Ora in molti diranno “Eh, ma si sapeva”; ma sono sempre in molti, come acutamente faceva notare Matteo Cavicchia, quelli che da tempo bypassavano l’argomento, quasi a nascondere la polvere sotto il tappeto. C’è chi l’ha fatto in cattiva fede, per non avere seccature, o appunto per coscienza pelosa; ma c’è chi l’ha fatto per convenienza; e c’è infine chi l’ha fatto per motivi romantici.
Quelli che oggi stanno peggio – tolte naturalmente le persone che avanzano dei soldi, e tolti chi questi soldi li deve restituire e chissà se li ha – sono proprio questi ultimi. Chiude il Cocoricò, e non chiude solo una discoteca: chiude un simbolo. Riaprirà, magari. Nuove proprietà arriveranno. Nuove idee, nuove energie, nuovi fasti. Ma di sicuro quello che qualche giorno fa (4 giugno) fa è stato sancito dal Tribunale di Rimini, col rigetto della richiesta di concordato preventivo, il tutto doppiato dal colpo definitivo avvenuto lo scorso 11 giugno a sancire ufficialmente il fallimento della società che gestiva la “cattedrale” riccionese, è qualcosa di epocale, la fine di un’era. Una fine non gloriosa. Ok, ok, “All good things come to an end”, il Cocoricò non è né la prima né l’ultima discoteca storica che chiuderà, e così come chiudono le mega-discoteche chiudono cinema, teatri, musei, giornali, siti, società di calcio, quindi ecco, questa è la vita e la vita va avanti. Eppure…
…eppure col Cocoricò non chiudono solo degli spazi e delle console, chiude un’idea. Un simbolo. Un’etica e un’estetica, anche, e pazienza se queste parole vi sembrano eccessive e fuori luogo: se lo siete, di sicuro siete dei turisti del clubbing. Oppure avete intercettato solo gli ultimi anni dell’aura del Cocco, gli anni in cui questa aura era più un riverbero di glorie passate e dove i tentativi di rinnovamento – alcuni giocati anche piuttosto bene, con serietà, valide intenzioni, idee interessanti, mica per forza solo delle farloccate insomma – sono stati percorsi sempre a metà. Forse perché la benzina era già finita, e si stava procedendo in folle, per l’inerzia accumulata negli anni: non c’era più la possibilità di invertire la rotta e di rinnovarsi davvero, anche qualora lo si fosse seriamente voluto.
Cosa abbiamo perso? Abbiamo perso un’utopia diabolica ed affascinante: portare ai grandi numeri e alle grandi masse le esperienze estreme di nicchia, quelle più avanguardistiche, estreme, maledette, ricercate. La Piramide aveva numeri da discoteca commerciale, da posto che guarda ai numeri, ma per anni ha saputo essere l’avamposto più estremo e duro dei divertimentifici folli&tamarri&sofisticati che sono riusciti a farsi realtà negli anni ’90 italiani (un altro motivo per rimpiangerli, questi anni ’90: vedi ad esempio anche la saga dell’Insomnia, altra “rara avis” della notte italiana di quegli anni). Tutto questo non è arrivato per caso, ma per scelte e azioni ben precise. Alcune apparentemente antieconomiche e snob: primo fra tutti il Morphine, ma sono state mille le geniali mattane da ascrivere in primis a Loris Riccardi – personaggio assurdo, “larger than life” direbbero gli anglosassoni, ma illuminato vero – che hanno reso il locale sulle colline riccionesi qualcosa di unico. Soprattutto: qualcosa in grado di conficcarsi nell’immaginario collettivo in maniera fortissima, arrogante, velenosa, meravigliosa, iconica.
A partire dagli anni ’90, il Cocoricò è diventato il santuario per antonomasia per chi eleggeva la club culture a fulcro della parte più esplosiva e visionaria della propria emotività (e, anche, di come magari gli sarebbe piaciuto fosse la società, o almeno la propria vita dei sogni). Poteva anche non piacerti, il Cocco; potevi anche dire che era un mero tamarrodromo (Piramide), un ricettacolo di figli di papà coca&champagne (Titilla), un accolita di snob sfigati artistoidi (Morphine), una froceria pacchiana (il cortiletto, i bagni, altre zone a caso), e di conseguenza non ci andavi quasi mai e guardavi con sussiego chi ci andava regolarmente. Ok. Ma in fondo al tuo cuore, ti ammettevi che se dovevi riassumere in una parola e in un luogo cosa diavolo ci fosse di affascinante nella club culture, nella musica techno ad alto volume, nel ballo sulla cassa in quattro per ore e ore, nella socialità malata, amata e stralunata da dancefloor, nella voglia di scardinare il benpensantesimo e le messe cantate del pop e del mainstream televisivo fino ad allora imperanti, beh, se dovevi riassumere tutto questo con una parola e un luogo, tanto per farti capire da tutti, questa parola e questo luogo erano Cocoricò. Potevi amare di più alti posti, trovarli più belli, più interessanti, più civili, più evoluti, ma, se messo alle strette, la risposta era: Cocoricò. Tanto forte era la potenza del nome, del luogo, di quello che simboleggiava.
