Sonorità oscure, astratte, di una musica che viene dalla penombra, ritraggono una dimensione sospesa, come la fase di passaggio tra sogno e risveglio. Questa è la musica di OOBE, il nome che cela la vera identità di questo giovane producer torinese, che ha debuttato nel 2013 con SFTCR per Opal Tapes, la label di Stephen Bishop, che incide su cassetta. Sì, proprio quelle che si riavvolgevano con la Bic e che andavano a morire quando si scaricavano le pile del walkman. Sei tracce di una sorta di brain dance, che affossa il suono nelle viscere della terra, lo rimodula e lo proietta costantemente verso un possibile ‘altro’. Così come l’autore, che in maniera molto naturale si muove in dimensioni apparentemente disconnesse, ma che alla fine creano un’identità. Una vera e propria esperienza di ascolto.
Prima di tutto, come è stato il tuo ingresso nel mondo dell’elettronica? Arrivi da uno strumento musicale in particoalre? Sai a volte si scoprono cose interessanti…
In realtà no, prendevo lezioni di chitarra quando ero piccolo, poi ho studiato contrabbasso per tre, quattro anni in conservatorio, però direi che non ha influito sulle mie scelte successive. Per il resto mi sono avvicinato all’elettronica in maniera un po’ naïf, è arrivata abbastanza naturalmente. Di sicuro mi ha aiutato molto il fatto di stare qui a Torino, poi di conoscere Daniele, Vaghe Stelle. Al tempo producevo già ma ero incapace, iniziavo a prendere confidenza con in primi software, il mio laptop era il mio studio. E così è rimasto.
Cosa usavi all’inizio?
Reason 3, gran bel software, mi manca. Lo usavo in rewire su Logic, adesso invece uso Logic, che mi ha permesso di fare cose un po’ più professionali.
Come ascolti invece, cosa pensi che ti abbia influenzato o guidato?
In realtà ascolto molto poco, ma quando mi fisso su qualcosa lo ascolto in continuazione, per molto tempo. In generale arrivo dall’IDM, poi tra le prime cose che ho ascoltato e che mi hanno colpito molto c’è stato Jon Hopkins. All’inizio mi ha dato molta libertà, mi ha permesso di sconfinare le barriere che mi ero costruito sulla musica elettronica. Dopo, in assoluto c’è stato R.I.P. di Actress, ancora adesso penso che sia il mio disco preferito.
Infatti, nel tuo stile ci sono molti richiami a quelle sonorità…
Quell’album è stato clamoroso per me, mi ha fatto pensare molto. Addirittura mi ha fatto cambiare l’idea di musica che avevo in testa. Anche tutti gli altri album mi piacciono molto, meno forse Ghettoville, però devo ancora masticarlo un po’.
Quindi sei così, quando ti attacchi a qualcosa, ascolti solo quello.
All’infinito! E poi in realtà ascolto molto la beat italiana, anche le cose vecchie, tipo Massimo Ranieri, Mina. Adesso però che ci penso – è una cosa che non dico mai – però in realtà non ascolto molta musica elettronica, se non gli album che mi sono piaciuti tantissimo e, se li ascolto, non lo faccio per intero. Non ascolto mai le tracce per intero, magari poi dopo un po’. Però l’album di Actress mi ha aperto un mondo. Mi ha fatto pensare ad un (im)probabile futuro… Ho riflettuto anche molto sulla copertina, che secondo me rappresenta il gesto un dono, con l’omino stilizzato che si inchina e porge la mano, come a offrire appunto un dono. Mi ha fatto pensare che la musica non sia un vezzo, ma che potrebbe essere utilizzata come un mezzo per portare le persone a fare qualcosa, a pensare a qualcosa. Mi sono immaginato come se ci fosse un impianto nelle parti di una città con varie frequenze per indurre le persone a fare qualcosa piuttosto che altro. Queste immagini mi sono arrivate soprattutto da tracce come N.E.W., forse uno dei pezzi più belli degli ultimi vent’anni. Poi ascolto molto Loud Reed, Velvet Underground.
Too Young To Love è stato il primo progetto a cui ti sei dedicato?
