Si può commentare in maniera intelligente una classifica stupida? Fortunatamente, si può. Consigliamo a tutti di leggere questo bel pezzo di Alberto Scotti sulla Top100 di DJ Mag, uscito nella versione on line italiana del magazine: equilibrato, tranquillo, non di parte né nel difendere le ragioni della casa madre né nello spararle addosso sconsideratamente (non lo direste a prima vista, ma questi due atteggiamenti sono le due facce di una stessa, identica medaglia). L’analisi sulla classica è lucida, quella su alcune anomalie – anche quelle italiane, vedi per motivi diversi Zatox e Gabry Ponte – è puntuale ed interessante, la spiegazione del predominio degli ultimi anni dell’EDM non fa una grinza.
Bene. Prendete quell’articolo come base di partenza, leggetelo con attenzione; perché comunque è necessario, come premessa, per capire al meglio quanto stiamo dicendo ora (e anche per far capire che noi non siamo pregiudizialmente contrari a DJ Mag, o al fatto che si possa parlare di EDM e magari parlarne pure bene). Noi però vorremmo aggiungere a quanto già scritto da Alberto una considerazione nostra, ed è una considerazione non secondaria: continuando a pubblicare questa classifica, e/o continuando a gestirla in questo modo, DJ Mag – come brand internazionale e come prodotto editoriale – sta scavando la fossa a se stesso. Forse non lo sa; o forse lo sa, ma crede o di potersi riposizionare o di non avere più nulla da perdere.
La scusa del “voto popolare” e della “fotografia della situazione” è, appunto, una scusa. O meglio: è un nascondersi rispetto alle proprie responsabilità e alle proprie potenzialità. Soprattutto, è svilire il proprio capitale sociale. Il sito australiano inthemix.com ha pubblicato proprio in questi giorni un interessante documento: la classifica dei Top100 di DJ Mag del 1993. Scorrete i nomi (e chiudete gli occhi su qualche esecrabile errore di trascrizione, come “Ashley Beadle” o “Cuccoluto”): oggettivamente è una classifica molto più credibile per quanto riguarda la relazione col dna della club culture, i suoi motivi di esistere, le sue caratteristiche, le sue dinamiche artistiche e creative. E’ documentando la club culture, facendolo quando ancora non c’era internet e le informazioni era difficilissimo andarsele a trovare, che DJ Mag ha costruito la sua credibilità (e di riflesso, anche quella della Top100).
E oggi? Non è che sia sbagliato certificare con enfasi e squilli di tromba il trionfo commerciale dell’EDM; è, semplicemente, per un DJ Mag, stupido. Autolesionista. O meglio: sul breve può anche funzionare, perché la scena EDM ormai non è altro che pop – del pop ha i meccanismi di funzionamento, del pop ha il modo di rapportarsi col suo pubblico e il modo che ha il pubblico di rapportarsi con essa (andate ad un evento EDM: sempre più frequente vedere gente con striscioni, cartelli inneggianti al proprio idolo, cose così). E del pop ha anche i numeri: supponiamo che sia questo il calcolo, la scena EDM tira, crea fatturato, fa vendere (biglietti venduti agli eventi, sperabilmente copie del giornale in edicola), e lo fa molto meglio di qualsiasi altro genere legato alla musica di matrice dance.
Però allora è il caso di togliersi la foglia di fico. Se si abbraccia in modo non critico ma puramente descrittivo e testimoniale l’ondata EDM, allora con la club culture e con le proprie ragion d’essere originarie non si ha più molto a che fare. E’ inutile pubblicare belle recensioni di dischi di nicchia e di qualità, se poi si accetta e si testimonia – con tanto di grandiose cerimonie in mega-raduni EDM – la grandezza di gente come Hardwell e di altri olandesi/scandinavi che hanno il merito di 1) radunare grandi folle 2) avere delle ottime strutture manageriali e promozionali che lavorano per loro. Le due cose non possono convivere insieme. O meglio: possono, anzi devono (anche noi qua a Soundwall parliamo di robe EDM, e continueremo a farlo: sappiatelo), però se le fai convivere non puoi fare finta che siano uguali. Devi insomma schierarti, o per lo mano far capire che hai capito che si sta parlando di due cose diverse, due realtà con dinamiche profondamente differenti.
Intendiamoci: noi siamo d’accordo con Jeff Mills quando dice che l’EDM non è un male, fa divertire la gente, la gente è contenta, e questo conta. Parole sante. E ha anche ragione quando dice che l’EDM è diventata un comodo capro espiatorio per sfogare frustrazioni assortite. Dichiarazioni simili le ha fatte anche Hawtin (…magari con Paris Hilton e Skrillex al suo fianco?): va benissimo. Ma il fatto di accettare che l’EDM esista e abbia successo, cosa che secondo noi è assolutamente doveroso fare, non significa confondere del tutto le acque. Non significa non vedere più la differenza fra cosa costruisce il proprio successo su parametri commerciali ed industriali (il ritornello azzeccato, lo show con le luci, dare al grosso della gente esattamente quello che vuole) e cosa invece lo fa puntando sulla qualità, originalità e coraggio del processo creativo, cercando non di dare al pubblico progressivamente più quello che vuole ma guidandolo invece verso territori possibilmente originali, personali, non scontati, inediti o inusuali – o comunque, non schiettamente “maggioritari” per vocazione.
