[tabgroup layout=”horizontal”]
[tab title=”Italiano”]Sin dalle su prime apparizioni Objekt si è fatto riconoscere e si è distinto per un approccio non convenzionale ai diversi generi e sub generi musicali toccati, per una ricchezza sonora ed una cura dei dettagli rare da trovare. Ha stupito e continuato a sviluppare un proprio percorso musicale, caratterizzandolo e personalizzandolo uscita dopo uscita. “Flatland” primo album, pubblicato su PAN, è l’ultimo, importante tassello di questo percorso. Un altro passo in avanti, in grado di mostrare differenti e più complessi aspetti della personalità musicale e non dell’artista berlinese, un album idealmente costruito per mostrare “versioni contrastanti di una medesima verità”.
Inizierei col parlare di “Flatland” il tuo primo album in uscita su PAN, davvero un ottimo lavoro. Da dove nasce l’idea e la decisione di dare vita ad un album, di confrontarsi con un formato più lungo e complesso rispetto ad un EP?
Comporre un album è qualcosa su cui ho riflettuto per un po’ di tempo, in particolar modo durante quei periodi in cui non trovavo ispirazione o ero disilluso dalla musica da club. Penso che quando passi la maggior parte del tuo tempo a scrivere tracce che debbano adempiere ad una specifica funzione, è facile dimenticare il fatto che la musica esista oltre quello scopo. Per me, dar vita ad un album, è stato come avere l’opportunità di creare musica che non dovesse per forza essere più di tanto funzionalmente rigida (con riferimento ad un club) ma che, allo stesso tempo fosse in grado di esprimere me stesso più liberamente di quanto sia possibile all’interno di tracce pensate per un club, utilizzando inoltre il formato più lungo per creare un percorso narrativo irrealizzabile con un singolo o un EP.
Sebbene l’album sia stato scritto tra il 2012 e il 2014, si ha l’impressione di essere davanti ad un nuovo Objekt, ad un’evoluzione nelle sonorità (richiami IDM, industrial) accompagnata dalla stessa cura nei dettagli ed originalità di soluzioni. Quanto, le 11 tracce dell’album, sono differenti rispetto alla loro forma originaria e cosa ti ha spinto, influenzato in questa direzione?
Dipende. Molte delle tracce sono il risultato finale del mio usuale processo lavorativo – prendere delle demo e stravolgerle fino a renderle irriconoscibili, ripetutamente, sostituendo alcuni canali e processandone pesantemente altri. Altre tracce sono invece state elaborate abbastanza velocemente (per i miei standards!), con la sola aggiunta conclusiva di alcune rifiniture. Una è il risultato di una registrazione live. Un altro paio, datate 2012, sono state incluse più o meno immutate, con l’aggiunta di pochi ritocchi. Ogni traccia ha la propria storia. Per quanto riguarda le fonti di ispirazione e le influenze dietro l’album, suggerirei di andare a dare un’occhiata al mix “Destination Flatland” registrato recentemente per Self Titled Magazine, in cui ho inserito alcuni dei brani che ero solito ascoltare e da cui ho sentito di essere stato suggestionato durante la creazione dell’album.
Secondo te, cosa dona uniformità al complesso del lavoro?
Ho speso molto tempo a valutare se l’opera funzionasse come album ed essendo il mio processo lavorativo laborioso già di per sé, non ho propriamente avuto la possibilità di registrare 30 demo tra cui poi effettuare una selezione. Ho dovuto quindi lavorare con ciò era presente, in molti casi modificando alcune tracce in modo significativo, in modo che si adattassero alle altre. Alcuni suoni e motivi ricompaiono legando insieme l’album, le armonie, la malleabilità “sonica” di alcuni degli effetti e l’architettura sonora, le percussioni, i titoli – tutte queste cose hanno finito per rapportarsi a vicenda più di quanto mi fossi aspettato inizialmente (e questo a dirla tutta ha ispirato il tema dell’album, descritto più precisamente in seguito). Al di là di ciò, l’uniformità deriva da ciascuna distinta personalità musicale. Penso (o almeno spero) di scrivere musica che mi rappresenti, come ciascun buon produttore dovrebbe fare.
Il comporre un album ha influito in qualche modo sul tuo metodo di lavoro, descritto come molto elaborato, rispetto alle precedenti produzioni?
