“Crisi? Quale crisi?”: un alieno paracadutato da Marte, o anche un semplice “passaggere” di leopardiana memoria, a sentir dire che che la musica elettronica è in flessione, che i club soffrono, che le cose stanno cambiando, che il vento sta girando, che la scena si sta contraendo, beh, prenderebbe tutti abbastanza per pazzi – almeno dopo un weekend passato al Kappa FuturFestival di quest’anno. E’ stato uno spettacolo di folla incredibile. Ci sono mille foto a testimoniarlo in giro. Poteva esserlo ancora di più, tra l’altro: ad un certo punto infatti è stato dichiarato il sold out, giorni e giorni prima dell’inizio della manifestazione. Magari è stato un eccesso di zelo (a Torino, dopo i terribili fatti di Piazza San Carlo durante la trasmissione su mega schermo della finale di Champions, regna un clima tesissimo fra i responsabili dell’ordine pubblico e delle autorizzazioni), il dato di fatto è che si era tantissimi – si parla di 20.000 presenze al giorno – ma non si è mai avuta la sensazione che si era in troppi, non ci sono mai stati “colli di bottiglia”, non ci sono mai stati dei momenti in cui ti sembrava che non potessi fuggire dalla folla e dalla calca.
Chiaro: il Parco Dora, come location, aiuta. E’ un posto meraviglioso. Archeologia industriale, ma anche una risistemazione architettonica notevole, degna di quanto viene fatto abitualmente in Spagna (a Barcellona e Madrid le opere pubbliche sono sempre tanto grandiose quanto eleganti). Pure un po’ “Blade Runnner”, tra il fiume da un lato, il passaggio dei tram dall’altro e sopra di te gli aerei in atterraggio sul vicino aeroporto di Caselle. Ma veniamo al punto: la crisi, quale crisi. Un paio di mesi prima eravamo al MiF di Rimini (altro festival andato benissimo, e con una matrice artistica simile a quella del Kappa FuturFestival) e un addetto al settore piuttosto importante – di cui non faremo il nome – è venuto da noi dicendo “Ecco! Guarda! Guarda quanta gente! Devi scriverle queste cose! Devi farle sapere! Devi fare sapere che noi non siamo un modello di intrattenimento morto, che non c’è nessun declino irreversibile, che non è vero che la techno/house di un certo tipo è fuori moda, che è una scena in declino”.
In effetti sta accadendo una cosa curiosa. Una cosa in cui, in qualche modo, ci sentiamo coinvolti. Guardatevi attorno, leggetevi i media (a partire da noi, eh: non ce ne tiriamo fuori): sono tutti molto sofisticati. C’è un’attenzione mai vista prima sul “clubbing di qualità”, sull’elettronica più sperimentale o comunque non prettamente commerciale. C’è da parte di chi si è occupato da sempre di suoni digitali; c’è da parte di chi arriva da militanze indie ed alternative; c’è dappertutto insomma. Tutto questo concorre a far pensare che il clubbing alla Time Warp sia ormai un fenomeno residuale, poco sexy, poco “intelligente”, poco significativo, in deciso declino. I media parlano meravigliati (giustamente!) di Club To Club, mettono in campo tutte le armi della critica per descriverne pregi e preziosità; quando invece si tratta del festival “cugino” (stessa città, pochi giorni di distanza) Movement, ci si limita a lanci di agenzia abbastanza anonimi, un nome di qua, un numero di là, il tutto come a dire “Vabbé, è il festival della massa di giovani che si vogliono sballare” – piglio ormai abbracciato anche da molte realtà comunicative specializzate nell’elettronica.