Beh sì, in realtà in quel periodo avevo un gruppo sempre con Luca e Andrea [Luca Masini e Andrea Guidi]. Avevamo una serie di progetti, poi ad un certo punto abbiamo deciso di concentrarci su Too Young To Love. È stato molto naturale, abbiamo fatto le prime bozze su Reason, poi ci sono state delle vicissitudini su quale strada prendere, qualcuno voleva mantenere quelle bozze grezze, altri volevano andare oltre, da lì poi la freschezza è svanita.
Raggiungendo l’apice con Frozen Fields?
Ti dirò che Frozen Fields a me non è mai piaciuto, volevo anche girare un video diverso, per me non era quella Frozen Fields. Quello che sentite adesso non era assolutamente Frozen Fields come era all’origine. Era molto più fresca, più naturale, interessante, poi è diventata una cosa pop, più chiusa. Da quel momento ho capito che stavo cercando altro.
OOBE è arrivato subito dopo?
No, dopo c’è stato Mohko, la risposta a questo mio cambio di direzione. Sentivo che quello che stavo facendo non mi dava più nulla, allora ho buttato tutto quanto volevo fare davvero in Mohko. Prima Mohko, poi è arrivato OOBE, ma le due cose sono andate avanti parallelamente. Mohko prosegue tutt’ora, diciamo che non mi si vede perché suono dietro un telo e si vede solo la mia ombra, proiettata da uno schermo che riflette alle mie spalle. È un po’ più difficile da capire rispetto a OOBE, ma stare nascosto è una mia scelta. Come Mohko ho suonato molto, qui a Torino a Traffic e Club To Club. Al momento dovrebbe uscire un disco su Presto!?, l’album si chiamerà Nightmares Pusher. Su SRSLY* è uscito il primo EP di Mohko, Attacus Atlas, sono tracce molto più lente, molto più cantabili, più morbide, mentre in Nightmares Pusher sono cartelle abbastanza dure.
Arriviamo ad OOBE, per prima cosa il moniker, manco a dirlo Out Of Body Experience, com’è nato? C’è una filosofia dietro?
Più che filosofia, c’è un’esperienza personale, nel senso che soffro di questa pseudo-patologia fin da bambino. Per me è sembrato subito ovvio, una volta realizzati i primi suoni, scegliere questo alias.
Di sicuro la tua produzione appare come trascendente, estranea ad una dimensione per così dire tangibile. Mi sembrava di avere già captato anche in Too Young To Love questo approccio trascendente, però mi dici che non c’è una connessione tra i due.
Ci sarà sicuramente perché fa parte del mio trascorso. Il fatto è che dopo Too Young To Love avevo necessità di fare altro, quindi è arrivato Mohko. Poi avevo bisogno di altro ancora. Faccio così, cambio sogno ogni volta, poi ad un certo punto il sogno finisce, una volta che ho buttato fuori tutte le cose che dovevo dire, cambio moniker ho creo un suono diverso. Praticamente è da due anni che ho finito l’album che dovrà uscire su Presto!?, quindi avevo bisogno di fare cose nuove, sentivo questa necessità che mi portavo dentro e si è tradotta in OOBE. In quel periodo vivevo con Daniele, è uno di quelli con cui ho condiviso queste sensazioni e mi ha sempre supportato e indirizzato nella giusta direzione. Anche per Opal Tapes, è stato lui a dirmi di mandare le tracce a Stephen.
Riguardo ad Opal Tapes, trovo che sia significativa la tua collaborazione con loro. La musica pubblicata per la label di Stephen è scelta secondo un criterio ben preciso. Tracce che sembrano più delle architetture che altro, che si portano dietro anche questa sonorità sporca, che lascia il segno. Ne convieni?
Non ho ascoltato proprio tutta quanta la discografia di Opal Tapes. Quello che mi ha colpito di più è la libertà che mi ha permesso di fare tutto quello che volevo. Direi che Stephen è una persona che mette molto a proprio agio, non ho ancora capito se è un fottuto genio, ma ci sa fare veramente!
Ed eccoci a SFTCR, uscito lo scorso agosto. Un altro acronimo, questa volta?
Sta per softcore.
Ah, non ci ero arrivato! Parlaci dello sviluppo dell’album, come sono arrivate le tracce, come si è modellata la sonorità, se c’era un’idea in partenza.