Ed è stato così praticamente fino ad oggi. Ad un certo punto, metà anni 2000, Loris Riccardi ha dovuto abbandonare, da lì quasi tutto il Cocoricò storico si è sfarinato. A un passo dallo smottamento brutto e definitivo, sono arrivati a dare robuste iniezioni di sangue fresco ed energie i “barbari”, ovvero i romani della crew Diabolika. Un arrivo necessario: senza di loro, il Cocco avrebbe chiuso molto prima e molto peggio. Magari qualcuno non sarà d’accordo con questa affermazione, ma personalmente ne sono abbastanza convinto. Che poi, è anche un po’ triste che anni di creatività, di imprenditoria, di know how sull’universo dance che hanno reso la Riviera – ad un certo punto – il centro gravitazionale europeo del clubbing abbiano dimostrato alla prova dei fatti di esser nulla o quasi, di non essere manco in grado di portare avanti il Cocoricò in maniera degna ed innovativa o almeno potente, delegando tutto a una cordata arrivata dall’Urbe e con una storia che non diciamo nemmeno migliore o peggiore, ma comunque diversa, molto “romana”.
(continua sotto)
Infatti con l’arrivo di Diabolika le cose sono cambiate. C’è stato tra le altre cose con loro anche l’avvento dell’EDM: e il Cocoricò è stato il posto che prima, meglio e in maniera più grandiosa ha abbracciato questo nuovo verbo. Nuovo verbo che a molti non piaceva; ma “prima”, “meglio” e “in maniera più grandiosa” sono esattamente ciò che era inscritto nel DNA del Cocoricò, ciò che lo aveva reso quello che era. Quindi, c’era una coerenza di base. Non siamo d’accordo con chi dice che l’avvento degli Skrillex e compagnia ruggente sia stato l’inizio del declino. Anzi, a memoria nostra – e certi suoni non c’hanno mai convinto del tutto – è stato il momento in cui la Piramide aveva ripreso quota, dopo un momento di stanca vera e pericolosa.
Il problema è stato un altro. Il problema, evidentemente, è stato pensare di vivere in un mondo dove tutto per forza doveva andare sempre bene, le casseforti sempre piene di contanti, la gente sempre pronta ad arrivare e consumare, gli artisti sempre vogliosi di venire, le istituzioni sempre pronte ad usare il buon senso e tollerare.
Beh: col cazzo.
Le cose hanno iniziato ad andare bene, ma non così bene; le casseforti piene di contanti iniziavano a svuotarsi anche perché un surplus di cash non era una cosa gestibile a fare bene le cose fiscalmente, oltre al fatto che la gente consumava meno nei bar; la gente più fresca, intelligente e/o con gli ormoni in subbuglio ha iniziato a scoprire altre forme di loisir serale (anche solo internet, eh) che non fossero i club; gli artisti sono rimasti vogliosi di venire, va bene, ma santiddio a cachet quintuplicati (e con sempre meno voglia di accettare pagamenti in banconote post serata); le istituzioni infine hanno pensato che si potevano lucrare più voti a cavalcare la vera tigre italiana degli ultimi anni, quella di un paese sclerotizzato che odia tutto ciò che ha, nello spirito più che nel fisico, meno di cinquant’anni e che quindi insegue una ottusa ed inverosimile ansia di ordine, legalità, sicurezza, dimenticando che l’ordine è (anche) il nemico del progresso, la legalità è (anche) nemica dell’innovazione, la sicurezza è (anche) nemica della libera e sana espressione degli istinti e dei desideri.
In questa maniera si è scatenata la tempesta perfetta. Chi conduceva la nave, non ha visto le nuvole all’orizzonte, se non quando ha iniziato a diluviare sopra la propria testa (ed era troppo tardi per uscire dalla tempesta, qualsiasi manovra si facesse).
Chi in questa nave era passeggero, ha iniziato a dire “E ma qui piove…”.
