Rabih Beaini, in arte Morphosis, è un dj e producer sempre più conosciuto e rispettato nell’ambito della club culture contemporanea, e questo dovreste saperlo, ma prima di tutto è una persona splendida. Soprattutto, se non lo conosci e non lo hai mai incontrato, Rabih Beaini è uno che ti può sorprendere tantissimo: sai di questo dj e producer carismatico, ok, che vive a Berlino, che è libanese, che lavora col meglio sia della techno che dell’avanguardia più colta e sperimentale passata, presente e futura… insomma, ti immagini una persona un po’ ieratica, distante, chiusa e altezzosa. No? Soprattutto irrimediabilmente straniera. In realtà, se poi lo incontri, è una persona totalmente alla mano e simpatica, con tra l’altro un italiano perfetto dalla pronunciata cadenza veneta. Ora che il suo nome è da un paio d’anni sulla bocca di tutti a livello europeo, è un onore e una felicità poter pubblicare qua su Soundwall questa lunga chiacchierata fatta un po’ di tempo fa, con la scusa di introdurre nel modo migliore la sua presenza nella bella line up di Terraforma, un festival molto particolare (e molto stimolante) che si svolgerà alle porte di Milano, a Villa Arconati, nel primo weekend di giugno. Festival di cui Morphosis è primo fiancheggiatore dello staff che lo ha concretamente organizzato e portato avanti: di Terraforma e di come poteva essere ne parlammo il sottoscritto e lui ancora quasi due anni fa, girando di notte per le calli di Venezia. Sembrava un’utopia, perché Rabih è sempre un po’ idealista ed utopico in tutto quello che fa, è diventata realtà. Ma un mondo in cui le utopie di Morphosis diventano realtà, ecco, non può che essere un mondo migliore. Anche quando – nonostante i suoi sforzi, come potrete leggere – queste utopie finiscono coll’essere apprezzate dalla club culture più mainstream.
Sei un personaggio totalmente atipico ed inspiegabile, tu e la tua parlata veneta e la tua simpatia e il tuo calore umano. Dovresti essere altezzoso, esprimerti solo in inglese ed eventualmente un po’ in tedesco, tirartela un sacco, visti anche i riconoscimenti che ti stanno piovendo addosso da un paio d’anni a questa parte… Insomma, cos’è andato storto? Un libanese che vive a Berlino, che è diventato un piccolo culto globale, ma che parla con fluentemente in italiano e con un localissimo accento veneto: davvero, cosa è andato storto in tutta questa storia?
Non lo so… So che ad un certo punto, mentre ero in Libano, mi hanno chiesto “Dove vuoi andare a vivere in Italia?”: Venezia era all’ultimo posto della lista che mi avevano presentato e quindi, ovviamente!, ho scelto lei. C’ho vissuto per quattordici anni. Ho studiato architettura lì, fino a tre anni fa è stata casa mia, ma in parte ancora adesso lo è: sto a Berlino, giro il mondo ma vengo spesso in Italia, e proprio Venezia avrà sempre il sapore della seconda casa.
In realtà i tuoi primi esperimenti da producer li avevi fatti quando vivevi ancora in Libano, il punto è che scorrendo la tua biografia su Resident Advisor si legge una cosa tipo “Ho imparato molto, stando in Italia”. Di nuovo, qua c’è qualcosa che non quadra: di solito dell’Italia ci si lamenta, qua non c’è cultura, non è possibile fare le cose, eccetera eccetera… Ancora, allora: cos’è andato storto?
