Pellegrino è, molto semplicemente, uno dei grandi personaggi della scena contemporanea napoletana tra dancefloor, retrò, recuperi intelligenti, grande competenza musicale: la Early Sound, le avventure in combutta coi soci (di città, d’attitudine…) Nu Guinea e Famiglia Discocristiana, la capacità anche di pensare in grande con progetti come Zodyaco. Proprio via quest’ultimo ha fatto uscire, recentemente, un album come “Morphé” davvero maturo ed articolato (guidando una band di altissimo livello in cui compaiono anche Dario Bass e Linda Feki). Un album che rientra al 100% in quella intersezione fra napoletanità e disco-jazz-funk fine anni ’70 / primi ’80 che, dall’epoca di Pino Daniele e Napoli Centrale, pare proprio un marchio ineludibile, nonché un “trigger” quasi immediato per gli appassionati di un certo tipo. E’ proprio su questo punto che abbiamo scambiato due chiacchiere con Pellegrino: fino a che punto questa connessione rischia di diventare feticismo e, quasi, automatismo?
“Morphé” è affascinante, accattivante, divertente. Ma è anche esplicitamente, irrimediabilmente retrò. Visto però che si parla di “nuovo sound mediterraneo”, questo “nuovo” deve per forza essere retrò?
Assolutamente no, non deve essere per forza retrò, ma credo che questo dipenda dal proprio stile. Non ho mai pensato di appartenere ad alcuna corrente musicale specifica con il mio lavoro: per me il concetto di “Mediterranean vibes” non è una rigida etichetta legata ad un genere in particolare ma piuttosto ad un mood, a delle sonorità evocative, che poi è il percorso discografico, estetico e musicale che porto avanti con la mia etichetta (Early Sounds Recordings) da un po’ di anni, anche con dischi di altri musicisti e produttori. E’ proprio questo che mi affascina del Mediterraneo e che a mio avviso lo rende un bacino infinito dal quale attingere, un grande ponte fra i popoli che può ispirare e coinvolgere anche chi non è originario di questa parte di mondo – perché è un’attitudine, non una regola. Così come le sonorità di “Morphé”, non seguono un rigido schema di riproposta di un determinato genere, sono per me spontanee e naturali in quanto legate alle mie radici.
Due anni fa, intervistato sempre su Soundwall da Valerio Spinosa, una delle domande era: “La Napoli-mania rischia di essere una meteora”? La risposta era stata elaborata, precisa, argomentata molto bene. Due anni più tardi, il rischio-meteora è più forte? E, ci sarebbe qualcosa da aggiornare o modificare nella risposta che avevi dato allora?
In effetti a distanza di più di due anni direi che in quella risposta ancora mi rispecchio e la considero attuale. Anzi, forse oggi con il senno di poi, potrei aggiungere che il pericolo che c’era, cioè quello di cadere nei cliché che necessariamente semplificano e banalizzano perché devono “impacchettare” un concetto e renderlo digeribile, è più frutto dell’interpretazione esterna di ciò che viene proposto piuttosto che del prodotto stesso. Insomma, il cliché è negli occhi di chi guarda.
(Eccolo, “Morphé”; continua sotto)
Questo indulgere su una “epoca dell’oro” della musica napoletana non rischia di dare per l’ennesima volta una veste “da cartolina”, un po’ troppo pittoresca e “romantica”, a ciò che arriva da Napoli? In fondo è quello che a lungo è successo al cinema o alla musica all’Italia: andava bene solo il film alla “Mediterraneo” o alla Tornatore, perché era così che l’Academy degli Oscar vedeva e “riconosceva” l’Italia, o per quanto riguarda la musica i nostri prodotti da export erano la melodia di un certo tipo, vedi Ferro, Pausini, eccetera. Insomma: l’effetto “cartolina” può dare una gratifica immediata, ma forse può anche soffocare o dare meno credito a ciò che c’è di nuovo ed “internazionale”…
Questa domanda mi ha fatto pensare immediatamente alla cover di “Morphé”, nella quale il concetto di “cartolina” della città è capovolto offrendo uno scenario inedito. Il disco è infatti “dedicato a Napoli vista dal Vesuvio”, come recita una didascalia nel retro di copertina. La nostra esperienza come etichetta ha un carattere prevalentemente estero, sia come base che come utenza; proprio per questo forse, dopo tanti anni passati a cimentarsi con altre realtà, l’idea di provare ad esprimersi con un linguaggio che ci appartiene così visceralmente sembrava quella più interessante. Per il resto credo che l’epoca d’oro della musica a Napoli duri ormai da molti secoli, ma al di là della storia c’è il fermento di oggi e la contemporaneità che per me non deve essere necessariamente sinonimo di modernità o attualità intesa come sonorità, ma come contenuto e capacità di comunicarlo.
Che poi, siamo nell’epoca in cui si (ri)scopre e si (ri)valuta tutto: va anche detto che un sacco di musica oggi celebrata, e vale in primis per l’indirizzo stilistico di “Morphé” tutto, un tempo invece era vista come abbastanza dozzinale, “facile”, commerciale – colonna sonora da commedia sexy all’italiana di non eccelso valore, oppure una riedizione italiana degli Shakatak (gruppo all’epoca sfottutissimo dai “veri” appassionati di musica, poveracci). Sbagliavamo tutto allora, siamo troppo “entusiasti” adesso, o… terza ipotesi a piacere?
Mi piace pensare che non esista un tempo giusto per la musica: esiste solo il tempo nel quale succede di per sé. Anche se averli oggi, alcuni di quei compositori che si celavano dietro molte colonne sonore da commedia sexy… (sorride, NdI). Amarcord a parte, credo che l’Italia abbia da sempre espresso grande qualità: probabilmente il nostro più grande limite è non saperci valorizzare rendendoci davvero coscienti ed accrescere quelle potenzialità che invece, per fortuna, all’estero vengono apprezzate. Insomma forse siamo un po’ troppo indulgenti sui nostri limiti, ed un po’ troppo severi nel riconoscere le nostre capacità.
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