E insomma, in questi giorni si festeggia il ventennale di “Microship Emozionale”: album dei Subsonica, per chi non lo sapesse, ma soprattutto album di cruciale importanza – una importanza che tuttavia oggi viene in qualche modo dimenticata, o almeno non celebrata abbastanza. Pare fare parte di un mondo lontano, passato. Già.
Questo perché effettivamente è così. Ma è anche un disco che oggi dovrebbe essere impugnato e portato avanti come vessillo, e ringraziato, da un mare di persone che hanno cambiato la geografia della musica italiana nel qui&ora, quindi in un mondo che è l’esatto contrario del lontano e passato. Sì, perché oggi ci sembra quasi normale che Calcutta faccia i palasport, Thegiornalisti il Circo Massimo, Coez metta insieme 34.000 paganti in una data singola (Rock In Roma, per la cronaca), e anche uno un po’ irregolare come Cosmo riesca a ritagliarsi la sua data-celebrazione al Forum di fronte a 10.000 paganti, quando solo fino a un album e mezzo fa era già contento di avere 300/400 persone a data. C’è stata una grandissima rivoluzione nelle gerarchie della musica italiana, così forte da aver creato anche degli incredibili ed imprevedibili repêchage (artisti come Levante ed Ex-Otago erano dati per morti ed irrecuperabili al successo qualche anno fa, ora invece sono sulla cresta dell’onda). E’ cambiata completamente la geografia del pop, in Italia. Ed è cambiata non con un ricambio cresciuto, pilotato, voluto dalle major, ma è arrivato dall’indie, dall’hip hop, in misura minore anche dall’elettronica: come nomi, come personaggi, come vezzi, come richiami stilistici. Insomma, quelle che erano le “scene alternative” (confinate sempre in un angolo, nei grandi negozi di dischi, almeno fino a quando esistevano i grandi negozi di dischi) hanno messo insieme una incredibile vittoria. Una vittoria netta. Così netta, che oggi la diamo per scontata, manco ci facciamo più caso. Però no. Le cose non stavano così.
Le cose stavano che i Subsonica vennero spellati vivi, da una parte del loro pubblico e in generale dal pubblico “alternativo”, per la scelta di andarsene a Sanremo e prima ancora, torniamo qui proprio a “Microchip Emozionale”, per quella di collaborare con Claudio Coccoluto e fare tracce come “Il mio DJ”. Se non c’eravate, anagraficamente, non potevate capire: perché oggi la reazione sarebbe, giustamente, “Vabbé, ma che problema c’è se una band collabora con un decano del deejaying house di casa nostra e pure persona brillante come Coccoluto”, all’epoca invece fu “Orrore! Che schifo! Pensavo fossero dei giusti, i Subsonica, invece collaborano con quel discotecaro house di Claudio Coccoluto”, lì dove “discotecaro house” significava uno che predica e opera nel disimpegno, nel commerciale, nel qualunquismo. Le falangi “alternative” di casa nostra, a fine anni ’90, stavano ancora digerendo a fatica il clubbing “intelligente” di matrice anglosassone (drum’n’bass, big beat, trip hop…), e finché Casacci e i suoi dichiaravano nelle interviste di ispirarsi (anche) alla Warp e alla Ninja Tune andava bene, appena provavano ad allargare il tiro col pop (partecipazione a Sanremo) o con una visione più aperta su ciò che è dance (Coccoluto) erano in tanti, tanti, tanti (anche molti loro supposti fan…) ad insultarli. Ad insultarli proprio male.
(Eccolo, “Microchip”; continua sotto)
Un altro mondo. Oggi le falangi “alternative” (di nuovo: indie, hip hop, elettronica), musicisti o ascoltatori che siano, fanno gara a potersi inserire nel carrozzone del pop: la sfera indie soprattutto, quella hip hop in realtà pure se non ancora di più, mentre un po’ resiste l’elettronica e vivaddio, così almeno resta qualcuno non ossessionato dall’entrare nelle classifiche di stream (…oddio, a dire il vero l’avvento dell’EDM ha portato esattamente questo). Non si avverte più lo “stigma” nel volersi confrontare col mainstream. Si parte dal presupposto che: la musica è musica. E anche che: è bello farsi ascoltare da più persone possibili, essere nelle loro teste, essere nelle loro voci e nei loro pensieri. Senza distinzioni. Senza classismi. Senza esclusioni preconcette.