E’ tutto storto nel mio caso, vero! (risate, NdI) Uno tende a sottovalutarla, l’Italia. Si parla sempre di Germania, Londra, Berlino, New York… Sono posti fantastici, ovvio, dove è nata e si è sviluppata al meglio la musica elettronica che viene proposta in giro per il mondo. Ma l’Italia secondo me non ha nulla da invidiare, nulla. Soprattutto rispetto all’America: che oggi come oggi per l’elettronica di un certo tipo è messa in modo disastroso… Le serate più rinomate, per dire Bunker a New York, sono eventi da quattrocento persone massimo: lì veramente ti chiedi “Ma dove sta la techno in America?”; ce ne sono in giro, di serate techno, sì, ma sono veramente piccolissime, una nicchia della nicchia, e soprattutto soffrono, soffrono molto, fanno fatica a sopravvivere. Poi, dicevamo, Berlino: tutti oggi ne parlano. Ovviamente è un posto con una storia particolare, dà possibilità che altre città non danno – per i costi di gestione se hai un’etichetta, per i club che ci sono, anche molto banalmente per le condizioni di vita quotidiana che offre, perfette per uno che fa il dj o il producer… e ovviamente per lo spirito: è una città dove il caos che apparteneva a due parti distinte dopo la caduta del Muro si è riunito in un caos unico che vive ancora oggi, o almeno cerca di sopravvivere, sotto attacco della normalità. Però se girate altre città della Germania sappiate che la situazione non è per nulla come a Berlino, proprio per nulla. Quindi, tornando all’Italia: ogni volta che torno qua a suonare resto sempre più sorpreso. Sempre più serate con sempre più gente con situazioni sempre più interessanti. E’ una scena potente, anche per quanto riguarda label e produttori. Vediamo tra l’altro di non dimenticarci che già negli anni ’90 l’Italia, per quanto riguarda techno e house, era un paese molto ma molto importante. Gli eventi che vi si facevano erano grossi, le label e le case di distribuzione molto potenti, fra le più potenti d’Europa. Ci sono stati anni in cui la Germania stava dietro all’Italia. Tendiamo a lamentarci, sì, come sempre, ma in realtà qua siamo messi bene… Ecco, vedi?, ho ripreso ad usare la prima persona, come se vivessi ancora in Italia!
Beh sai, facile elogiare l’Italia e la scena italiana se ora nella tua residenza alla voce codice d’avviamento postale vedo un numero berlinese… Tra l’altro, già che ci siamo: prima di trasferirti nel nostro paese quali erano i tuoi eroi musicali di casa nostra, artisti che per te erano un punto di riferimento importante?
Magari gli artisti di riferimento miei non erano italiani, ma sai cosa? Compravi un disco di elettronica, in Libano, e se guardavi sulle note di copertina leggevi sempre: “Pressed in Italy”. Quella italiana era una distribuzione che meglio di altre arrivava anche oltre l’Europa, ha fatto tantissimo per facilitare l’arrivo di un certo tipo di musica anche in paesi minori. Musicalmente, le cose vicine ai miei gusti arrivavano soprattutto dalla Gran Bretagna, Londra, Glasgow, Manchester, era lì che stavano i focolai della musica, diciamo così, un po’ più futuristica, che è quella che interessava a me. Comunque: nella seconda metà anni ’90 è arrivata pesantissima la crisi per l’industria discografica, ed è lì che l’Italia nel suo complesso ha iniziato a soffrire. Contemporaneamente, sempre nello stesso periodo, il clubbing è stato messo sotto attacco dalle istituzioni…
Eh già. Si sono resi conto, all’improvviso, che c’era veramente questa massa di giovinastri che faceva cose strane e creava, ehm, problemi di ordine pubblico.
Non solo in Italia, eh. Dappertutto: Amsterdam, Amburgo… le realtà underground sono state rase al suolo. Quelle: perché le realtà grosse, commerciali, quelle che portano soldi tramite tasse, sono state invece toccate poco o pochissimo. Ad ogni modo: arrivo a vivere in Italia, e scopro tutto quello che veramente era successo qui nella scena elettronica più underground. Tanto. Compri dischi di Chicago, Detroit, New York, però poi ti rendi conto che tanto è stato fatto anche in Italia senza che tu lo sapessi perché non ci vivevi, con un grandissimo lavoro di diffusione sotterranea di un certo tipo di cultura. Ad esempio, la “magica triade”…
Cioè?
Leo Mas, Fabrice, Gemolotto.
Non Ralf, Coccoluto ed Alex Neri, eh?
Vero, pure loro sono una triade, hai ragione.
Ed era la triade che finiva sui giornali, che è riuscita a farsi conoscere in un contesto più ampio.
