Dove ci eravamo lasciati? Precisamente qui, al nostro report dello scorso anno (a firma di Alessandro Montanaro) dove avevamo provveduto a trasporre nero su bianco le primissime istantanee di un festival dal concept già rodato altrove ma nuovo a queste latitudini, nel mezzo di una terra vecchia come il mondo ma ancora distante da un certo tipo di eventi, non particolarmente affollato e con un’attendance limitata e particolarmente europeoide (con i soliti inglesi a guidare) ad affiancare una più attenuata rappresentanza autoctona.
Le sensazioni che ci aveva lasciato questo primo ciak dell’Oasis Festival erano state contrastanti: se da un lato l’impegno profuso nel mettere in tavola una proposta artistica degna di molte big room europee per tre giorni consecutivi ed una location sfarzosa e dal fascino esotico avevano sicuramente reso il festival più che degno di una visita, la sensazione che la risposta del pubblico ed alcune imperfezioni (tipiche di chi deve ancora modellare il proprio prodotto) non avessero ripagato gli sforzi compiuti, risultava piuttosto evidente. Il che non voleva suonare tanto come una bocciatura definitiva quanto più come un rimando a settembre (dell’anno dopo, in questo caso) per capire se il messaggio su cosa non avesse funzionato al meglio fosse stato recepito o meno da chi stava dietro le quinte.
Un anno dopo, avendo avuto occasione di prendere nuovamente il polso al paziente in quel di Marrakech, possiamo dire che non solo il messaggio è arrivato forte è chiaro a chi di dovere, ma che la risposta da parte del pubblico nella seconda edizione è stata tale da giustificare a pieno le tante critiche costruttive ricevute al termine della prima.
La combinazione di una line up ancora una volta più che degna di nota, di una nuova location (il The Source), resort di lusso con ambienti molto diversi fra loro, ideali per sfruttare i diversi momenti della giornata nel migliore dei modi, un’area ristoro fornita e ben organizzata (con specialità locali, buonissime, abbinate alle classiche proposte da festival occidentali) ed una platea finalmente numerosa (si parla di 2500 presenze al giorno) e con una forte componente locale sono stati i veri punti di forza del festival. Dando spesso e volentieri vita a momenti di grande empatia che, se vissuti in un contesto così particolare e lontano dai nostri canoni antropologico-territoriali, acquisiscono un fascino tutto particolare, che per forza di cose ne amplifica i toni ed edulcora il retrogusto.
Buona la seconda quindi? Sì, decisamente.
Ma andiamo con ordine e partiamo dalla location: un’autentica oasi in mezzo a terre aride e polverose a Menara, pochi chilometri da Marrakech. Lungo tutta la strada che porta dall’hotel riservato alla stampa (un altro resort di una bellezza abbacinante) si percepisce, forte come una strattonata improvvisa, l’evidente contrasto fra la sensazione di essere decisamente in un Paese non benestante (tra case diroccate, animali in mezzo alla strada e fatiscenze che trovano poco riscontro nel nostro immaginario quotidiano) salvo poi varcare un’immaginaria linea di confine e rimanere sbaragliati di fronte alla prosperità quasi sfacciata degli ambienti a noi riservati. Come ho ripetuto più volte nel corso dei giorni, si aveva un po’ la consapevolezza di stare vivendo in una sorta di bolla, lontani anni luce in un Universo parallelo celato a tutto e tutti.
Ma se da un lato questo tipo di eccessi potrebbero aver disturbato chi, a poche decine di metri, viveva secondi ben altro tenore, va dato merito agli organizzatori di aver dato lavoro quasi esclusivamente a ragazzi del posto, nella maggior parte dei casi efficienti e cordialissimi, che hanno permesso a tutti gli aspetti vitali legati alla buona riuscita dell’evento (logistica, sicurezza, servivi igienici, ristorazione) di funzionare pressochè alla perfezione per tutto il corso del weekend. Un merito che, in questo caso, può e deve valere almeno doppio. Senza dimenticare i tanti, tantissimi ragazzi e ragazze magrebini presenti, festanti ed educati e curiosi ed appassionati. Tanto e come chi aveva viaggiato da altre mete per esserci. Volenterosi di affermare che sì, sulla mappa del clubbing ci vogliono e possono essere anche loro.
E la musica? E’ evidente che gli sforzi compiuti dagli organizzatori sulla componente artistica siano stato davvero importanti, con risultati spesso ripagati e in qualche caso, come normale, leggermente disattesi. La divisione fra il suggestivo stage Oasis, un palco rialzato ad affacciarsi su una piscina sempre colma di raggi di sole, animali gonfiabili e facce sorridenti, e l’Arena, bellissimo anfiteatro incavato nel terreno, ideale per rimettere i propri peccati agli Dei della musica quando il sole andava a riposare dietro alla magnificenza dei monti Atlas, ha offerto (in un solo pacchetto) due tipi diversi di esperienza ai presenti, garantendo oltre dodici ore di musica non stop. Nella giornata di sabato, la più lunga, addirittura diciassette.
Unica pecca il fatto che la lingua di cemento fra il palco e la piscina dell’Oasis rendeva un po’ ristretto il dancefloor una volta che le ore notturne la rendevano meno funzionale, costringendo molti dei presenti a ballarci intorno, andando così un po’ a ledere l’atmosfera a scapito di un dancefloor un po’ sparpagliato. Dall’altra parte, nelle prime ore di festa, chi ha avuto occasione di suonare nell’Arena si è spesso trovato di fronte poche decine di persone, con la maggioranza a preferire l’ambiente rilassato dell’Oasis. Situazione che andava poi a modificarsi nel corso delle ore, anche a causa dei motivi appena citati, rendendo questo stage il vero centro emozionale della manifestazione.