Non proprio, generalmente parlando.
Cosa ti spinge ad andare sempre oltre, a ricercare quel livello di precisione, di dettaglio che caratterizza le tue produzioni?
Sono un perfezionista. Il più delle volte è impossibile o concretamente irrealizzabile, soddisfare questo bisogno ma, per quanto riguarda la musica elettronica, posso continuare nel mio operare fino a quando non rimane nulla da modificare.
Il titolo dell’album richiama l’omonimo racconto di Edwin A. Abbott, ci potresti spiegare il motivo di questa scelta e qual è il punto di contatto tra le due opere?
Ho accennato in precedenza al fatto che durante il processo di creazione di una certa coerenza tra le diverse tracce dell’opera, l’album ha finito per essere ripetutamente segnato da una serie di riferimenti incrociati, riprese e narrazioni collegate tra loro. Questo ha iniziato per ricordarmi quel concetto della stessa storia raccontata più volte in modi diversi, come uno strano oggetto in grado di proiettare un’ombra differente in base a come sia illuminato. Allo stesso tempo, sono rimasto affascinato dall’idea di poter ricostruire una singola oggettiva verità attraverso una serie di opinioni contrastanti o considerazioni, in parte influenzato in ciò dalle opinioni completamente orientate che circondavano la maggior parte delle questioni riportate al tempo dai notiziari, ma anche per altri motivi riguardanti la mia sfera personale. Tutto ciò ha finito per evolversi in un’idea per l’album. Non lo chiamerei propriamente un album concettuale, ma ciò che vi sta dietro – in parole semplici, “versioni contrastanti di una medesima verità” – ritengo portino ad una coesione ideale per l’album. Il tutto è correlato a “Flatland” in quanto ero alla ricerca di un titolo che potesse in qualche modo tradurre quest’idea di provare a determinare una verità oggettiva attraverso diverse influenze e considerazioni conflittuali fra loro. Il racconto che hai menzionato, che oltretutto è un piccolo bellissimo libro, è ambientato in un mondo 2D (Flatland) all’interno del quale gli abitanti, rappresentati da differenti forme geometriche (triangoli, quadrati, etc…), possono vedersi esclusivamente di lato, da un unico punto di vista. Ed ovviamente da una prospettiva esclusivamente laterale, un forma 2D risulta essere come una linea – col risultato che per determinare la reale forma della persona, occorre dedurla attraverso il tatto o dalla distanza in quanto essendo una persona in 2D, è impossibile osservare qualcuno dall’alto. Ed è solamente quando il protagonista, un quadrato, riceve la visita di una sfera in 3D che diviene in grado di abbandonare la sua dimensione/piano di esistenza 2D per poter vedere la propria patria come una mappa, realizzando in un colpo solo come sia possibile osservare il tutto in una volta: improvvisamente, da quel nuovo punto di vista, può disporre della verità geometrica in qualsiasi momento. Richiamando la parabola dei ciechi e dell’elefante, finalmente la verità di ciascun punto di vista soggettivo può essere riconciliata con le altre verità, degli altri punti di osservazione. Quindi anche se la seguente analogia con il racconto non è per mia stessa ammissione al 100% ammissibile, Flatland per me rappresenta comunque l’immagine di un mondo nel quale ogni entità o situazione complessa può essere vista chiaramente, da ogni angolatura, in unico momento.
Da alcune tue precedenti affermazioni mi sembra di individuare almeno due aspetti della techno che ti hanno avvicinato e sedotto: in primo luogo l’attrazione per l’estetica delle diverse “macchine”, e da questo punto di vista come tale attrazione si è sviluppata? Consideri i tuoi studi in ingegneria legati a tale interesse?
No, è successo tutto molto tempo prima che studiassi ingegneria. Ricordo che uno dei primi pezzi di musica elettronica che ascoltavo era “Dael” degli Autechre, avrò avuto più meno 14 o 15 anni e nella mia testa prendeva forma l’immagine del locale più strano che potessi immaginare, al cui interno le persone ballavano in un modo stravagante ed imbarazzante ascoltando una musica eccentrica, contorta e meccanica come quella(ovviamente all’epoca non avevo ancora messo piede in un vero e proprio club). Nessuno all’interno di quell’immagine sembrava si stesse davvero divertendo, ma avvertì che qualcosa di quella rigorosità tipica di quelle macchine stava avendo influenza su di me, un’influenza che mi avrebbe accompagnato per lungo tempo, sino ad adesso.