Io li rispetto tanto Ralf, Coccoluto e Alex Neri. Ma guarda, io rispetto davvero tutti i dj italiani storici: hanno una cultura musicale notevole. Certo, la “mia” triade dalle parti in cui stavo – nel nord est – era un’istituzione; e ha fatto cose incredibili, rispetto ai tempi, più scavi e li contestualizzi rispetto al momento storico più te ne rendi conto. Credimi, l’Italia in tal senso ha un patrimonio incredibile. E’ arrivando in Italia che ho scoperto Baldelli e le serate Afro, per dire: una cosa pazzesca. Oppure, ti capita di andare in Olanda e scopri che l’80% dei producer di taglio più disco e house arriva proprio, come background di ascolti numero uno, dalla italodisco. Ma pure per i produttori storici di techno americani l’italodisco era un punto di riferimento assoluto.
Già. Fino ad arrivare alla venerazione che hanno all’estero per cose come “Ride On Time”…
Ehi, a me piaceva! Era uno dei pezzi che da giovane suonavo sempre! E non me ne vergogno!
Ti dirò, perfino a me piaceva. Dai, liberiamo un po’ di scheletri nell’armadio…
…che poi non sono nemmeno scheletri. Fare il dj significa anche divertirsi, non prendersi troppo sul serio. Se ti prendi troppo sul serio, non ti diverti tu e di conseguenza molto facilmente non si diverte nemmeno il pubblico.
Ok, torniamo ancora un po’ a parlare di cose che vanno storte: ad un certo punto ti sei messo anche ad organizzare serate in prima persona. Gravissimo errore, vero?
Un’errore, un’esperienza travagliata e complicatissima; ma anche bellissima e fondamentale. Mi ha cambiato tanto anche a livello musicale, nell’attitudine con cui produco. L’idea folle era stata: creare una situazione a Mestre dove poter fare non solo dj set ma anche concerti o addirittura workshop, con incontri tra musicisti, allievi del locale Conservatorio o dalle varie scuole musicali di zona, e strumentisti affermati. Elefante Rosso era il nome del posto. Un’esperienza che si è esaurita, anche giustamente, per molti motivi, con strascichi che sono durati un sacco di tempo, ma un’esperienza che credo sia stata significativa. Lo dico anche perché poi ho visto altri locali provare a fare quello che facevamo noi, chiamando artisti che noi per primi avevamo “sdoganato”. Soprattutto nel campo del jazz d’avanguardia.
Ehi, cosa c’entra il jazz d’avanguardia con il dancefloor?
Non lo so…
Non prenderci in giro: lo sai benissimo.
Ok. Diciamo che per me tutto è jazz. Anche la techno. Anche la house fatta in una certa maniera. Perché il jazz racchiude in sé tantissimi generi, e se vogliamo fare un’analisi di come è nato e cresciuto il jazz troviamo tantissimi parallelismi con la storia della techno. Senza contare che la techno, di suo, ha mutuato parecchio dal jazz, a livello di soluzioni o addirittura direttamente attingendo coi campionamenti. Il punto è che oggi, nell’immaginario collettivo, il jazz è quella cosa un po’ da piano bar, chic e laccata, da suonare in modo laccato e pulito – esattamente come la techno viene associata a discoteche piene di gente esuberate in canottiera e con gli occhiali scuri… sai, se dici “techno” a mia madre lei effettivamente a quello pensa…
Tu chiaramente le racconti un sacco di frottole e le dici che suoni folk, nella vita.
No no, sa quello che faccio! E le piace molto. Anzi, ha scoperto di avere una grande passione per il free jazz, perché lo collega a quello che facevano le orchestre egiziane di musica classica negli anni ’50: orchestre che avevano un repertorio molto libero, spesso eseguivano anche brani di jazz mediorientale. Lei le adorava. Ora che ci penso, forse è proprio da lì che sono nate tutte le mie inclinazioni musicali, è da lì che si sono forgiati i miei gusti.
Torniamo all’Elefante Rosso: quali sono state le serate più memorabili, quelle degne di essere tramandate ai posteri?
