Fra i molti motivi che ci sono per segnare col circoletto rosso questa edizione 2016 di Club To Club uno di questi è ovviamente la presenza di Dj Shadow. Che presenterà un set particolare, dove ci sarà molto “Endtroducing” (a vent’anni dalla sua uscita, continua ad essere un disco monumentale, geniale, irraggiungibile) così come ci sarà spazio pure per qualcos’altro. Però ecco, il passato giocherà un ruolo importante. Abbiamo voluto quindi concederci una intensa chiacchierata coll’artista californiano parlando soprattutto dei primi anni della sua carriera. Ne sono venuti fuori aneddoti particolari, racconti emozionanti, ricordi anche dolorosi. Non poteva essere altrimenti, quando si ha a che fare con uno dei più importanti producer a tutto tondo – non solo in campo hip hop – degli ultimi vent’anni e passa.
Vorrei andare ai primissimi anni della tua carriera, a quello che è successo prima ancora di “Endtroducing”, delle prime release con la Mo’ Wax. Ad esempio in pochi sanno che tu ti eri ritrovato nel team produttivo di Paris, una leggenda del rap più incazzato e politicizzato degli anni ’90, ad esempio c’è del tuo anche in quel capolavoro che è “The Days Of Old”. Cosa ti ricordi di quegli anni?
La memoria è molto viva. Mi ricordo molto, moltissimo. Allora: Paris andava nella mia stessa università, lui si è laureato lì un anno prima che io vi entrassi come matricola; quindi insomma, giravamo un po’ nelle stesse zone. Bisogna tornare indietro al 1987, io ero giovanissimo, avevo quindici anni o giù di lì, ma già allora la musica era la mia vita, l’hip hop pure, quindi nulla di strano che andassi spesso nello studio dove si registrava l’unico show radiofonico dedicato al rap nella zona, in onda su una college radio. Bene. Un giorno ci entrò dentro Paris: non era allora una star affermata, tutt’altro, era entrato lì per portare direttamente alla redazione il suo primissimo EP. Entrando dentro mi vede e fa “Oh, ma che ci fa un ragazzino qui?”. Non mi sono certo fatto intimidire – sai com’è, l’incoscienza dell’adolescenza. Mentre faceva sentire a tutti questo suo lavoro d’esordio, io ad un certo punto mi intrometto “Ah sì, questo campione lo conosco… quest’altro pure… Oh, qua in questa parte ci starebbero bene degli scratch, che ne pensi se te li faccio io?”, con lui che mi guarda tra il perplesso, il seccato e il meravigliato. Però devo essergli rimasto impresso. Perché quando dopo un po’ il suo dj di fiducia lo lasciò, lui venne a cercarmi. Si fece dire dove andavo in studio e arrivò lì. “Bene, fammi vedere che sai fare”. E’ stata un’esperienza fondamentale, collaborare con lui: ho imparato tantissimo. Inoltre molta gente ha una immagine sbagliata di Paris come persona: ascoltando i dischi, si immagina che anche nella vita normale sia uno intrattabile, polemico, accigliato, sempre incazzato. Invece è veramente alla mano, e anzi di suo è una persona molto divertente, con un grande sense of humour e una grande simpatia.
Poi, dandoti da fare, mandando demo in giro, è arrivata la Mo’ Wax. Che in effetti è una cosa bizzarra di suo – che ad accorgersi di te sia una label proprio di un altro continente. Però da lì hai iniziato a farti conoscere, è iniziata la tua ascesa – dall’altro capo del mondo. Mi viene quasi da fare un parallelismo con la techno, coi suoi grandi padri fondatori di Detroit: a casa erano considerati degli sfigati un po’ picchiatelli, in Europa fin da subito degli eroi degni di tutti gli onori.
