fissa.