Beh, la prima che mi viene in mente è quella con Los Hermanos. Ma non proprio la loro serata, bensì il giorno prima: Gerald Mitchell era passato a vedere il locale, e lì ogni giovedì facevamo jam session jazz – musicisti che arrivavano da tutto il Veneto per mettersi sul palco ed improvvisare fra di loro. Insomma, entra Gerald, si guarda attorno, e subito si mette anche lui sul palco a suonare , al pianoforte. Perché non tutti sanno che Gerald è sì uno dei monumenti della techno di Detroit, ma è anche uno strumentista jazz come formazione. Insomma, si mette lì, suona, improvvisa alla grande, gli altri musicisti che mi guardano come a dire “E questo chi diavolo è?”, ma presi benissimo, tutti, lanciati in improvvisazioni free jazz senza freni. “E’ uno dei padri della techno”, rispondevo, e loro mi guardavano straniti. Insomma, cos’è successo poi? Mentre noi eravamo lì a suonare, fuori si era scatenata una bufera di neve, col risultato che siamo rimasti tutti bloccati dentro il locale fino all’alba. Continuando a suonare. Ad un certo punto ci siamo messi ad eseguire “Jaguar”, c’ero sul palco anche io, stavolta al pianoforte c’ero io perché Gerald si era messo alla batteria. Mentre ero lì continuavo a ripetermi “Incredibile, incredibile, sto suonando “Jaguar” con chi l’ha composta, non ci credo, non è possibile…”. Un’emozione fantastica. Oppure, un altro aneddoto riguardo l’Elefante Rosso è Donato Dozzy che entra, doveva suonare lui in serata, e vede sul palco un sestetto di jazz d’avanguardia newyorkese. Ha fatto una faccia come a dire: “Eh?! Ma non dovevo venire qua a mettere i dischi e far ballare della gente?”. In effetti la formula era proprio questa: c’era la serata col dj, sì, ma improvvisa si faceva musica live di un certo tipo, spesso e volentieri molto sperimentale. Non una cosa molto convenzionale, no? La sorpresa e lo sconcerto sul suo volto dicevano tutto.
Un’esperienza bellissima ma appunto anche disastrosa, ad un certo punto è saltato tutto per aria: anche perché è difficile trovare la giusta quadra economica tra esigenza di una programmazione artistica coraggiosa e le richieste di tornaconto dei proprietari delle mura del locale.
Sì, alla fine alcuni problemi sono diventati irrisolvibili. Ma è stata un’esperienza eccezionale, una specie di workshop intensivo di vita in cui in un anno e mezzo impari tutto.
Dopodiché, visto che sei uno specialista nel complicarti la vita da solo, hai avuto un’altra grande trovata: aprire un’etichetta. Proprio quando i dischi hanno smesso di vendere, o comunque vendevano un decimo se non un centesimo rispetto a prima.
Già. Ho aperto un’etichetta proprio mentre in Italia praticamente non ce n’erano più, perché quelle storiche stavano chiudendo tutte.
Eh. Perché l’hai fatto?
Avevo le mie produzioni. Solo che non vedevo in giro le etichette giuste per veicolarle. Ce n’erano, di label, non è che mancassero, ma non avevano il suono che volevo io. Erano per lo più tutte dedite ad un suono minimal che allora andava per la maggiore… Invece la mia Morphine non c’entrava nulla con tutto questo. Aveva e ha un altro suono.
Come lo definiresti, questo suono?
Non c’è un suono ben definito: è invece più questione di attitudine, di approccio. Soprattutto, deve essere musica che alle mie orecchie suona in qualche modo “timeless”, senza tempo: qualcosa che sia efficace ed interessante anche fra dieci anni, non qualcosa di troppo legato al “suono del momento”, col risultato che quando questo “suono del momento” passa di moda improvvisamente sembra tutto datato e poco interessante. Ci orientiamo come Morphine sì su techno e sul dancefloor, ma per me dancefloor non vuol dire solo cassa in quattro, batterie elettroniche, in modo chiuso, preconfezionato ed inscalfibile. La cassa in quattro può esserci, ma può anche non esserci.