Bene. Tutto ciò è quello che riuscì a fare “Microchip Emozionale”, inizialmente in maniera timida (ma avvertibile) quando uscì, poi in maniera impetuosa quando la sua aggiunta ex-post, ovvero “Tutti i miei sbagli”, partecipò a Sanremo (…lo ripetiamo: non senza feroci polemiche di molti fan della prima ora). Fosse solo per questo, si tratta di un album che ha cambiato la storia della musica italiana. Avrebbero dovuto farlo i Casino Royale, lo quasi-fecero con “Sempre più vicino” ma al momento del dunque, con “CRX”, fallirono per aver fatto un album troppo difficile, altero e rigoroso; ci riuscirono invece in pieno i Subsonica.
Oggi nella musica siamo finiti in questa trappola: stiamo più attenti a cosa “sa di vecchio” e a cosa “sa di nuovo” invece che a quello che è bello ed importante nel tempo
Da un certo momento in avanti, i concerti della band sabauda presero a riempirsi non del “solito” pubblico ben riconoscibile per una serie di codici (appunto: quello “alternativo”) ma iniziarono ad arrivare tutti, persone normali, persone che a vederli così avrebbero potuto ascoltare anche la Antonacci e Pasini, persone che magari pure ascoltavano Antonacci e la Pausini, che in realtà è esattamente quello che accade oggi coi grandi nomi citati ad inizio articolo (…anzi, a ben pensarci il mondo indie ad un certo punto prese proprio a cercare e celebrare se non Antonacci e la Pausini almeno Pezzali, e se è per questo ora Antonacci duetta coi Club Dogo).
Occhio però, qui c’è uno snodo fondamentale, assolutamente fondamentale: i Subsonica arrivarono a questo non annacquando il loro linguaggio e la loro estetica. Anzi. “Microchip Emozionale”, riascoltato con le orecchie di oggi, suona quasi ingenuo per tutta una serie di motivi. Motivi che vanno ricondotti alla voglia di fare un disco “di bandiera”: un disco che raccontasse e diffondesse una serie di suoni (i break da big beat, le quasi citazioni drum’n’bass, il clubbing anglosassone ricercato à la Groove Armada), e pure nei testi c’è tanta, tantissimo eco di quello che fu il periodo delle “posse”, quella fase in cui fiorì il rap politico in italiano e si fuse, con codici stilistici e in parte linguistici nuovi, ad una tradizione molto anni ’70 di sinistra nei concetti chiave e negli slogan. “Liberi tutti”, ad esempio, è esattamente questo.
Insomma: mentre oggi chi arriva dall’universo “alternative” come DNA e storia personale cerca disperatamente di scegliere codici e meccanismi pop per entrare con successo nel pop, i Subsonica vent’anni fa riuscirono ad entrare con successo nel pop restando fieramente orgogliosi della loro identità originaria. E’ che la loro musica era talmente efficace (nonostante fosse “nuova”, per i canoni conservatori del pop italico) da finire col funzionare, da abbattere tutte le barriere. Fu un miracolo. Un miracolo bellissimo. Un miracolo a cui la band ci Casacci e soci diede sostanza tirando fuori un lavoro successivo, “Amorematico”, di incredibile maturità nel migliorare l’eleganza del proprio suono e nell’abbandonare i richiami più naïf alla propria bandiera. Riascoltatelo oggi, “Amorematico”: suona da paura, pare registrato cinque minuti fa (e sarebbe comunque una produzone ultra-moderna ed iper-raffinata) e non nel 2002. Ma anche i dischi successivi, “Terrestre” e “L’eclissi”, furono e sono dischi di grande solidità, che reggono benissimo il passare del tempo.
