Avete presente quelle piccole routine, quei punti di orientamento comuni, insomma tutte quelle reminiscenze emozionali che, solitamente, innalzano l’esperienza del vivere con continuità un particolare luogo o momento fino al punto di renderli familiari ed irrinunciabili? Si tratti, che ne so, del proprio tavolo vicino all’ingresso nel pub di fiducia, del rituale giro dei bar con gli amici di sempre prima di entrare allo stadio, del panino dello zozzo con la mozzarella alla diossina che alle quattro del mattino dopo una serata di bisboccia sembra una primizia servita da Heinz Beck o del punto esatto dal dancefloor in cui vi ritrovate, settimana dopo settimana, con il vostro gruppo all’interno del club che amate frequentare. Quando si cerca di analizzare a fondo le motivazioni alla base di un processo mentale che porta qualcosa di sistematico a diventare uno dei massimi piaceri della propria quotidianità, l’unica risposta plausibile è che non c’è nulla di più bello dell’essere fedeli alle proprie tradizioni e di riconoscere ai piccoli piaceri che si danno per scontati gran parte della responsabilità del proprio buonumore.
Quando però entriamo nella sfera dei grandi eventi legati alla musica elettronica non tutte queste premesse riescono ad essere semplici da rispettare: concept che appaiono e scompaiono in un batter di ciglia, svariati tentativi di rimodellarsi/ingrandirsi col rischio di snaturarsi o al contrario doverosi cambi di rotta verso il basso per far fronte a problemi organizzativi ed economici di varia natura oppure il fattore di casualità che può portare a non presenziare con la dovuta costanza per questioni di disponibilità (economica e temporale) o motivazione. Ma soprattutto il concetto che un evento mordi e fuggi, con cadenza spesso annuale, difficilmente potrà essere complementare a quel tipo di continuità che serve a sposare il concetto inizialmente sciorinato.
Per questo motivo i pochi casi che riescono ad assumere il ruolo dell’eccezione sono così importanti per la nostra scena: esempi come la Sala 5 del Time Warp quando la luce invade tutto e Laurent Garnier fa il suo mestiere come pochi altri al mondo. Come il Members of Mayday che raccoglie in pochi minuti di laser-show lo spirito di una manifestazione che, dopo oltre due decadi di storia, ci tiene ancora a prendersi del tempo per ringraziare i propri affezionati astanti. Come i set di chiusura di Pepo all’Aquasella che raccolgono il doppio della gente e dell’entusiasmo di qualunque altro guest perché lui è uno di casa e gli spagnoli sanno come pochissimi altri esaltare il proprio patrimonio artistico. Come quel piccolo capolavoro, nato sotto le giuste congiunzioni astrali tra i boschi di Amsterdam West, che è il Selectors Stage al Dekmantel Festival.
Lo ricordo bene il mio primo incontro con il Selectors: dopo una sbalorditiva prima edizione – a cui non avevo potuto partecipare in quanto impegnato a nuotare fra fango ed inglesi al Creamfields – nel 2014 il Dekmantel Festival aveva dovuto far fronte ad un hype veramente importante per la sua seconda annata. Tanto da pensare, una volta che la line up completa era già stata rilasciata da diverso tempo, che forse servisse ancora qualcosa per dare un ulteriore valore aggiunto alla propria proposta artistico/emozionale. Ciò che ne scaturì fu una quinta area (oltre alle tre principali ed alla Boiler Room) dove si sarebbe provato ad offrire un diverso tipo di esperienza. Un approccio molto più “club-oriented”, in un’ambientazione più intima e con set spesso di durata maggiore rispetto alle canoniche scalette serrate tipiche dei festival, affidati a mani sapienti in grado di poter trasmettere il concetto al massimo del suo effetto. Nelle settimane antecedenti all’evento venne anche pubblicata una serie di video di presentazione ispirati ad alcuni degli artisti in cartellone come Antal, Ben UFO e Mr. Ties.