Guardate, lo ripeto: ci siamo di mezzo anche noi, pure noi di Soundwall, pure personalmente chi vi sta scrivendo. C’è un motivo ben preciso. Per anni “riequilibrare” la scena della club culture italiana è stata una missione: perché magari la gente non se lo ricorda, ma ci sono stati lunghi e bui periodi in cui le cose “chic” (quella alla Dekmantel, per intenderci) erano visto come faccende da sfigati, da pochi nerd che si contano sulle dita di una mano, panda sciancati destinati all’estinzione nell’indifferenza generale – tutto questo mentre trionfavano i dj dai grandi numeri, dalle origini (più o meno) berlinesi, dal suono stupefacenza-friendly (con conseguente imbruttimento del pubblico), stoicamente minimal, freddo e ripetitivo. Organizzare una serata con un certo tipo di dj “di qualità” (di nuovo, immaginatevi la line up dekmanteliana quando usiamo questo aggettivo) era il modo perfetto per perdere dei soldi e ritrovarsi in quattro stronzi a guardarsi in faccia. Una fissazione da eccentrici e/o snob e/o scemi. Stesso discorso vale anche per la techno (ehi, ma vi ricordate l’era pre-Berghain di quando solo i loser ascoltavano la techno?), vale anche per certe derive noise-industrial-wave à la Atonal adesso improvvisamente corredo ineliminabile dell’intellettuale vero, figo e vincente, mentre un tempo era una passionaccia da topo di biblioteca semi-deriso. Tutto questo è accaduto non per caso. E’ accaduto perché si è lottato, passo dopo passo. E’ accaduto perché si ama la musica e si ama l’arte, si odiano le discriminazioni e ci si tiene ad evidenziare i lati belli e le storie preziose che certe musiche, scene, artisti meno sotto i riflettori del momento possono offrire.
Ma occhio. Come nella “Fattoria degli animali” orwelliana, non è che ora si sta per cadere in uno snobismo al contrario? I maiali rischiamo di diventare noi. Oh sì. I maiali con la pretesa di essere più uguali degli altri. Molto più uguali, e molto migliori di chi ascolta Sven Väth, Carl Cox e altri attira-gente. Eh sì, perché c’è una cosa da dire: il Kappa FuturFestival è il festival degli attira-gente (esattamente come lo è MiF e come lo Movement), assolutamente. La line up è costruita per massimizzare l’affluenza. E qua bisogna fare un paio di considerazioni.
A furia di dimostrare di non essere “fratelli minori” (perché non si facevano i numeri delle serate attira-gente), le serate di qualità hanno sviluppato una cazzimma inizialmente benefica e positiva (l’orgoglio di sé e di quello che si rappresenta), ma che rischia ora di trascolorare nello snobismo e nell’arroganza. Domanda: attirare molte persone è una colpa? Un dj o in generale un filone musicale ti può anche non piacere; così come ti può non piacere il tipo di pubblico che un determinato filone musicale attira. Bene, nulla da dire. Lecita scelta di campo. Doverosa scelta di campo. Ma questo è abbastanza per sentire rabbia, disprezzo e fastidio? Perché esiste una differenza tra “Non mi piace, non è la mia storia, non la condivido” e “Che schifo, subumani, andrebbero cancellati, dovrebbero fallire”.
Certo. Ridiamo anche noi sull’ignoranza di certe persone che ascoltano solo Joseph Capriati (o Liebing, o Faki, o Dice, o…) e si esprimono, in italiano incerto, solo parlando di “bombe” e usando un numero ristrettissimo di vocaboli ed espressioni – sempre quelle e solo quelle. Sono macchiette. Chiaro. Dovrebbero ripigliarsi. Però sinceramente sono altrettanto macchiette quelli che si rinchiudono nel proprio snobismo e nella propria (supposta) superiorità intellettuale, sparando ad alzo zero su tutto quello che non è di loro gusto e di loro frequentazione. Un tempo la critica e la prassi “militante” avevano più senso: c’erano spazi da conquistare. Ora gli spazi li hanno tutti. Siamo anni luce avanti rispetto a dieci, venti anni fa. Forse allora si può tornare a concentrarsi su un fattore spesso sottovalutato nelle conversazioni “alte” sulla musica: quanto la musica e quanto un evento musicale sappiano far stare bene le persone, quanto seminino buone vibrazioni, quanto riescano a spingere le persone al sorriso e alla felicità. La musica, dalla notte dei tempi, è questo. Quando diventa solo un distintivo da appiccicarsi addosso per sentirsi più fighi, amiche ed amici, c’è qualcosa che non va. C’è qualcosa di profondamente sbagliato. E non esiste analisi critico-estetica, per quanto elaborata e raffinata, che possa cambiare questo dato di fatto, che possa rendere una pratica nobile lo snobismo dichiarato ed ostentato.