Ed ora come ora, dato il tuo livello di conoscenza ed esperienza, producono ancora lo stesso effetto?
A volte. In altre occasioni sento invece che questo aspetto estetico si è completamente perso negli anni. Spesso ciò che manca secondo me è l’anima. Ma naturalmente, ognuno ha idee differenti rispetto a cosa l’anima sia.
In secondo luogo, se non sbaglio, fu una certa profondità della techno ad attrarti, una profondità non sempre rinvenibile all’interno di un club. Che rapporto hai con i club di oggi? Potresti citare un locale, una situazione in cui sei riuscito a percepire quelle sensazioni che ricerchi nella musica e in particolar modo techno?
Penso che il termine “profondo” sia problematico e non ricordo di averlo usato specificatamente. Può avere molti significati diversi a seconda delle persone. La musica scarna, accompagnata da bassi pesanti e molti riverberi è spesso definita come “deep”; anche se nella maggior parte dei casi la chiamerei semplicemente “noiosa”. Forse ciò a cui ti riferivi è quel senso di impenetrabilità a cui ho alluso in altre occasioni. La qual cosa, per un certo periodo di tempo, è stata sicuramente al centro delle mie ricerche – quando inizialmente entrai a contatto con la techno tutto ciò che si presentava come ripetitivo, basato su loop ed ipnotico era circondato da una sorta di aria snob. Ad oggi comunque sono meno interessato a questi aspetti, in parte perché ci sono alcuni, pochi, artisti (come Dozzy) in grado di tirar fuori cose molto belle ed in parte perché quando il lavoro è fatto male, suona semplicemente davvero noioso. Quando non mi trovo in giro per suonare, non mi capita così spesso di uscire per andare in un club, forse una volta ogni 4-6 settimane o qualcosa del genere, normalmente per bere qualcosa e vedere amici suonare. Ad essere onesti sono il più delle volte sono contento di sedere al bancone ed ascoltare la musica facendo altro, con la coda dell’orecchio. Tuttavia quando capita meno frequentemente, di uscire per così dire, “propriamente”, sono alla ricerca delle stesse cose, da sempre – una sensazione di immersione tra lo spazio e il soundsystem, un pubblico con cui riesca a sentirmi come a casa, un’energia condivisa con le altre persone in pista, la percezione intangibile per cui ogni forza in quella sala sia in qualche maniera allineata. E penso che i locali in grado di raggiungere ciò siano stati già abbastanza documentati.
Hai intenzione di proporre una versione live dell’album?
No, non per quest’album. Spero forse in futuro ma per ora non ho ancora progetti in proposito.
Su cosa hai intenzione di concentrarti nel prossimo futuro?
Ho trascorso le ultime due settimane lavorando al video di “Second Witness” che dovrebbe, si spera, essere finito per l’inizio/metà novembre. Non ho mai lavorato prima su qualcosa del genere e onestamente sono felice per questo video tanto quanto per l’uscita dell’album. Si tratta di una collaborazione tra Rachel Buehlmann, un artista svizzero che opera in un contesto a cavallo tra suoni, sociologia e fotografia; la mia ragazza Nine Yamamoto, un’artista franco-giapponese, curatrice e candidata per un Phd in studi dei media/teoria critica; Joe Dilworth, il fotografo inglese che ha curato la copertina dell’album e me. Il video è stato per lo più girato utilizzando una funzionalità della nuova videocamera di Rachel (dotata di un foro stenopeico in grado di offrire una visone multi prospettica di un singolo attimo di tempo); l’idea consiste in una complessa scena congelata e catturata da molteplici angoli nello stesso momento, in modo da richiamare sia il tema su cui si basa l’album sia il nome della traccia. L’oggetto della visione e le sue limitazioni sono presenti in tutta l’opera e trova un’espressione visuale nella scelta dell’obbiettivo, nella decisione consapevole di riprendere tutto su pellicola (non ci siamo esattamente semplificati la vita) e nella selezione dei motivi che volutamente vacillano lungo confini figurativi ed astratti, familiari ed estranei. Sono quindi speranzoso che per metà novembre sia tutto terminato, dopodiché dovrei essere in grado di ricominciare a produrre musica. Da lì in poi, chi può sapere.[/tab]
[tab title=”English”]Since Objekt’s first appearances, he has distinguished himself through an unconventional approach towards various genres and sub-genres and through a particular rich sound and a rare attention to details. He has kept up developing his own musical career path, even more customized and personalized release after release. His first album “Flatland”, released on PAN, is the latest important step of this same path. Another step forward, able to point out different and more complex aspects of the musical personality of the Berliner artist. An ideally built album to show us “conflicting versions of the same truth”.