La reazione iniziale all’annuncio di questo stage, non lo nascondo, fu di moderato scetticismo. Non tanto perchè non credessi che tali nomi fossero in grado di essere funzionali allo scopo, quanto che per esperienze pregresse in terra olandese quel tipo di esperimenti di voluta intimità, di set lunghi ed ambientazioni particolari avevano quasi sempre finito per sconfinare nell’anonimato rispetto alla magnificienza degli stage di maggior appeal. Con la conseguenza di veder sprecata una consistente fetta di line up in un luogo al massimo di passaggio ma mai di vera festa. Bè, inutile dire che mai valutazione fu più sbagliata. Appena messo piede all’interno del festival, con i punti di raccolta principali ancora piuttosto scarichi vista l’ora tutt’altro che tarda, ero inevitabilmente finito per fare un giro di orientamento. E quando è stata l’ora sono finito per passare davanti a quel corridoio di legno stretto e lungo, protetto sui tre lati dall’Amsterdamse Bos, il bosco di Amsterdam come dice anche il suo stesso nome, con un enorme salice piangente a farne da simbolo nel mezzo ed una pagoda di carta di riso (divenuta poi una tettoia in legno nell’ultima edizione) illumitata timidamente da poche luci bianche come unico proscenio, destinata a diventare, una volta calata l’oscurità, l’unico riferimento visivo insieme alle mani al cielo. Come un bellissimo miraggio alla fine del tunnel. La gente era semplicemente impazzita di gioia, quasi a non voler credere che si potesse vivere una situazione di quel tipo in un festival da migliaia di persone.
I ricordi accumulati in quella sala negli ultimi tre anni, in attesa fra poche settimane di aggiungere la quarta tacca sul bastone, rimarranno per sempre parte del mio bagaglio emozionale come amante della musica: il set colossale di Prins Thomas e Gerd Janson in back-to-back, probabilmente il punto più alto dell’edizione 2014 insieme a quello di Antal che saltava ed urlava più di chi gli stava di fronte mentre bombardava tutti a colpi di acid house. Le lacrime di gioia alle due di pomeriggio del venerdì dello scorso anno per il set di DJ Harvey spostato all’ultimo minuto in apertura e divenuto da potenziale disastro a più bel modo possibile per entrare nel mood del weekend. Così come le cinque ore di Antal, Hunee e Floating Points ed il set enorme di Motor City Drum Ensemble nell’edizione 2015. O il genio e sregolatezza di San Proper e Melon a rappresentare la città dei canali contrapposti al genio e basta di Ben UFO. Tutta la sala che salta al chiaro di luna al ritmo degli ABBA durante la chiusura di I-F. Senza dimenticare le grandi scoperte come lo straordinario back-to-back fra Pender Street Steppers e Beautiful Swimmers e la classe cristallina di Call Super. Il tutto coronato da una un’energia ed un’ambientazione capaci creare un magnete irresistibile per chi in un festival cerca un’esperienza più profonda e preferisce magari fermarsi ed avere pazienza di ascoltare ed entrare nel mood della festa invece che correre da uno stage all’altro per sentire più guest possibili.
Ovviamente, a suo tempo, il Selectors è stato una scommessa. E sono abbastanza convinto che neanche gli stessi ideatori avessero idea di cosa avessero realmente per le mani quando l’hanno concepito. Com’è altrettanto innegabile che la linea di demarcazione fra fortuna e lungimiranza sia qualcosa di spesso labilissimo. Ma la storia, da sempre, la scrivono i vincitori. E ciò che i ragazzi di Dekmantel hanno ottenuto in termini sia di qualità del prodotto che di soddisfazione del cliente finale con questo concept è stato talmente oltre le aspettative (e sfido chiunque a dire il contrario) da renderlo immediatamente iconico riuscendone addirittura ad ampliare il concetto fino ad uno spin-off, il Selectors Festival, di cui questa estate sulle coste croate avrà già luogo la seconda edizione. Ma la componente che più di ogni altra ha forgiato il mito di questo piccolo angolo di Paradiso è stata senza dubbio quella al di qua della consolle. In quella pista sempre colma di colori sgargianti e animali gonfiabili e persone spesso diverse eppure così unite, a scambiarsi sorrisi e sorsi di birra ridendo di chi, a turno, si era arrampicato su quel salice e rischiava passi di danza scanzonati a costo di cadere rovinosamente al suolo. Era la lucida follia di una sala che avrebbe potuto tranquillamente valere da sola il prezzo del biglietto. E che rimane, anno dopo anno, l’evento che attendo con maggior trasporto, la routine di cui non potrei più fare a meno. Ciò che qualunque clubber che si consideri tale dovrebbe provare almeno una volta per dire “Anche io ho visto la luce in fondo al Selectors”.