Però la mia storia è leggermente diversa da quella di Juan Atkins e gli altri. I loro brani vennero presi in licenza da label europee ma già esistevano, io invece partii proprio da zero con la Mo’ Wax. L’inizio fu “In/Flux”, 1993 se non sbaglio, e sull’onda di quella prima uscita mi trovarono qualche prima data europea, ad esempio in Germania. Ecco, quello fu pazzesco. Perché sai, io non arrivo da una famiglia ricca. Non avevamo soldi, di viaggiare non se ne parlava, anzi, mia madre credo proprio che all’epoca non fosse mai uscita dalla sua città di residenza… Quindi ecco, figurati, andare in Europa – essere pagato per farlo – sembrò a noi tutti a casa una cosa enorme, enorme! Mi ricordo ancora adesso la sua felicità, il suo orgoglio. E pure io ero parecchio felice ed orgoglioso… Anche perché sapevo che mi stavo mettendo nelle mani della persona giusta. James Lavelle infatti era l’unico che in quel momento dimostrava di avere una fiducia reale in me. Io avevo infatti mandato una quantità enorme di demo in giro, ovviamente prima di tutto ad etichette americane, e lì era tutto un “Bello eh, interessante, però ecco, perché non semplifichi un po’ le cose? Perché non togli certi suoni che non si capisce bene cosa sono? Fai le cose un po’ più normali, ragazzo, dai che ce la puoi fare…”. James no. James mi diceva esattamente il contrario. “Cazzo sì! Vai avanti! Insisti! Ne voglio ancora! Ancora più strano! Ancora più sorprendente! Fidati di te stesso, amico, non farti problemi ad essere il più visionario possibile, perché proprio questa è la tua “voce”…”. Gli sono veramente grato, lo sarò sempre: il suo incoraggiamento è stato fondamentale, il fatto di poter iniziare la mia carriera con a fianco una persona che crede così tanto in te così come sei ha fatto la differenza. Comunque ecco, prime date in Europa: vanno bene, torno a casa, Lavelle mi dice “Ehi, sei piaciuto, ora devi pure tornare, non finisce qui sai”, e insomma, il resto è abbastanza storia.
Ti sentivi un americano in giro per l’esotico Vecchio Continente, un po’ divertito un po’ stranito e comunque un po’ distaccato, o è stata un’esperienza molto più immediata e naturale?
Mi sentivo fortunato. La sensazione principale era questa. Grato. Sentivo che si stava realizzando un sogno. Mi era chiarissimo di essere in posti completamente diversi dagli Stati Uniti, come realtà, come attitudine: e la cosa mi piaceva un sacco (…e continua a piacermi ancora adesso, adoro viaggiare, adoro entrare in contatto con culture diverse). Per dire, in quel periodo scoprii Asterix, il fumetto, e mi esaltai tantissimo!, andai perfino apposta nel nord della Francia per vedere come erano quei luoghi dove era ambientato il tutto. E poi l’Italia, una meraviglia: Roma, Firenze, Milano… E’ stato tutto bellissimo, scoprire luoghi come questi è stata una esperienza di valore inimmaginabile.
Che valore dai invece all’esperienza di “Psyence Fiction”? L’esordio del progetto U.N.K.L.E., inizialmente una cosa a due tra te e Lavelle, ma soprattutto un album circondato dall’attesa e dall’hype prima ancora che uscisse, zeppo di ospiti speciali, c’era un po’ il jet set dell’indie rock dell’epoca (Richard Ashcroft e Thom Yorke, giusto per dare un paio di nomi) e all’epoca quella commistione era vista come quasi inedita e comunque esplosiva, fascinosissima (e fashionista). Venne accolto e giudicato in maniera abbastanza controversa: per qualcuno un successo, per altri un flop fragoroso. Per te?