Io produco in maniera molto caotica, magari parto con l’idea di fare una traccia ma non so poi dove vada a finire e dove mi porti. Magari compongo un numero di tracce, o pezzi di tracce, poi le lascio stare, comincio con altre cose, lascio stare di nuovo. In pratica non finisco mai. Ad un momento posso tornare indietro, vado a risentire le cose che ho fatto, le rielaboro. È rarissimo che inizi e chiuda una stessa traccia, senza aver percorso più strade. Questa volta avevo bisogno di un suono più scuro, più ancestrale. Non ho cercato di descrivere niente, è stato come rilasciare un flusso interiore. Man mano quello che scrivevo, la musica iniziava ad avere un senso, a prendere forma. È come quando non ci si ricorda un sogno e ci sforziamo di riportarlo alla mente. Sai che lo hai fatto, ma non riesci a ricostruirlo.
Questa è l’essenza dell’album, si percepisce in pieno. Addirittura, in mezzo a questi spezzoni di ricordi, sembra che le tracce non abbiano una vera e propria conclusione, sembrano infinite.
Secondo me questa sensazione è data dall’assenza di struttura nelle tracce. O almeno nella scrittura di SFTCR non ci ho pensato. Ogni tanto ci provo, ma comunque la struttura è qualcosa da prendere con le molle, può essere fondamentale, addirittura bella, come può essere un freno. In effetti adesso, riascoltando alcune tracce di SFTCR mi sono detto “qui avrei potuto tagliare, chiudere prima, far partire altro” perché comunque siamo abituati alla suddivisione in 4/4 e il cervello aspetta sempre quell’impulso. Non ci potremmo accorgere degli sfalsamenti ritmici se non sotto non ci fosse il motore del 4/4.
In riferimento alla sonorità, hai parlato di questo suono cavernoso, oscuro. C’è un motivo?
Ogni volta che devo fare un disco, mi viene in mente un colore diverso. Per SFTCR avevo in mente l’immaginario rave, meglio il ricordo di qualcosa rave. Con SFCTR I ho capito che quello sarebbe stato il suono che volevo avere e ho pensato che sarebbe stata perfetta come intro. Le altre tracce sono seguite di conseguenza abbastanza velocemente. Avevo capito dove volevo andare.
Quali modelli, se ci sono stati, hai avuto per SFTCR? A proposito di rave e low-rave in SFTCR V ad esempio c’è uno stile che fa pensare a Burial…
Sinceramente non ho mai pensato a Burial, di lui mi è piaciuto molto Truant, magari sotto sotto qualcosa è passato, però non avevo lui come riferimento. Mi viene in mente quello che una mia amica una volta mi disse “l’importante è sapere a chi assomigliare” certo preso con le molle. Però c’è una verità pazzesca, sai dove vuoi arrivare avendo dei riferimenti, hai sempre qualcosa che ti fornisce una minima linea, una direzione. Una delle influenze più sostanziali l’ho avuta da Lorn & Dolor, con Drugs nel 2011, tre tracce da 15 minuti l’una, un disco clamoroso!
Resident Advisor ti ha anche dedicato una bella recensione, mi è piaciuto quando parlava della drum machine che sembra immersa nel fango e di molte altre immagini concrete.
Non me l’aspettavo in realtà, ma mi è piaciuta. Questo discorso di immagini è ritornato anche quando con Stephen abbiamo deciso per la copertina. Io volevo assolutamente la Uno Turbo. E così è stato. Stephen ha un approccio totale alla sua musica e quindi si occupa anche della parte grafica. Le copertine vengono prima realizzate da artisti poi Stephen le coniuga con il contenuto. Trovo che sia una cosa molto importante per creare un immaginario specifico di quello che vuoi far passare, si possono indirizzare le persone sulla giusta strada, oppure sviarle. Dipende da cosa si vuole fare. Importante è puntare sull’essenzialità, altre copertine invece sono pura grafica, di tendenza, ma completamente slegate dal contenuto.
Con Opal Tapes hai altro in uscita?
Niente di sicuro, ma al momento sto lavorando ad un nuovo disco per Steve. Voglio fare due tracce da 15 minuti l’una, la prima è ormai finita e gli è piaciuta, sulla seconda ci sto lavorando.
Un altro segno tangibile lo hai lasciato per il progetto di A Great Symphony, dove insieme ad altri hai dovuto campionare i suoni di uno spazio urbano creando una colonna sonora elettronica per la città di Torino.
