Siamo sempre pronti a lamentarci che nella musica comandano sempre (o addirittura sempre di più?) le grandi corporazioni, le major dell’intrattenimento, i condizionamenti dei mass media e dei follower sui social. Così siamo sempre pronti a lamentarci di come le istituzioni ci snobbino, non ci considerino. Ecco: tutte queste lamentale ogni tanto rischiano di essere come quelle sul traffico, pronunciate mentre siamo imbottigliati – in macchina – in qualche città particolarmente congestionata: arriviamo a dimenticare che il traffico siamo (anche) noi.
L’esperienza dell’entrare in contatto col progetto Europavox qualche settimana fa – in una delle sue declinazioni “locali”, nella fattispecie a Bucarest – è stata illuminante, semplicemente illuminante. E vi consigliamo veramente tanto, tanto, tanto di approcciarvi anche voi a questa piccola, illuminata galassia: in giorni in cui il suffisso “Europa” legato alla musica grazie all’Eurovision raggiunge il massimo della sua popolarità, vi fate un favore a svolgere (anche) lo sguardo altrove. E lo diciamo comunque con simpatia verso l’Eurovision, che è una baracconata sì, ma una baracconata finalmente diversa dalle solite minestre preconfezionate e prevedibili di salsa soprattutto americana (sì, caro Grammy Awards, stiamo parlando tipo anche a te).
Il concept che sta dietro ad Europavox è semplice e difficilissimo al tempo stesso: uscire dalla “messa cantata” dei soliti nomi, dei soliti giri, dei soliti potentati. Fare insomma, con anche l’aiuto da un po’ di anni a questa parte dei soldi della UE e dei suoi bandi per promuovere i progetti culturali, un profondo lavoro di scouting “senza confini” e senza “barriere all’ingresso” all’interno del territorio europeo. Insomma: creare e credere veramente in una scena del nostro continente. E questo affidandosi ad un metro di giudizio completamente basato sulla passione e la competenza, e non sul reticolo di potentati più consolidato del music business. O sui giorni di carnevale targati Eurovision, che è forse più fenomeno di costume che musica (tipo Sanremo). Utopia?
Il meccanismo in cui Europavox e da cui si nutre è in fondo simile a quello che si sviluppa da anni in campo cinematografico: vi sarà capitato di andare a vedere qualche film “minore” (ma spesso bellissimo) in una rete di sale cinematografiche di qualità targate Europa Cinemas, no? Una best practice che è stato finanziata già a partire da trent’anni fa (1992!) da Creative Europe, il ramo di finanziamenti dell’Unione Europea destinato alla cultura. Una cellula di resistenza contro lo strapotere dei film hollywoodiani, e/o a vocazione prettamente commerciale. Sia chiaro: non c’è nulla di male in questi ultimi. Non c’è nulla di peggio della lotta-al-commerciale combattuta dall’alto di un supposto snobismo e senso di superiorità elitarista. Non è chiaro? Lo ripetiamo: non c’è nulla di peggio della lotta-al-commerciale combattuta dall’alto di un supposto snobismo e senso di superiorità elitarista. Alla fine la gente è libera di andare a vedere ed ascoltare quel che vuole. Ma se non ci sono aggiustamenti e iniziative “attive”, ciò che è marcatamente commerciale andrà progressivamente a soffocare e a far scomparire ciò che si muove attraverso altre logiche e sistemi finanziari di potere meno efficienti e consolidati. Questo è un dato di fatto incontrovertibile. Ed anche la dimostrazione euclidea del perché le istituzioni siano necessarie per sviluppare una vita culturale sana, senza per forza cadere nell’assistenzialismo e nei privilegi da potentati baronali.
Torniamo alle domande degli inizi: quante volte ci siamo detti che nella musica “nostra” ci sono sempre più spesso i soliti inflazionatissimi nomi? O ancora: quante volte ci siamo lamentati che per gli act italiani ci sono poche possibilità di farsi conoscere e girare all’estero? Perché sì, a parte rare eccezioni, nel caso del secondo punto il meccanismo sembra sempre quello: in una singola nazione l’esposizione è garantita o a chi fa parte della nazione in questione, o a chi arriva dall’Inghilterra o dagli Stati Uniti e al massimo da qualche nazione che appare musicalmente “cool” (per un sacco di tempo essere islandesi è stato un valore aggiunto sul mercato, esattamente come lo era nel clubbing dire di arrivare da Berlino). Vero?
