Esistono delle sfide uno contro uno in cui perdono entrambi? Esistono. Non magari nel basket, ma per quanto riguarda la sfera del clubbing e delle discussioni in generale su faccende di cultura e società giusto ieri abbiamo potuto vederne una. I fatti: Dj Mag Italia, nella persona Albi Scotti, ha preso spunto da una cosa sentita alla radio sul famoso (e famigerato) Zoo di 105, ovvero una non meglio specificata lettera anonima di un famoso dj che denunciava quanto Gianluca Vacchi fosse un usurpatore del titolo dei dj (e di un sacco di attenzioni e di date strapagate nel mondo dei club e delle discoteche), per scrivere un editoriale in cui si analizzava la cosa. Si conveniva sul fatto che sì, forse Vacchi un mezzo usurpatore lo è, ma è giusto stare sulla linea – già altre volte rivendicata da Dj Mag Italia nel suo insieme – che fondamentalmente c’è spazio per tutti, che le cose oggi vanno (anche) così, che se una cosa non ci piace in realtà basterebbe ignorarla, per concentrarsi invece a parlare di cose belle&valide. Questo il passaggio saliente:
Di sicuro, se non siamo esattamente entusiasti della brutta abitudine dei proprietari dei club di ospitare dj che si improvvisano tali (e sia ben chiaro che non lo siamo: ci occupiamo di club culture, non di gossip), siamo anche abbastanza maturi per capire bene il meccanismo del gioco. Come già scritto e ripetuto, se non ci interessa, basta non dargli spazio. Inutile lamentarsi e rosicare. Solo costruendo una narrazione diversa e positiva educheremo il pubblico al bello. Non certo recitando le brutte lettere di presunti dj famosi incazzati.
Vacchi, da quel che si sa, non ha reagito (e in fondo: che gliene frega a lui), ma tirato in ballo Marco Mazzoli dello Zoo di 105 ha invece messo il carico pesante. Il post lo potete leggere qui, i toni sono quelli che se conoscete lo Zoo, beh, un po’ ve li potete già immaginare. I concetti base sono ribadire che l’endorsement dello Zoo e di Mazzoli in prima persona a questa lettera anonima nasce dall’amore e dal rispetto verso la dignità della professione da dj (cosa che, del resto, lo stesso Scotti rivendica nel suo pezzo: evidentemente si rivendica lo stesso obiettivo, ma con modi e da posizioni molto diverse). Poi però si è andati più in là, nel post uscito sulla pagina dello Zoo, arrivando a dire che la presa di posizione di Dj Mag nasca, in fondo, dalla voglia dell’estensore dell’articolo di entrare nelle grazie di Vacchi.
Ora: chi conosce anche un minimo Alberto Scotti, sa che di entrare nelle grazie di Gianluca Vacchi non gliene può importare di meno. Ma anche se non lo si conosce personalmente, ecco, dovrebbe bastare il buon senso: che senso ha un attacco di questo genere? Che argomentazione è? Possibile che sempre più ogni critica debba essere rispedita al mittente con la filastrocca del “Parli così perché in realtà sei invidioso” o “Critichi qualcosa o qualcuno perché in realtà lì vorresti esserci anche tu”? Possibile sia così difficile entrare e limitarsi nel merito, restando lì in un dialogo anche aspro ma onesto, per sfociare invece subito nell’attacco personale?
Oh. Facendo professione di cinismo si potrebbe dire: ha vinto Vacchi (tanto le date le fa, ed è anzi uno di quei casi che più se ne parla – anche male – più si perpetua la sua popolarità e il suo carisma); ha vinto lo Zoo di 105 (tanto lo Zoo vince sempre, con gli ascolti che fa, e per giunta qua Marco Mazzoli ha potuto ergersi a difensore della dignità del mestiere di dj, a pieno titolo); ha vinto Dj Mag (che quando un tuo articolo è ripreso dal profilo Facebook ufficiale dello Zoo di 105, volano le views). Cinismo per cinismo, ora anche noi – buoni ultimi – vogliamo una piccola fetta di questo banchetto a cui non eravamo nemmeno stati invitati, attaccandoci alla polemicuccia e raschiando pure noi qualche view residua.
Sapete che c’è? Vaffanculo il cinismo.
Sapete che c’è? Vaffanculo il cinismo. Non ci basta. Non ci accontenta. Fa fare la figura dei “più intelligenti”, il cinismo, di “quelli che la sanno lunga”: vero. Però allora, a costo di sembrare stupidi e/o pedanti abbiamo un paio di cose da dire.