Quello, infatti, da cui sono usciti i due set che si contendono la palma di questo Oasis Festival: Prins Thomas e The Black Madonna. Entrambi hanno stregato tutti (il primo venerdì, la seconda sabato) con la solita macedonia carica di groove d’annata con qualche intersezione più bellicosa, aiutati da un Funktion-One perfettamente tarato e da una folla festosa e ricettiva che si è scatenata per tutta la durata dei rispettivi set. Degnissimi di nota, sempre da queste parti, il carichissimo Massimiliano Pagliara, che ha salutato il tramonto scatenando una pioggia di 808 sui presenti, il piacevolissimo live di Virginia (accompagnata da Steffi e Dexter), dalle atmosfere poppeggianti ma senza mai cadere nel banale, il talento dell’olandese Job Jobse, chirurgico ed essenziale dietro al mixer, ed un talento straordinario come quello di Objekt, che ha alternato in maniera sublime suoni di facile compresione ad evocazioni più spigolose e complesse. Menzione d’onore per la francese Jennifer Cardini, giá presente il cartellone il venerdì e chiamata a sostituire il febbricitante Blawan la domenica, capace di far saltare per aria un’Arena forse mai così piena nel corso dei tre giorni e per gli italianissimi Speaking Minds, già nostri ospiti nella rubrica Giant Steps, che hanno preso possesso della consolle di fronte ad una folla molto risicata e nel corso delle loro due ore di set, forti di una selezione raffinata e mai sopra le righe, sono riusciti a riempire totalmente lo stage tra mani al cielo ed urla di gioia.
Nell’altro stage, quello principale, si sono alternate granitiche sicurezze, piacevoli sorprese e qualche piccola delusione. Fra le sicurezze vanno facilmente a finire due leggende come Derrick May, che il sabato era così felice da suonare fino alle 9 del mattino (un’ora oltre il suo slot prestabilito) e Jeff Mills, a cui è stato affidato il compito di chiudere la manifestazione e l’ha onorato, come sovente accade, nel migliore dei modi. Ero molto curioso di capire come due giganti della techno e dell’underground si sarebbero confrontati con una realtà così inusuale e come la folla locale avrebbe approcciato un suono spesso irto ed elitario. Il risultato, fortunatamente, è stato quello sperato. La musica, del resto, è uno stato d’animo che non conosce distinzioni. E proprio questo è ciò che ha trasmesso anche il set pomeridiano di Motor City Drum Ensemble. Musica come sempre molto retró, passando dalla dub al soul, dalla disco all’acid. Tutto mesciuto perfettamente di fronte ad una piscina forse non colma come ci si sarebbe aspettato nelle prime battute, ma sempre più piena e acclamante man mano che il set esauriva il suo corso. Promozione piena anche per un altro amante del revival come Hunee, sempre incisivo e (complice anche l’orario serale) più concreto a livello di selezione rispetto al connazionale, per i redivivi Booka Shade in versione live e Butch in dj set e per i Tale Of Us, bravi a far scatenare la folla col loro suono asciutto ed incisivo. Cosa che purtroppo non è riuscita a Dixon, che nella chiusura del venerdì ha mantenuto un set piuttosto piatto ed incolore, come raramente ci era capitato di sentire. Succede anche ai migliori.
Tra le grandi rivelazioni troviamo invece lo strepitoso live di Rodriguez Jr. che, forte di un setup basico ma ben studiato, ha saputo stregare tutti e potrebbe tranquillamente portarsi a casa il ruolo di miglior live della manifestazione. Condizionale dovuto solo alla fantasmagorica (ed attesissima) performance offerta la domenica da Sua Maestà Omar Souleyman. Se da noi in Europa l’arrivo di questo cantautore siriano è sempre stato apprezzato più come una simpatica “macchietta” esotica capace di farci divertire come pazzi senza una spiegazione razionale (se non quella di essere tutti segretamente in attesa di sentire “L’Amour Tojours” al Berghain), in Marocco in tanti ne conoscevano a memoria i brani, ne invocavano a gran voce il nome e si sono scatenati come pazzi durante tutto il corso della sua esibizione, accanto ai tanti stranieri accorsi probabilmente (come detto) per motivi diversi, ma non meno propensi a fare salti alti un metro di fronte al palco. Il live di Omar Souleyman ha solcato un immaginario trait d’union fra Occidente ed Oriente che non chiede e non da spiegazioni. Si balla e basta, tutti, senza obiezioni.
E forse è stata proprio questa la vera qualità che questo festival ha potuto vantare, oltre a tutto ciò che è stato elencato in precedenza. La grande voglia di condivisione, di confronto, di scoperta fra persone provenienti da culture diverse. Senza che una delle parti si arrogasse alcun diritto di predominanza. Del resto la musica, da sempre, ha saputo abbattere qualunque muro le sia stato posto di fronte. E se anche un festival di musica elettronica non può permettersi il lusso di far crollare pareti alte come le montagne che lo sovrastano all’orizzonte, può (anche solo per un weekend) creare una sinergia capace di colpire chi lo ha vissuto più a fondo di qualunque divisione la società attuale cerchi di imporre. Anche da dentro una bolla.
Questa è stata la nostra oasi, questo è stato Oasis Festival.