Aggiungiamo un’altra domanda, e ci spostiamo dalla musica a qualcosa di più ampio: ma quanto sentiamo davvero l’orgoglio e l’identità di essere europei? Poco. Colpevolmente poco. Oggi è più facile lamentarsi della burocrazia di Bruxelles, dei lacci economici richiesti dai ministri tedeschi o olandesi, al massimo si considera comodo – e si dà pure per scontato – non ci siano più controlli alle frontiere o si possa usare l’Euro quasi ovunque (…Euro amato/odiato, in quanto per molti è responsabile dell’aumento del costo della vita: ma ci si dimentica che tornare a monete più deboli, tipo la lira, ci esporrebbe molto di più ai venti della speculazione finanziaria, quelli sì capaci di abbattere drammaticamente la nostra ricchezza e il nostro potere d’acquisto).
Eppure l’Europa è quell’entità ed anche quell’afflato ideale di cui dovremmo andare orgogliosissimi: perché ci ha permesso di uscire dalla Seconda Guerra Mondiale cercando la pace e non la guerra, inseguendo l’abbattimento dei confini e non il loro rafforzamento, promuovendo la libera circolazione delle persone, insegnandoci quanto è importante un Welfare State (provate ad ammalarvi in America…).
L’Europa intesa in primis come Unione Europea, più di qualsiasi altra zona mondiale, ha promosso negli ultimi ottant’anni ideali di libertà, di pluralità, di tolleranza, di attenzione alla persone, di benessere psico-fisico del cittadino, di sviluppo culturale slegato dalle logiche del mercato (e non per questo legate mani e piedi alla politica). Tutto questo lo diamo per scontato. Lo diamo per scontato quando andiamo al Primavera Sound, al Time Warp, al Berghain, quando facciamo i weeekend a Berlino e a Lisbona ed a Parigi senza bisogno di un visto o di un passaporto (avete provato ad andare a Londra post-Brexit?), anche quando ci incazziamo con i francesi (ma poi li invidiamo per il sostegno pubblico dato alle varie politiche culturali) o con i tedeschi (ma il loro ordine e la loro organizzazione sono per noi ossigeno).
L’Europa insomma non è solo un’entità politica ed economica, è anche (e soprattutto…?) un approccio pieno di coordinate felici, importanti, positive. Quel tipo di approccio che non vuole frontiere. Che non vuole odio. Che non vuole contrasto e rivalità aggressive. Che non vuole che tutto il potere sia concentrato in poche mani ma (magari ogni tanto con un eccesso di burocrazia ed elefantaggine: vero) combatte invece questo tipo di impostazione. Tutto questo lo diamo per scontato. Ce ne dimentichiamo. Ci sembra, come dire?, “ovvio”.
…quando invece dovremmo (ri)trovare l’orgoglio di essere europei. A trecentosessanta gradi.
Ecco: tutto questo, trasporto in musica, lo hanno pensato a Clermont-Ferrand i fondatori di Europavox, festival nato nel 2006, quindi ormai con una considerevole anzianità di servizi. Fin dall’inizio l’impostazione è stata quella di fare uno scouting attentissimo fidandosi essenzialmente di due cose: del proprio gusto, e della voglia di esplorare con viscerale curiosità quello che accade nel proprio continente, sfilandosi da ogni automatismo industria-anglofono. Sì. Di questo. Il festival non solo non si è sfarinato presto, pur seguendo questa via “particolare” e molto idealista, ma negli anni è riuscito a resistere ed anzi, a partire dal 2016 si è pure strutturato anche in un progetto media preciso (guardate gli aggiornamenti del sito, a partire dal database delle band), diventando quindi molto di più di una semplice “storia bella” ma circoscritta e sui generis da raccontare (inutilmente…?) agli addetti ai lavori.
Ancora prima del finanziamento arrivato dai fondi di Creative Europe, Europavox è diventato un network di locali, di festival, di giornalisti qualificati. Un network a cui si accede se si fa qualità, e se si ama la diversità (non solo i “soliti” nomi, i “soliti” mercati, i “soliti” criteri). A giudizio insindacabile di chi lo porta avanti. È ancora tutto molto alla buona: i gestori del progetto sono super simpatici ed alla mano, a partire dai due François, Missonnier ed Audigier (…si vede che sono dei romantici innamorati della musica, non degli imprenditori che pensano a fare più business possibile), e ad esempio la coordinatrice editoriale della parte “magazine” del progetto Clémence Meunier è brava, giovane, simpatica ed è pure una dei “nostri”, visto che arriva dall’esperienza di Trax/Itsugi, il bastione editoriale per la club culture in Francia. Ma potremmo spendere belle parole per tutte le persone che abbiamo incontrato nei nostri tre giorni a Bucarest: non grigi burocrati che fanno il compitino o figli-di piazzati lì da qualche potentato, ma veri appassionati. Gente che la musica la ama e la vive davvero.