Dal mio punto di vista, è stato un lavoro estremamente complesso. Niente party, niente jet set per me. Zero. Per James magari fu più divertente: lui poteva godersela un po’ di più, parlare di massimi sistemi con la gente coinvolta nel disco, non doveva stare lì ore ed ore ad affinare i beat, a sistemare bene la sezione archi dentro i pezzi, cose così – quelle erano faccende che mi smazzavo io e accidenti se è stata una fatica, anche perché non esisteva alcun “template” precedente, stavamo creando qualcosa di davvero nuovo ed inedito musicalmente parlando. Vuoi la parola giusta che riassuma la lavorazione di quel disco, per me? Eccola: pressione. C’era una quantità tremenda di aspettative e, ti dirò, nemmeno tanto da parte del pubblico e dei media (che pure premevano molto) quanto proprio da parte di James e di tutti i discografici che ruotavano attorno al progetto. Erano tutti consapevoli del potenziale enorme del disco, e quindi mi mettevano addosso una pressione enorme. Io lavoravo, lavoravo, lavoravo. Niente party per me, niente jet set dell’indie rock. Manco lo avessi voluto. Solo duro lavoro, stop. Questo ha portato progressivamente anche al deterioramento in quel periodo del rapporto tra me e James. Insomma, fu un’esperienza dura. Quindi quando la gente parla di “Psyence Fiction” come di un disco intriso di hype e anche modaiolo, beh, per me non c’è stato un cazzo di hype e di modaiolo nel farlo. Comunque, per me quel disco lì è prima di tutto un disco onesto, innocente quasi: perché era davvero concentrato sulla musica, sul tentativo di fare qualcosa di musicalmente nuovo e diverso. Credimi. Il centro focale era lì. Quindi capisci quale fu la mia delusione quando, a disco uscito, un sacco di recensioni si focalizzavano su James, sul suo taglio di capelli, sul suo abbigliamento, sul suo essere o meno un pallone gonfiato pieno di amichetti VIP nel mondo dell’indie, su tutte ‘ste cazzate qua. Quasi nessuno, maledizione, parlava della musica. Quasi nessuno. Eppure io ero molto soddisfatto del risultato. Certo, era un disco imperfetto e lo sapevo. Ne ero perfettamente consapevole. Mancavano ancora dei ritocchi, mancavano ancora dei miglioramenti. Certo. Però avevamo finito il tempo, avevamo finito i soldi, dovevamo farlo uscire e basta.
Ma era ok.
Sì, credo di sì. Credo che chiunque lavori ad un progetto che nasca come molto ambizioso avrà sempre la sensazione, una volta che questo progetto vede la luce definitiva, che si poteva fare di più, si poteva fare di meglio, si poteva rifinire ancora. Ci sono stati molti passaggi del cazzo, durante la lavorazione del disco. Prendi la canzone in cui c’era Badly Drawn Boy: una canzone importante, doveva essere addirittura il primo singolo, sembrava tutto a posto, poi un bel giorno lui cambia management e il suo manager nuovo arriva da noi e ci dice “Non si può fare, non può essere il primo singolo, dobbiamo rinegoziare il contratto se volete che lo diventi, anzi, sapete che c’è, dovete rinegoziare il contratto per la partecipazione del mio assistito al vostro progetto sennò il pezzo non esce e basta”. Bene: ciao singolo con Badly Drawn Boy. Fatto e finito. Non immagini la frustrazione, la rabbia…
Però se ripensi a quegli anni, quanto sono cambiate le cose rispetto ad oggi? Aggiungo: quanto sono peggiorate? All’epoca era ancora possibile che un progetto non strettamente mainstream come l’esordio del progetto U.N.K.L.E. avesse un budget importante, oggi sarebbe fantascienza. Ok che fare i dischi costa molto meno di un tempo, però resta il problema. Perché costerà anche di meno fare un disco, ma si guadagna anche molto di meno ma proprio molto di meno facendone uscire.
Noi due ci siamo incontrati quasi quindici anni fa la prima volta, giusto?
Esatto, a Rimini. Guarda caso spendemmo poi tutta la domenica, sotto il sole feroce d’agosto, alla ricerca di un negozio di dischi aperto. Senza riuscirci, ovviamente. A proposito di dischi e della loro importanza. Ah ecco, già che ci siamo, sei ancora così maniacale nel cercare negozi di vinili quando vai in giro?