(Sven. E Gianluca Va… ah no, il fratello di Sven. Continua sotto)
E allora: c’è un valore intrinseco (anche) nei festival attira-gente con i nomi attira-gente. Questo se il pubblico non trascende, se non arriva lì solo per drogarsi stile cammello fino a non capire un cazzo, se non plana in battaglioni per fare risse o taccheggio, se non è lì solo per creare casino incivile. E vi possiamo dire che praticamente nulla di tutto questo è successo nella edizione 2017 del Kappa FuturFestival, vivendolo intensamente per due giorni. Se ti ci abbandonavi, al festival, senza snobismi, ti godevi un set molto solido di Sven Väth (è in forma ultimamente, il nostro, e stavolta si è pure portato dietro uno dei suoi due fratelli, folle vero, che ad una certa ha invaso il palco e c’è chi l’ha pure preso per Vacchi); un set buono di Carl Cox; un Kalkbrenner che con “Back To The Future” prova a ripulirsi la coscienza suonando solo roba primi anni ’90, e nemmeno troppo paracula (l’avremmo baciato in fronte, quando ha messo Gat Decor!); una Nina Kraviz non fantasmagorica, non sublime tecnicamente, ma comunque in grado di tenere bene la folla immensa davati a lei senza seguire per forza le strade più scontate. Al festival in due giorni scoprivi anche un Dixon molto più in forma rispetto ad Astro, un back to back Martinez Brothers / Seth Troxler molto sopra la media, un live di Âme convincente, un Fatboy Slim convalescente (non suona più paccottiglia semi-EDM ma deve ritrovare la finezza geniale degli anni d’oro, se mai la ritroverà), un Marcel Dettmann non trascendentale ma solido, una Carola Pisaturo con la sicurezza sorridente dei veterani e un Lollino che sarebbe ora di iniziare a prenderlo sul serio – lui sorride ed è entusiasta sempre fino al parossismo, ma è un dj serissimo, tecnicamente molto preparato, non un giullare senz’arte né parte, ha i mezzi per diventare un nome solido a livello europeo.
Tutta questa gente ha fatto bene il proprio lavoro. Eccome. Ha tenuto la pista. Ha scandito i tempi giusti. Ha dimostrato di avere una conoscenza irreprensibile dei dancefloor a grandi numeri (e i grandi numeri, quando non stai suonando EDM e non hai ritornelli adrenalinici o radiofonici da sparare, non sono così semplici). E’ in maniera assolutamente intenzionale che quest’anno, andando al Kappa FuturFestival, ci siamo concentrati su di loro e non sui nomi “chic”, nonostante questi ultimi non mancassero: Honey Dijon, Black Madonna, Masters At Work, la triade Kevorkian/Claussell/Krivit, Jackmaster, Glenn Underground e Boo Williams. Li abbiamo sentiti, questi ultimi, ma senza mai soffermarci troppo. Ci interessava più entrare nel “core” della storia del FuturFestival, entrare nella sua onda principale, quella degli headliner più “facili”, per capire al meglio l’evento. Gli artisti dell’elenco “chic” te li godi di più da un’altra parte (e infatti: non hanno mai radunato troppa folla, in proporzione ad altri, e nemmeno ci pare abbiano offerto delle prestazioni memorabili). Però ecco, anche la loro presenza deve far riflettere: ormai la corrente “chic” e, diciamo così, “acculturata” del clubbing ha una influenza morale talmente forte che pure i festival attira-gente sentono che devono comunque coprirsi “a sinistra”, mettendo dei nomi che siano percepiti come di qualità, pur essendo meno funzionali al contesto e, per certi versi, una spesa inutile (Masters At Work hanno fatto meno gente di Kölsch, per dire). Un tempo si sarebbe detto: sono le necessarie camere di decompressione, quei luoghi dove la gente si placa, smette di fare l’unno, sente un po’ di “vera musica” e la pianta di pensare solo ad ingollare pasticche e pedalare.