La prima. Due indizi fanno una prova. Se metti Paris Hilton in copertina (eggià, è successo, rispondendo piccato a chi ti criticava per questo) e poi fai un editoriale dicendo in sintesi “Massì, ma chi se ne importa di Gianluca Vacchi” (mettendo però Gianluca Vacchi come immagine a corredo del pezzo, e ammettendo in esso implicitamente – anzi pure esplicitamente – che anche lui fa parte della narrazione della dj culture contemporanea), la tua posizione ormai è chiara. Posizione lecitissima. Una posizione per cui la “club culture” – il tuo claim sotto la testata è, ricordiamolo, “Il magazine culto della club culture mondiale” – perde il suo significato e il suo contesto originario per diventare invece una delle tante branche del pop, nel bene e nel male. Giusto quella più pittoresca, tecnologica e nuova.
Ma pop e club culture sono due cose diverse. Se lo chiedete a noi, sono due cose diverse. Sono e resteranno due cose diverse. Uno può ritrovarsi benissimo in entrambe (un esempio a caso fra mille: Fatboy Slim, all’epoca del suo maggior successo popolare), ma credere che la prima possa trascolorare nella seconda e viceversa senza effetti, senza conseguenze, senza che nessuno batta ciglio, è una posizione un po’ troppo comoda, per quanto ci riguarda.
Ma pop e club culture sono due cose diverse. Se lo chiedete a noi, sono due cose diverse.
Il pop è arrivare a tutti, senza distinzioni. Il pop è il racconto del successo, dei numeri, di una musica e una cultura “aperte” che parlino a tutto e tutti, rendendosi il più possibile semplici, vaste e comunicative. Il pop è onnivoro: può essere pop il dj, può essere pop il pianista classico, può essere pop il rocker, può essere pop il compositore di musica elettronica. E’ la sua forza.
E’ bello raccontare il pop. E’ utile raccontare il pop. E’ fondamentale saperlo raccontare: soprattutto se lo si fa in maniera critica, acuta, non celebrativa (il pop ci pensa già a celebrarsi da solo, con la sua rincorsa verso i grandi numeri). E’ interessantissimo individuare i percorsi che portano dall’underground, dalla nicchia, al successo mainstream: descriverli è sia buona letteratura che validissimo giornalismo, quando è fatto a modo e con acuta, appassionata onestà. Anche perché, e questo sia sottolineato mille volte, il pop di suo non è “il male”. Zero. Il pop (…a seconda di come viene declinato, a seconda di come viene fatto) può essere sia una manifestazione positiva che una manifestazione dannosa. Chi asserisce che il pop è un male assoluto a prescindere è gnucco e un po’ ottuso, e lo è tanto quanto chi giudica invece la validità di un prodotto solo dai numeri che fa. Stesso meccanismo mentale alla base di posizioni, apparentemente, opposte.
Benissimo. Assodato questo, il pop però è una cosa, la club culture un’altra. Sono due ottiche diverse. E nell’ottica di una cultura specifica, quale è la club culture, bisogna mettere dei paletti. Sennò vale tutto. Insomma: non è il massimo pensare di poter tenere il piede in due staffe e offendersi se qualcuno prova a dirti “Eh però, un po’ troppo comodo così, sai?”. Da un lato ti ergi orgogliosamente a portavoce della club culture mondiale, lo fai specificatamente ed orgogliosamente; dall’altro dai spazio ed esposizione ai Vacchi e alle Paris Hilton, dicendo che anche loro oggi fanno parte della narrazione attorno al deejaying e alle serate nei club. Il che è anche vero, occhio: è oggettivamente così. Ma non è la narrazione originaria della club culture quella che stai raccontando, è invece la narrazione che il pop, coi suoi meccanismi, dà della club culture. Una narrazione filtrata. Sofisticata. Geneticamente modificata. Semplificata. Lucidata. Perché il pop, quando prende e attinge dalle nicchie, questo fa. Non è una colpa, non è un’accusa: è una constatazione.
Però ad un certo punto ti va chiesto: tu da che parte stai?
Puoi parlare di tutti e di tutto, quello sì. Ed anzi, se ci riesci – se ne hai il tempo, se hai i mezzi – è bello che tu lo faccia. Ma ecco, stare dalla parte di tutti è un’altra cosa ed è invece proprio fisiologicamente un po’ più difficile. Un po’ più complesso e problematico da sostenere.
Puoi parlare di tutti e di tutto, quello sì. Ed anzi, se ci riesci – se ne hai il tempo, se hai i mezzi – è bello che tu lo faccia. Ma ecco, stare dalla parte di tutti è un’altra cosa.