Mettiamola così: anni fa – e mi ricordo di quel pomeriggio, guarda – era un po’ l’età dell’oro per noi cercatori di vinili. Perché internet non c’era ancora. Cercare dischi aveva ancora una valenza importante prima di tutto per il proprio arricchimento musicale, i vinili non erano visti – come succede un po’ ora – esclusivamente come dei trofei da conquistare e da ostentare. Andavi in cerca di vinili assurdi perché quello era l’unico modo per raggiungere e scoprire certi suoni. Oggi, invece, c’è il web. La differenza è enorme. C’è poi un’altra cosa da dire: tra gli anni ’90 e l’inizio del 2000 ho comprato in giro talmente tanti dischi che erano, ecco, troppi. Ragionevolmente, non avrei mai avuto il tempo di ascoltare e processare a fondo gli input che l’ascolto di quei dischi mi poteva dare. In tal senso, con tutto quello che ho già in archivio forse sono già a posto per il resto della mia vita, volendo: adesso se vado per negozi di dischi è solo perché conosco già il proprietario, gli avventori, insomma è più un piacere sociale che una necessità da artista e da producer.
Però dicevamo del valore e dell’importanza dei dischi, delle release discografiche: torniamo su quel punto.
Beh, lo stai dicendo ad uno che appunto per anni si è concentrato molto sul fare dischi – per questo ti dicevo prima “Ci conosciamo da molto”, insomma, conosci bene la mia carriera. Un tempo facevi uscire qualcosa, la gente ti ricompensava per la tua arte, i soldi guadagnati tu li usavi per fare un altro disco. Se i soldi erano molti, li usavi per comprare anche attrezzatura migliore in studio che ti permettesse di fare un disco nuovo sperabilmente ancora migliore. Oggi, invece? L’unico modo per guadagnare veramente è essere in giro, suonare in giro. Suonare, suonare, suonare. Col risultato che secondo me siamo arrivati ad una situazione quasi di eccesso di offerta: in giro ci sono sempre più show, sempre più set, sempre più tour, e per una inevitabile legge di mercato questo porta a diminuirne il valore, e diminuisce anche il valore della musica in sé. Mi rendo conto che una analisi di questo tipo è particolarmente fredda, cinica, poco emozionale. Però temo proprio che sia corretta. Io dal canto mio cosa posso dire, cosa posso fare? Cerco di arrivare ad un giusto compromesso con quella che è la realtà attuale, con le sue condizioni che sono mutate nel tempo. Penso che anche oggi sia ancora possibile trovare il giusto compromesso tra passione e necessità economiche, penso che ancora oggi sia possibile ad uno status di “successo” (che significa fondamentalmente sopravvivere con la propria musica…) che sia ragionevole e che non ti fagociti e non ti rincoglionisca. Ma oggi è molto più di difficile di un tempo. Non nascondiamocelo, non diciamoci bugie.
E senti, il rap e la cultura hip hop come stanno? Sempre senza bugie.
Sicuramente buona parte del rap che sento alla radio oggi non ha più nulla a che fare con la cultura hip hop. Non per questo è per forza musica poco interessante: c’è molto rap contemporaneo che mi piace. Senza contare che spesso quelli che si richiamano alla “vera cultura hip hop” lo fanno come scusa per giustificare una musica vecchia, reazionaria, che guarda al passato e non al futuro. Ecco, quello è un atteggiamento che non voglio avere, davvero. Io voglio guardare alla musica che è capace di relazionarsi col futuro, che alza il livello, che cambia i confini, che setta nuovi trend. Se ci pensi, è esattamente quello che facevano la cultura hip hop e la sua musica quando io ero piccolo, o comunque andavo al college. Dobbiamo guardare verso il futuro. Sempre. Fieri e consapevoli delle nostre radici, chiaro, ma lo sguardo deve o dovrebbe essere verso il futuro.