(“Amorematico”, in tutta la sua consistenza; continua sotto)
Cosa che appunto non si può dire di “Microchip Emozionale”. Riascoltato oggi, mostra qualche ingenuità, mostra qualche parte inutilmente chiassosa o barocca (per l’esigenza di “rappresentare” appunto un suono, una scena, una realtà underground); ma ha ancora una vitalità incredibile, quella vitalità che lo ha portato all’epoca ad abbattere un sacco di muri facendolo quando i muri erano maledettamente difficili da abbattere, mica come adesso, che son tutti lì con le porte spalancate e pronti a vendersi al più ricco offerente e allo streaming più numerico.
Fa impressione un’altra cosa. Fa impressione come siamo cambiati noi, e come è cambiata la musica che ci gira attorno. Fa impressione come abbiamo perso quasi completamente l’abitudine ai testi impegnati, che si schierano politicamente, che evocano precise scelte e ragioni d’appartenenza. Se nel pop tutto questo ha sempre avuto vita rara e difficile, nel versante “alternative” hanno prevalso prima il disimpegno e il disincanto indie, quello fatto di “piccole cose” e di una fuga totale dall’impegno politico e sociale (lì dove il punk invece, capostipite “alternative”, picchiava duro), e poi quello che oggi offre l’hip hop, che da un certo momento in poi è diventato un narrare la realtà così com’è nei suoi lati più dozzinali e beceri prima dicendo “Eh, ma così la denuncio!” e poi ormai senza nemmeno più sentire l’esigenza di una puntualizzazione del genere, mentre successivamente il rap italiano si è fatto più adolescenziale ed emo ed ha alternato le rodomontate di cui prima a uno spleen filosofico da cameretta e un po’ da terza media, che è stato innalzato a livelli superiori e più interessanti purtroppo solo da pochi (uno fra tutti, Massimo Pericolo: visto recentemente dal vivo, questo qui è bravo davvero – e comunque di cose da dire ne ha).
Oggi è quasi più impegnato ed “alternative” Jovanotti (…Jovanotti!) a livello di scelta di tematiche ma anche di decisioni artistiche ed imprenditoriali. Siamo sicuri che vada bene così? Siamo sicuri che stiamo andando nella direzione giusta? Perché sì, forse stiamo perdendo il nostro microchip emozionale, noi che vogliamo andare al di là della dozzinalità della pappa pronta del mainstream. O forse ce l’abbiamo, ma ci hanno impiantato (o ci siamo impiantati) quello sbagliato. Chiaro, certi tempi sono passati e non torneranno più, gli stessi Subsonica hanno in parte ripiegato su una maggiore eleganza&sottigliezza e un minore sloganismo, nei loro testi e nelle tematiche scelte. Eppure, è un gruppo che resta coerente. E, altra cosa fondamentale da sottolineare, è un gruppo che continua a trovare importante il suonare bene, il fare dei concerti della madonna in cui non è importante solo cantare in coro i pezzi ma si sente, invece, l’esigenza di presentare un prodotto artistico dall’impatto emotivo complesso e complessivo, cosa che invece manca a un sacco di concerti dei nomi indie che vanno per la maggiore oggi: non che siano brutti, tutt’altro, ma sono molto didascalici sia come musiche che come apparato scenico.
Del resto, li si può anche capire. E’ lo spirito dei tempi. Lo stesso tour dei Subsonica di quest’anno, per quanto comunque andato bene, non è stato il successo incredibile e totale di quello di altri loro sodali del nuovo pop contemporaneo italiano (successo che per qualità e spettacolarità avrebbero invece strameritato): paradossalmente proprio la loro voglia di impegno, di messaggio, di stile e di grandeur “politicamente ragionata” profuma un po’ tanto anni ’90, ed è un profumo che oggi non tira troppo o comunque non più come prima, in attesa del rivolgimento delle mode. Sa di vecchio.
E’ che appunto siamo finiti in questa trappola, oggi, anche nella musica: stiamo più attenti a cosa “sa di vecchio” e a cosa “sa di nuovo” invece che a quello che è bello ed importante nel tempo. Il nostro nuovo microchip emozionale, che prima o poi torneremo ad avere, obbligatoriamente dovrà resettarci esattamente su questa questione, se vorremo per noi un mondo (e una musica) migliore.