L’iniziativa è bella, ma forse non ne ho capito a pieno il senso. Non ho colto appieno il concetto di campionare i suoni del luogo, il mio spazio era Palazzo Carignano, sarebbe stato magari meglio scrivere qualcosa inserendo altri elementi. E anche il contesto forse non è ottimale, io mi sarei ispirato più alla concezione di infinito, avrei scritto magari seguendo la linea delle architetture barocche del palazzo, dove ogni lato non è mai piatto, e il senso della prospettiva ti fa tendere all’infinito. Gli altri ragazzi sono stati molto bravi, Vaghe Stelle, 2L8 hanno fatto degli ottimi lavori, ma in realtà forse è stata più un’operazione di marketing per la città, che per carità io amo moltissimo!
Tra l’altro, per rimanere in zona, eri stato selezionato come Young Talent da Piemontre Groove per uno stage con Martyn. Cosa ti ha lasciato questa esperienza?
Martyn mi ha lasciato le casse in mono. Non le avevo mai messe in mono, le usavo sempre in stereo e questa è stata una cosa che mi ha cambiato la vita. I bassi comunque cerco di metterli sempre in mono, non è niente male.
Qui succedono molte cose, per esempio parlaci del progetto MAD MED, in collaborazione con Cripta747.
MAD MED, che sta per “Mediterraneo Pazzo” è composto da me, insieme a Renato Leotta, Elisa Traiano e Alexandro Tripodi, all’interno di un progetto di Cripta747 che fa dialogare artisti nel bacino del Mediterrano. Il progetto raccoglie Club Tucano, che si occupava dell’aspetto musicale, T-A-X-I per la parte di scrittura e Cripta747 vera e propria che si occupava delle arti visive. Quest’anno con Club Tucano abbiamo deciso di passare a MAD MED, un progetto che porteremo avanti nel 2014 con performance ad hoc in particolare di artisti italiani che si stanno affermando sulla scena. Penso che gireremo molto con il car show, è piaciuto molto… alla fine siamo degli zarri! Stiamo organizzando le prossime date e mi piacerebbe ospitare uno showcase di Gang of Ducks, portare gente come The Hunters di Milano, Simbiosi.
Niente contaminazioni con altre espressioni, ad esempio video arte?
Al momento no, non cerco abbinamenti, però dipende dal set, da che idea si vuole dare e se funziona o meno. Non è strettamente necessario avere un video a supporto. Ho fatto invece dei video con Renato Leotta, prima di uscire su Opal Tapes, tutto l’album era su YouTube. Con lui abbiamo realizzato il video dei palazzi che si muovono di SFTCR III, bellissimo. A parte questo, penso che la musica possa parlare da sola, senza la necessità di elementi esterni.
Un’altra interessante formazione, quella di Abele & Caino, avrà un continuo?
Sì, in questo caso collaboro con Aniello, che ha pubblicato per Opal Tapes. Per me è come se fosse un fratello minore, quando l’ho sentito, non ho potuto fare a meno di proporgli di fare qualcosa insieme. L’ho conosciuto grazie a Daniele, che mi ha passato il contatto, ci siamo incontranti per una settimana e da subito ci siamo trovati per comporre insieme. Tra l’altro era un fan di Mohko. Abbiamo scritto cinque tracce, adesso finiremo un disco per cui abbiamo già delle proposte.
Ultima considerazione sulla strumentazione, usi qualcosa di analogico? Come fai a rendere il tuo suono così ‘sporco’?
Niente di analogico, purtroppo. Solo con Abele & Caino avevo usato un mio vecchio synth che non accendevo da una vita l’SH-101, poi abbiamo usato anche l’S-700. Di solito non produco mai con il synth, uso Logic e ho molti plug-in. Anche perché spesso sono fuori casa e non posso portarmi troppe attrezzature. Principalmente quindi realizzo tutto con software. Il suono analogico è bello, senza dubbio, ma sono particolarmente attratto dalla freddezza di quello digitale. Per me comunque è inutile dire se sia meglio uno piuttosto che l’altro, è importante saperli sfruttare entrambi per quello che sono. Per questo non trovo il senso del digitale che vuole emulare l’analogico. Sono semplicemente diversi. In ogni caso sentire il digitale puro mi piace da morire!