Ciao.
Si poteva fare di più? Si poteva invertire la rotta? E chi lo sa. Ma soprattutto: che importa saperlo, oggi. Ormai è andata così. Una storia lunga oltre venticinque anni – ehi, sono tanti – ha disegnato la sua parabola, arrivando ad una fine che in tanti, negli ultimi anni, abbiamo sperato che non arrivasse, ma che in effetti non poteva che arrivare. Eppure, credo che tutte le persone che c’hanno messo qualcosa di loro (portando avanti il locale, pagando un biglietto per entrare, suonandoci, collaborandoci, concedendo dei crediti) in questa ultima fase non siano realmente pentite. Tolti, li ripetiamo, quelli che seriamente ci stanno smenando dei soldi e per questo sono finiti in sofferenza finanziaria, facendo fatica ad arrivare a fine mese. Non sono pentite, perché fino all’ultimo hanno voluto far vivere non tanto il management che gestiva le mura del Cocoricò, ma l’idea che il Cocoricò è arrivato a rappresentare, fin dai primi anni ’90.
Un’idea a cui dovremmo essere tutti affezionati. Perché è un’idea che racconta della forza della techno, della sensualità della house, di come anche i peggio tamarri possano (e debbano) prendersi il centro della pista, di come le arti&idee più sofisticate possano trovare sviluppo fra i grandi numeri e i tamarri suddetti, in una società che non fa vere divisioni, interclassista, iconoclasta, anche un po’ estrema e stupida, ma viva. Profondamente viva.
Noi abbiamo sempre lottato per la dignità culturale del clubbing, per il lato più sofisticato dei dancefloor. Non siamo certo pentiti. Anzi: continueremo a farlo. Ma la club culture non deve diventare un ambiente troppo safe e fighetto, dove conta solo l’hype e la sciccheria. Deve restare qualcosa di complesso, esplosivo, inclusivo, contraddittorio, capace di generare sogni ed energie scomposti e colorati, non solo regolamenti da bon ton stile “Io sono più theoparrishiano di te”. Il Cocoricò al suo massimo e al suo meglio è stato questo: ci abbiamo visto le cose più incredibili ed intellettualizzate (una su tutte: un’ora di destrutturatissima chitarra noise di Arto Lindsay, al Morphine), abbiamo parlato col meglio della cultura italiana snob ma tagliente (da Ghezzi ai Motus), ma a rendere davvero magiche tutte queste esperienze erano anche la Piramide e il Titilla così come erano, con le persone che ci stavano dentro, con l’attitudine che avevano. Era il clash. Era lo scombinare le carte. Era vivere in un mondo parallelo, migliore, un mondo che sapeva guardare al futuro passando per il presente, e voleva farlo con tutti e per tutti – anche quando si è trattato di affiancare Skrillex ad Hawtin, perché questo era lo spirito dei tempi, e anche quando c’era da passare dodici ore con Marco Carola e i suoi set sempre più piatti ma con un pubblico sempre più entusiasta, perché comunque pure quello – piaccia o non piaccia – era un modo per uscire dalla normalità, dal silenzio, dall’ordine, dai diktat di chi vorrebbe fosse tutto ordine&disciplina&contegno.
Anche solo inconsciamente, queste cose sono entrate dentro di noi (per chi le ha volute “sentire”): ed è per questo che il Cocoricò è sempre stato un simbolo a cui affezionarsi, da non voler veder morire.
Ci sono stati tanti sbagli, negli ultimi anni. Tante cose che si potevano fare diversamente. C’è stata la scarsa lucidità (o, come si diceva, l’impossibilità materiale) che ha portato a non innovare, a non investire, a non rischiare. E’ andata così. E comunque sia andata, chiunque sia stato anche solo sfiorato dall’universo-Cocoricò dagli anni ’90 ad oggi avrà perso tempo, soldi, energie, neuroni, buon senso, sudori; ma molto facile che, comunque, si sia sentito più ricco. Per quello che ha fatto, per quello che ha visto, per quello che ha voluto vedere, per quello che pensava di aver visto, per quello che avrebbe voluto fare – e lì, in minima, media o massima parte, è riuscito a fare. Non è poco. Ehi: non è poco.
Grazie, Cocoricò.
Magari rinascerai dalle proprie ceneri. Magari questo avverrà prima di subito. Magari avverrà tra cinquant’anni, o magari accadrà mai. Sia come sia, era ed è giusto fermarsi un attimo, e vedere la strada fatta finora insieme.
L’abbiamo fatta in tanti.