Occhio, se siete arrivati fino a qui, a non trarre delle conclusioni sbagliate. Occhio. Chi ha fatto di più per la club culture in Italia: lo Zoo di 105 o Dj Mag Italia? Albi Scotti che segnala e supporta FiloQ e Giorgia Angiuli o Marco Mazzoli che rivendica i successi della sua radio di base a Miami che dà spazio ai “soliti” Pete Tong, Bob Sinclar, Nicole Moudaber? Ovvio che le risposte sono: Dj Mag Italia, e Albi Scotti. Ma proprio zero dubbi.
Però Mazzoli ha sollevato un problema reale, quello dei personaggi “alla Vacchi” che possono permettersi di dire “Ora faccio il dj” e che quindi trovano persone disposte a versare loro dei cachet molto alti per il loro supposto essere dj, e rispondere con “Le cose oggi vanno così, inutile essere negativi, distruttivi e criticoni” non è una risposta che una testata che si erge a chiare lettere a portavoce della club culture mondiale dovrebbe dare, per come la vediamo noi. Se sei innamorato di qualcosa, ci tieni a proteggerlo. Se ci tieni davvero a qualcosa, tenti di preservarne la dignità da derive discutibili e dozzinali. Se ti senti legato a doppio filo ad una comunità e ad una cultura, fai di tutto per ricordarne lo spirito fondante e combattere o almeno svelare interpretazioni distorte, pur accettando (ed incoraggiando) le evoluzioni del caso.
Insomma, cerchi di tenere un approccio critico. Questo è. L’altro approccio, quello che tipo falene nella notte segue con entusiasmo ed approvazione la luce del successo, dei grandi numeri, del “comunque se ne parla” e dell’”onda giusta”, è un approccio che invece va benissimo se la tua cultura di appartenenza originaria è il pop. Cosa che non è una colpa (…già detto, ma forse è meglio ridirlo, ‘anvedi mai), no, però è una scelta.
L’altro approccio ancora, quello de “Parliamo solo delle cose positive, da qualsiasi parte esse arrivino e senza preclusione, a cosa serve lamentarsi e criticare se non ad inquinare l’aria che tutti respiriamo?” ci può anche stare, ok, ma ha un grosso difetto. Se le cose prendono una brutta piega, tu diventi complice della piega in questione. Ci sono tante cose positive del Ventennio da raccontare: le bonifiche, i grandi progetti urbanistici, i treni che vanno in orario; però ecco, forse la storia nel suo insieme è oggettivamente un po’ più complessa, e un paio di cosine negative sarebbe il caso di sottolinearle. Oppure, cambiando sponda politica: forse le BR erano qualcosa di più – e di peggio – di semplici “Compagni che sbagliano“, come da citazione storica. Per fortuna che non ci si è limitati a questa timida reprimenda color pastello, ma le voci critiche sono state a sinistra ben più marcate.
Ma senza entrare in un paralleli così estremi e forse pure un po’ scorretti (anzi, togliamo il forse, ma è per amore di dialettica), ci sono tante cose da raccontare della galassia Vacchi, tante: il successo, la gente che accorre alle sue serate e si diverte, le risate che si fanno in tanti. Ma se ci venite a dire “Che volete, che ne parlate, lasciatelo stare, non fa male a nessuno”, beh, quello è sbagliato: far passare il messaggio che qualsiasi stronzo milionario pacchiano possa diventare un protagonista nel mondo del clubbing in cinque minuti, con la sola forza della sua (discutibile) fama, significa perpetrare e perpetuare il messaggio secondo cui non conta essere bravi in una professione o in un’arte, conta essere “famosi” – in qualsiasi modo questa fama arrivi. E chi ha qualcosa da ridire, ce l’ha piccolo e/o è invidioso.
A noi questa visione invece indigna sempre. E parecchio. Anche perché tocca qualcosa che amiamo, e a cui teniamo. A voi? Vi indigna? Vi dà fastidio? O vi indigna più chi s’indigna? Se non vi indigna poi così tanto non è forse perché in fondo, inconsciamente pure, quelli famosi vorreste essere un po’ anche voi e tutta questa fama guadagnata a ufo non vi pare insomma una cosa così preoccupante, misera e condannabile? Che poi è quello che larvatamente dice Mazzoli: ed è un peccato dargli delle pezze d’appoggio anche minime, quando non ce ne sarebbe proprio motivo.
Mazzoli, dal canto suo, è già famoso. Se utilizzasse questa fama evitando di dare gratis del “leccaculo” a persone che non lo sono di sicuro, scatenando la canèa dei suoi ascoltatori meno riflessivi, beh, anche lì sarebbe un mondo migliore per tutti. Solo che lo Zoo vive di canèa, ne fa la sua forza. Dj Mag, invece, si spera non viva di Vacchi e di “vacchismo”. Né voglia ritrovarsi a farlo mai.
E con questo, abbiamo detto la nostra.
Dichiarando da che parte stiamo.