Ogni tanto bisogna svuotare la pista, via.
E la svuoti molto volentieri! (risate, NdI)
Però dai, nel tuo essere anche dj non ci credo che tu non tenga conto di quale sia il “suono del momento”.
Ma certo che ne tengo conto.
Quindi come dj ragioni in modo un po’ diverso rispetto a quando sei producer o label manager…
No, no.
Ok. Quindi sei un dj che svuota la pista.
Certo, mi chiamano apposta! …scherzi a parte, diciamo che ho sviluppato nel mio deejaying delle logiche che non si discostano da quelle che applico alla gestione della mia label: è bello infilare una traccia di jazz sperimentale in un set, per dire. Ho affinato questa tecnica negli anni, credo di essere arrivato ad un punto in cui ho trovato il giusto equilibrio: riuscendo cioè a mescolare musiche e attitudini diverse fra loro senza tuttavia svuotare la pista. Dai, diciamo che è raro che si svuoti, ecco. Il punto è che io cerco di ricreare un’esperienza per cui chi viene alle mie serate non sia solo un clubber ma sia anche un ascoltatore. Questo perché amo considerare chi viene alle mie serate una persona intelligente. Una persona che “cerca” qualcosa. Al tempo stesso, è anche una persona che ha pagato per passare una serata divertente, dove poter ballare – non è che una cosa escluda l’altra. Se vai in un club, non devi essere per forza un decerebrato che se ne fotte di quella che è la musica, vuole solo le hit o vuole solo ballare senza pensare a nient’altro. E’ bello e stimolante poter portare la musica più sperimentale nel dancefloor, così come è bello e stimolante poter suonare delle tracce portandole in contesti radicalmente diverse rispetto a quelli originari d’appartenenza.
Per quanto riguarda la Morphine: come funziona? Se un giovane producer vuole finire nel catalogo della tua label, cosa deve fare? Pedinarti? Regalarti vini?
Eh, domanda difficile. Mi arrivano tantissimi demo. Anzi, ne approfitto per chiedere scusa alle persone a cui non riesco a rispondere, anche se io di mio vorrei rispondere a tutti. Torniamo al discorso di prima: io cerco prima di tutto un suono “timeless”. Poi, guardo anche un po’ alla storia del producer, al suo percorso, oppure se è un esordiente cerco di “vedere” nel suo futuro, il percorso che lui ha intenzione di percorrere. La cosa certa è che se oggi metti troppi elementi della musica che sta andando per la maggiore nel momento in cui produci, fra tre anni la tua roba sarà inattuale. In più, ti dirò, non voglio legare la mia etichetta a nomi che rischiano di diventare mainstream, anche solo rispetto al contesto della dance music.
Detto schiettamente: guarda che anche tu, fra inviti alla Boiler Room e classifiche dei migliori album di Resident Advisor, ormai sei sulla strada per stare stabilmente nel mainstream di un certo tipo di elettronica club-oriented.
Già. Ironica questa cosa, vero? Poi però mi sentono suonare dal vivo, scuotono la testa e dicono “Ah no, ci eravamo sbagliati…”.
“Chiamate Loco Dice, togliete subito dalla console questo qua!”…
“Qualcuno in stanza sa fare il dj? C’è un dottore qui?” (risate, NdI) In effetti mi capita ormai spesso di finire anche in posti più canonici, un po’ più mainstream rispetto ai covi dove si praticano sperimentazione ed avanguardia. Riesco a gestirmela bene, almeno credo. Loro sembrano molto soddisfatti, io mi diverto anche, e allora – perché no? Ma se mi chiedi se io diventerò uno che sta stabilmente nel mainstream della club culture, ti dico semplicemente: se anche la musica noise diventerà mainstream nei club, ok, allora io sarò mainstream. Però nel frattempo… Sai, è che secondo me è sempre dall’underground che nascono le idee. Poi qualcuna di queste finisce anche nel mainstream, e va benissimo; ma la vera creazione, credimi, avviene sempre nell’underground. E questa è la cosa che mi interessa di più.