Paul Kalkbrenner pubblica “7”: il suo ultimo album, uscito il 7 agosto, primo figlio nato dal contratto a lungo termine firmato con Sony/Columbia agli inizi dell’anno, contratto che aveva destato un po’ di perplessità e su cui avevamo scritto un lungo e dettagliato editoriale cercando di tracciare e delineare i possibili risvolti di una scelta così inusuale operata da uno dei più rappresentativi esponenti del sound berlinese. Oltre ai vincoli contrattuali (che però non conosciamo nello specifico), Kalkbrenner si porta sulle spalle anche l’onere e il difficile compito di non deludere etichetta e fan (ad oggi oltre 2,4 milioni di like solo sulla pagina Facebook) che ha saputo conquistato con la sua techno via via sempre più accessibile e trasversale, miscelando groove, loop e sonorità ammiccanti; un’architettura sonora purtroppo però sempre più spesso priva di un vero elemento innovatore. Indubbiamente fare techno e rimanere ad altissimi livelli è un mestiere difficile, e cambiare lo è ancor di più – soprattutto se si gravita tra le fila di una major che difficilmente guarda all’arte con gli occhi di un mecenate. Tutto ciò in questo nuovo disco, molto lontano dalla strada dell’autoproduzione e dell’autopromozione, si è subito percepito con la grande campagna pre-lancio messa in atto con la trilogia video incentrata sul personaggio Florian alle prese con la difficile evangelizzazione musicale sulle note dei primi 3 brani estratti.
Se in teoria il libero accesso agli sconfinati archivi della sua nuova label sembrava foriero di grandi novità, nella pratica tutto ciò nell’album si concretizza purtroppo in pochi anche se ben scelti (ma qui si vince facile) sample vocali presi da “You’re The One For Me” di D-Train utilizzato nel primo, davvero poco entusiasmante singolo “Cloud Rider”, poi proseguendo “Never Too Much” di Luther Vandross nella bella “A Million Days” e, apice dell’album, “White Rabbit” di Jefferson Airplane a trainare tutto il brano “Feed Your Head”. Nel corso di dodici tracce ben costruite e ben realizzate anche se troppo di maniera, “7” spazia dall’elettronica aperitiveggiante di “Channel Isle” alla house raffinata e arpeggiata di “Cylence 412” passando poi per la swingata “Shuffleface” al trittico sample based citato poco fa, fino a farci assaporare un po’ di techno dura e pura in “Motherfucker”, il tutto con una compostezza esemplare, forse – lo ripetiamo – eccessiva.
A conti fatti questo nuovo lavoro non porta una ventata di novità, non snatura comunque lo stile PK e si posiziona volutamente in uno spazio piacione dove l’elettronica diventa la colonna sonora un po’ per tutti, anche se davvero lontano dai momenti migliori e più sperimentali a cui ci aveva abituato ad inizio carriera. Per il momento aspettiamo di vederlo dal vivo nell’unica data italiana attualmente in calendario il prossimo 5 settembre a Treviso, in occasione di Home Festival, ma se non avete ancora ascoltato l’album fatelo, tirando le somme ne vale comunque la pena.