I’d start by talking about “Flatland”, your first album released on PAN and indeed a really good work. Where did the idea and decision to create an album and to tackle with a longer and more complex format compared to an EP come from?
Writing an album was something I had been mulling over for some time, particularly during periods where I was uninspired or disillusioned by club music. I think when you spend most of your time writing tracks that need to fulfill a specific function, it’s easy to forget that music exists beyond that purpose. To me, writing an album was about creating the opportunity to write music that doesn’t need to be so rigidly functional (in a club sense) in order to express myself more freely than is possible on a club record, also using the longer format to create a narrative that isn’t possible with a single or EP.
Although the album had been written between 2012 and 2014, “Flatland” gives the impression of a brand new piece of work, with an evolution in the sonorities (recalling IDM, industrial) together with the usual attention to details and an original approach. How far are the 11 tracks of the album different from their original form? And what did inspire and influence you in that direction?
It varies. Many of the tracks are the end result of my usual working process – taking demos and twisting them beyond all recognition, repeatedly, replacing some channels and heavily processing others. Other tracks were laid down fairly quickly (by my standards!), with only a few layers of polish on top. One was jammed out live. A couple of the tracks from 2012 were included more or less unchanged, with only a few tweaks. Each track has its own story. As for the inspirations and influences behind the album, I’d suggest checking out the “Destination Flatland” mix I recorded recently for Self-Titled magazine in which I compile some of the records I was listening to and felt affected by during the course of writing the album.
According to you, what gives uniformity to this piece of work?
I spent a lot of time examining whether the record worked as an album. My working process being as laboured as is it, I didn’t really have the option of recording 30 demos to select from. So I had to work with what was there, in many cases changing tracks significantly in order to fit the others. Certain sounds and motifs began to reappear, tying the album together – the harmonies, the sonic “plasticity” of some of the effects and sound design, the drums, the titles – all of these things ended up referring to each other more than I had initially expected. (This actually inspired the theme of the album, described in more detail below). Aside from all that, uniformity comes from any distinct musical personality. I think (or at least hope) I write music that sounds like me, like any good producer should.
Has composing an album influenced your work method (described as very elaborate) compared to your previous productions?
Generally, not really.
What motivates you to go always further and further, to look for such a level of precision and detail characteristic of your productions?
I’m a perfectionist. Most of the time, this desire is impossible or impractical to fulfil, but in making electronic music I can keep going until I feel there’s nothing left to change.
The album name recalls the homonymous tale of Edwin A. Abbott. Could you tell us more about the reason why you chose that title? And what do the two pieces of work have in common?
I mentioned above that in the process of creating some cohesion across the disparate tracks on the record, the album ended up riddled with cross-references, reprises and interlinked narratives. This began to evoke in my mind the notion of the same story being told multiple times in different ways, like a strange object casting a different shadow depending on how it’s lit. In parallel, I had become fascinated by the idea of reconstructing a single objective truth from a series of conflicting opinions or accounts, partly inspired by the utterly polarised opinions surrounding most of the issues being reported on in the news at the time and also by stuff going on in my personal life. This ended up evolving into a theme for the album. I wouldn’t call it a concept album per se, but I think the theme – loosely speaking, “conflicting versions of the same truth” – does lend a bit of conceptual cohesion to the record. This all relates to Flatland because I was looking for a title that would somehow convey this idea of trying to determine one objective truth from several biased, conflicting accounts. The novella you mention, which is a great little book by the way, is set in a 2D world (Flatland) in which the inhabitants, various 2D shapes (triangles, squares etc) can only see each other from the side, from one point of view. And of course from the side, a 2D shape looks like a line – the actual shape of the person has to be inferred by touch or by distance, because as a 2D person you can’t see anyone from “above”. Only when the protagonist, a square, is visited by a 3D sphere is he able to leave his own 2-dimensional plane and view his homeland like a map, realising in one fell swoop that it’s possible to see everything at once: suddenly, from his new vantage point, he can the full geometric truth in any situation. Recalling the parable of the blind men and the elephant, finally the truth in each subjective viewpoint can be reconciled with the truths of the others. So, while the following analogy with the novella admittedly isn’t 100% bulletproof, Flatland, to me, imagines a world in which any complex thing or situation can be seen clearly, from every angle at once.