Ecco: Bucarest è stata una delle tappe del network di eventi. Grazie ad Europavox, abbiamo potuto vedere che nella capitale rumena c’è un club coi fiocchi, il Control, dalla capienza “giusta” (600/700) persone, con una parte bar outdoor molto estesa e pure un ristorante (per certi versi ricorda il Circolo degli Illuminati a Roma, per darvi un esempio). Abbiamo potuto spendere qualche giorno in una capitale europea che spesso è lontana dalle mete più gettonate dei city breaks, scoprendo invece una città notevole, con una parte monumentale ed architettonica notevolissima, e con anche delle cellule musicali di altissima qualità (siamo stati ad esempio a visitare la sede di Black Rhino Radio, realtà collegata in parte al Control, e siamo rimasti a bocca aperta).
Nei due giorni del festival, abbiamo scoperto che la Grecia con Theodore ha un crooner scuro e fascinoso tra rock ed elettronica, che i francesi MNNQNS sono una delle band dal vivo che più ci ha convinto da tempo a questa parte, che i danesi Svaneborg Kardyb sono una delle cose più hygge in circolazione oggi (adorabili e felpati, li avremmo ascoltati per ore…), che gli svedesi Hater sono ok e che i “padroni di casa” D.E.N.I.S. e Mischa Blanos (già su Infiné, col suo incrocio tra classico e techno) non sono per nulla male. Paradossalmente proprio il gruppo già “noto”, che guarda caso arriva in senso lato dal circuito anglosassone, gli irlandesi Just Mustard, anche se non ci sono dispiaciuti ed anche se sono bravi, beh, sono quelli che ci hanno incuriosito di meno. Ci davano meno il senso della “scoperta”.
Questo infatti dobbiamo ritrovare, maledizione. Il senso della scoperta. Il senso dell’andare a trovare delle cose che sentiamo come “nostre”, al di là del fatto che siano popolari o meno, che siano già conosciute o meno. Soprattutto con l’avvento dei social invece – ma in realtà anche prima, perché è il mercato puro a volerlo come dinamica, se non “aggiustato” – inseguiamo solo quello che è già conosciuto, che già ci rassicura, che già ci permette di fare self branding quando ci accostiamo ad esso. Vai ai concerti ormai più che per la musica proprio per il fatto di poter dire – e postare su Instagram – che sei al tal concerto a vedere il tal gruppo, e deve essere qualcosa di già noto, di già “prestigioso” per la tua bolla. È passato di moda dire “Ho scoperto una cosa fighissima”, rimpiazzato invece dal “Sono stato ad una cosa fighissima”. Pensateci: la differenza sembra sottile, ma non lo è.
Qui la ragione per cui tanto ci siamo entusiasmati per il progetto Europavox: sì, è fatto (anche) coi soldi europei, ma essenzialmente è un manipolo di persone che crede ancora nel valore della ricerca, della scoperta e, come spiegato, dell’Europa come piattaforma comune virtuosa di valori anche da valorizzare per davvero. Ci faremo anche noi le nostre crasse risate in questi giorni con l’Eurovision, ma finito il circo e finita anche l’ammirazione per qualche act più camp o anche più tamarro-sofisticato di altri torneremo ad interessarci di musica per davvero, più che di LOL e costume: ma nel farlo non vogliamo che il senso di “Europa” (lo virgolettiamo, per fare capire che diamo le più svariate accezioni alla parola) scompaia. Lunga vita ad Europavox. Merita la vostra curiosità, merita che indaghiate di che si tratta, merita che ne apprezziate gli ideali romantici e garibaldini – così lontani dalla massimizzazione capitalista e mercatile dei clic, dei follow e degli stream.
Se invece nel vostro mondo clic, follow e stream sono l’unico metro di paragone e di giudizio e ogni discorso sulla “qualità”, sulla cultura diffusa e sugli ideali al di fuori della vittoria sul mercato vi pare un ciarpame pre-moderno, ok, lasciate stare.
…ma non sapete cosa vi perdete, le soddisfazioni che vi negate.