(Kölsch in azione sul terzo palco del Kappa FuturFestival. Continua sotto)
Forse era così un tempo. Ma, magari anche per la grossa presenza di stranieri (il 20% del totale, quest’anno: dato notevolissimo), non c’era minimamente questo sentore di selvaggeria ed inciviltà in giro, anzi, era molto più piacevole stare nel dancefloor del main stage del Kappa FuturFestival che in certi festival molto di alto profilo, molto saccenti, molto noiosi, molto autoreferenziali. E, onestamente, pure a MiF a Rimini stare in mezzo al pubblico non era certo un’esperienza da incubo, anzi. Forse sarebbe il caso di smettere di ergere steccati, muri, pregiudizi.
E’ che un tempo c’era il clubbing mainstream che fagocitava risorse, attenzioni, numeri: ora però bene o male un po’ tutti abbiamo imparato a difenderci, abbiamo imparato a comunicare, abbiamo imparato tramite il web a ricercare o a farci sentire – o almeno, abbiamo le potenzialità per farlo (e più di qualcuno lo fa pure). Non serve più invocare una supposta superiorità di un filone sull’altro, contrapponendo sempre qualità e quantità, perché ora ci sono le condizioni strutturali per un equilibrio molto più marcato. Del resto lo stesso clubbing mainstream è giustamente stimolato dalla “minaccia” di un clubbing più creativo, più vario, più colorato, più attento alle radici della club culture; ci pare che questa cosa si rifletta anche nel suo pubblico diventato, appunto, più consapevole, sorridente e civile (al netto di quella fisiologica percentuale di persone che vanno a ballare esattamente come andrebbero allo stadio o come starebbero seduti sui loro motorini a farsi le canne tutto il giorno o a sbronzarsi al bar del paese). Non stiamo dicendo che tutto è bello e pacificato, che tutti ascoltano tutto, che non si debba lottare contro la naturale tendenza delle cose più grosse e mainstream (relativamente alla nicchia d’appartenenza) di espandersi sempre di più ai danni di ciò che è più piccolo, meno attrezzato al mercato e più complesso – questa è una lotta che va sempre messa in agenda, se siete affezionati al bene dell’ecosistema musica. Forse però è finito il momento di doverla affrontare con la modalità (viscerale?, adolescenziale?) della “questione di vita o di morte”. E’ solo musica. E’ solo stare bene. Nessuno rischia di farsi del male, oggi, se a tizio, caio o sempronio piace di più Loco Dice di Lotic. Anzi: sono sempre più le persone che possono e vogliono ascoltare entrambi, cosa un tempo inimmaginabile.
Al Kappa FuturFestival 2017, arrivandoci con la giusta disposizione d’animo e la giusta voglia d’ascolto, si è stati davvero bene. E di sicuro i due giorni lì saranno fra i nostri migliori ricordi di quest’anno, al pari dei tre giorni spesi a Dancity. Anche se stiamo parlando di due realtà diametralmente opposte. Anzi: soprattutto perché stiamo parlando di due realtà diametralmente opposte. E nessuna delle due pronta per essere sepolta: magari non in salute, ma di sicuro non in crisi. “Crisi? Quale crisi?”…
(Foto di Simone Arena)