According to your previous statements, it seems that mainly two aspects of techno music touched and seduced you: firstly, the aesthetic of machinery. How did you develop such an attraction? Do you think your engineering studies played a role in that attraction?
No, this was long before I studied engineering. I remember hearing “Dael” by Autechre for the first time when I was maybe 14 or 15, as one of the first pieces of electronic music that I’d encountered, and in my mind I formed a picture of the strangest nightclub I could imagine, with people dancing in weird and uncomfortable ways to bizarre, contorted, mechanical music like this. (I had obviously never set foot in a real club at this point). Nobody in this apparition looked like they were having any fun. But I felt something really inspiring in that machinelike austerity which stayed with me for a long time, even now.
And right now, given your level of knowledge and experience, do those machines still produce that same effect on you?
Sometimes. Other times I feel this aesthetic has been done to death in recent years. Often what’s missing in my opinion is the soul. Of course, everyone has a different idea of what soul is.
Secondly, what also seduced you about techno music was the kind of deepness of it; a deepness that sometimes can be hard to find inside a club. What is your relationship with clubs today? Could you mention a particular place or situation where you managed to feel that depth you’re looking for?
“Deep” is a problematic word, I think, and I don’t remember using that word specifically. It can mean so many things to so many people. Music which is sparse and sub-heavy, with lots of reverb, is often referred to as “deep”; whereas in most cases I’d just call that “boring”. Maybe what you’re referring to is the sense of impenetrability I alluded to above. Which, for a time, was certainly what I was looking for – when I first got into techno years ago there was a certain snobbish appeal in the really repetitive, loop driven, hypnotic stuff. But these days I’m less interested in that side of things, partly because there are so few people who can pull it off as well as Dozzy and when it’s done badly it’s just really boring. When I’m not gigging I don’t go out clubbing all that regularly these days, maybe once every 4-6 weeks or something, generally just for a drink or to see a friend play. So to be honest, I’m often quite content to sit by the bar and listen out of the corner of my ear. But on the less frequent occasions where I go out “properly”, as it were, I still look for the same things as I always did – a sense of immersion from the soundsystem and the space, a crowd with whom I feel at home, a shared energy with the people on the dancefloor, that intangible feeling that every force in the room is somehow aligned. I think the clubs that manage to achieve this are already quite well documented.
Are you planning to bring a live version of the album?
Not this album, no. Hopefully some time in the future, but I have no plans for this just yet.
What do you plan to focus on in the near future?
The past few weeks of my life have been consumed working on the video to Second Witness, which should hopefully be finished by early/mid-November. I’ve never worked on anything like this before and frankly I’m as excited about the video as I have been about the album. It’s a collaboration between Rachel Buehlmann, a Swiss artist operating within the frameworks of sound, sociology and photography; my girlfriend Nine Yamamoto, a French-Japanese artist, curator and Media Studies/Critical Theory PhD candidate; Joe Dilworth, the British photographer who took the cover photo for the album; and myself. The video is mostly shot using Rachel’s novel camera technique (a pinhole camera array offering a multi-perspective view of one moment in time), the idea being that a complex scene is frozen and captured from multiple angles at once, echoing both the theme of the album and the name of the track. The theme of vision and its limitations runs through the piece and finds visual expression in the choice of cameras, the conscious choice to shoot everything on film (we haven’t exactly made life easy for ourselves) and the choice of motifs, which purposefully teeter on the boundaries between figurative and abstract, familiar and alien. So hopefully that should be done by mid-November and after that I should be able to start making music again. From there, who knows.[/tab]
[/tabgroup]