Non è la stessa cosa. E’ sempre musica di matrice dance, sia Guetta di fronte a 60.000 persone coi braccialetti fosforescenti che Actress o Ron Morelli con la cassa in quattro di fronte a un centinaio di attenti affezionati; non necessariamente una faccenda è migliore dell’altra – ma sono faccende diverse. Ecco. Basta saperlo, dirlo, dichiararlo, spiegarlo. DJ Mag ha costruito la sua fortuna e la sua reputazione sulla club culture: una cultura, e sottolineiamo “cultura”, che scompaginava le liturgie del rock e di qualsiasi altra scena musicale presente sul mercato e nelle culture popolari, di nicchia e non. DJ Mag ha costruito la sua fortuna facendo da guida in un territorio all’inizio inesplorato, raccontando, facendo scoprire, approfondendo. Invece, lo sappiamo pure noi che oggi van Buuren, Hardwell, Guetta e gli altri ai primi posti della Top100 raccolgono le folle: grazie al cazzo, per dirla in francese. L’unico giochetto ormai interessante è capire chi è primo, chi sale, chi scende, ma quella non è più musica, è un giochetto di società o una chiacchiera da bar pari al “hai visto Jay-Z che faceva il ditalino a Beyoncé”.
Ci stanno le chiacchiere da bar, ci stanno eccome, solo gli stronzi o i troppo noiosi o i troppo frustrati le disprezzano, ma il problema diventa quando la chiacchiera da bar diventa la tua ragione di vita o, editorialmente, il tuo segno distintivo. Stai sputtanando la tua credibilità, se ancora a questa credibilità sei affezionato e la esponi come ragione sociale (altro discorso se vuoi diventare il Forbes della musica, dove testimoni chi guadagna di più, e chi guadagna di più è quello più meritevole). Nel breve può funzionare: la chiacchiera da bar si ascolta molto più volentieri di un discorso complesso e pensoso, all’inizio ti ascolteranno in molti di più. Ma dopo un po’, all’ennesima volta che sembri accalorato ed entusiasta solo quando parli di superficialità, cominceranno a non prenderti più sul serio, a non ascoltarti più. Perché nella vita i problemi sono reali, non c’è solo l’evasione; e allo stesso modo nel clubbing c’è anche la cultura, non ci sono solo i numeri.
E quindi, tornando al punto: la Top100 di DJ Mag è ormai una classifica che non c’entra nulla con la musica ma c’entra solo con dinamiche di numeri ed organizzazione imprenditoriale. Perché puntarci ancora così tanto? Perché creare tutta questa attesa, tutta questa pantomima? Perché presentarla come fosse una classifica seria ed autorevole anche musicalmente? Possibile risposta: perché se fai una classifica di qualità, non avrai mai 60.000 persone – come successo ad Amsterdam sabato scorso – che fremono per sapere chi sta ai primi posti, né avrai centinaia di migliaia se non milioni di commenti su internet. Ok. Ma di queste centinaia di migliaia / milioni, una parte di appassionati più approfonditi ti commenta per insultarti o prenderti per il culo, mentre il grosso della gente lo fa con lo stesso spirito (o la stessa isteria) con cui commenta i tagli di capelli di Rihanna o le mise di Madonna. E’ la gente del pop. Ricordati, DJ Mag: vent’anni fa, se fosse stato per la gente del pop tu saresti stato del tutto inutile, irrilevante, non t’avrebbero considerato proprio. Sono stati gli appassionati più approfonditi a dare valore al tuo brand. Oltre a ciò, occhio alla gente del pop: essa giustamente si fa i fatti propri e pensa ad essere felice e divertirsi, e in quanto tale è una massa di persone volubile. Tra qualche anno potrebbe averti abbandonato. E se tu tenti di tornare alle origini, tra i “tuoi”, non ti aspettare di essere accolto bene.
Oh. Oggi la Top 100 è importante. E’ rilevante. Sposta gli investimenti, non è solo una questione di chiacchiere da bar. Con l’EDM sulla cresta dell’onda, ci sono molti club sparsi in giro per il mondo che determinano la crescita o meno del cachet di un artista a seconda della sua posizione in questa chart. Oggi. Ma domani? Quando le cose cambieranno perché, si sa, le cose nel pop cambiano (quasi) sempre?