Se uno ci pensa, è abbastanza inquietante il fatto che Paul Kalkbrenner sia diventato una stella assoluta in grado di riempire non più club da 300 posti ma arene dieci volte più grandi. Da noi, ma non solo da noi. Inquietante, perché tutto nasce da “Berlin Calling”: un lungometraggio cinematograficamente bruttino eppure interessante ed affascinante. Certo, pensare che un tempo Berlino era celebrata e raffigurata al meglio da Wenders mentre ora lo stesso compito è assolto da un filmetto recitato da cani e girato con pochi mezzi, ecco, fa pensare che forse non tutto è perfetto nei tempi che stiamo vivendo.
Ma tant’è. Per voi che leggete e per noi che scriviamo, Berlino è la città-dei-sogni: quella dove i club chiudono all’alba o addirittura fino al pomeriggio dopo, dove tutto costa poco, dove tutto (o quasi) è permesso, tutti (o quasi) i producer ci vivono e ci prosperano ma a dirla tutta anche chi producer non è può avere la sua bella fetta di sogno edonista, foss’anche solo per un weekend. Meraviglia. E lo diciamo senza ironia. “Berlin Calling” vuole raffigurare tutto questo; ingenuamente, ci riesce… ci riesce perfino bene. Nobilmente, prova anche a lanciare il messaggio del “Troppo clubbing e troppo sballo ti trasformano in una merda”, come nel film la parabola di DJ Ickarus (recitato da Kalkbrenner, appunto) dimostra perfettamente. Messaggio che magari qualcuno prende un po’ sotto gamba, e del film piglia solo il fascino delle serate al Maria, delle scopate al Bar 25, del glamour, della allegra ed artistica follia di una generazione che ha scoperto il modo per sopravvivere – danzando a pupille dilatate – alla recessione globale.
Kalkbrenner, del film, piglia l’enorme popolarità che si è ritrovato addosso, soprattutto quello. Perché provare ad analizzare con lui la sceneggiatura e lo scopo del film è, beh, un’esperienza sconfortante. Del resto, oh, perchè dovrebbe sforzarsi? Adesso, forza del film, tutti identificano Berlino, anzi, il sapore di Berlino con lui. Ecco spiegata la popolarità che all’improvviso si è fatta immane. O almeno, ecco spiegata parte di essa.
In realtà, non è solo il film. Il film ha giocato un ruolo decisivo, ma se Kalkbrenner fosse stato sì la star di “Berlin Calling” ma un produttore mediocre, l’incanto non sarebbe scattato. Ma attenzione: l’incanto non sarebbe scattato anche qualora Kalkbrenner fosse stato invece un produttore geniale, un Hawtin prima maniera, un visionario rigoroso alla Moritz Von Oswald e soci, un rivoluzionario alla Aphex Twin – ecco, in quel caso Kalkbrenner sarebbe stato un personaggio troppo complicato, con una musica non per tutti, l’effetto-identificazione sarebbe stato quindi ben più farraginoso. La musica di Paul invece, e l’appena uscito “Icke Wieder” ne è l’ennesima conferma, è per tutti. Lui ha veramente un talento non comune nel disegnare una techno soffice, melodica, accessibile, con una serie di sample accessibili a tutti (frammenti di chitarra, di sassofono…) che manco la house da cocktail bar. Una tech-house banale e paracula, allora? Ma no. Non è così.
Ci vuole talento vero per assemblare musica così scorrevole e, come dire?, democratica come quella contenuta in quest’album. “Icke Wieder” è esattamente quello che fu “Play” di Moby un decennio fa. Un disco cioè che vorresti odiare, perché troppo perfetto, troppo orecchiabile, troppo pulitino, poco innovativo; ma che invece non puoi fare a meno di ammirare, perché tutto è talmente messo bene al proprio posto che pure tu ritrovi a canticchiare i pezzi e a premere (o cliccare) di continuo play!, play!, play!, notando pure che ci sono – in mezzo a tanta scorrevolezza – soluzioni che sembrano banali ma invece non lo sono per nulla. Tracce come “Böxig Leise” o “Kleines Bubu” ti fanno pensare “Beh, ma chiaro che se faccio una traccia così poi la gente balla mani in aria sorridendo, che ci vuole!”: ci vuole che tu, se ci provi, nove volte su dieci non ci riesci. Non ti verrebbe fuori qualcosa di così filante, rotondo, ben proporzionato nei suoni e nelle strutture.
Bravo allora il nostro Paul. Il Moby della generazione Panoramabar. Eh. Il Moby vero è diventato col tempo un lagnoso moralista e un produttore troppo prevedibile; cosa diventerà Kalkbrenner, è difficile da capire. Forse se guardasse un po’ meglio “Berlin Calling”, invece di recitarci e basta, potrebbe far suoi due o tre buoni consigli di vita; ma quando all’improvviso le persone di fronte a te passano da 300 a 3.000, e non perché tu abbia cambiato modo di far musica, non è semplicissimo restar lucidi.