Nell’ormai desueto dialetto milanese v’è un modo di dire che racconta tanto della maniera italiana di fare musica elettronica – e non solo – ma anche di quello che hanno rappresentato i quattro giorni appena trascorsi: “Ofelè, fa’ el to mestè!”. Che tradotto significa: “Pasticciere, fai il tuo mestiere!”. Viene tipicamente detto a chi si improvvisa esperto e cerca di fare ciò che non è in grado di svolgere. Vale come consiglio per tenere lontani gli inesperti da materie e lavori che non sono in grado di affrontare. Ma anche in senso spregiativo, per sottolineare che è meglio che ciascuno si occupi delle cose di cui realmente è competente. Chiunque abbia tenuto almeno un occhio puntato sulla scena negli ultimi anni avrà notato le (non poche) organizzazioni spuntate fuori dal nulla, come funghi dopo un bell’acquazzone. Presentatesi come salvatori della Patria e forgiatori della nuova classe di festival nazionali. Salvo poi puntare ben oltre le proprie possibilità sull’onda dell’entusiasmo, fare un sonoro buco nell’acqua e tornare nel dimenticatoio (nel migliore dei casi) con una magra figura da mettere nel cassetto.
Ciò che ha accomunato la stragrande maggioranza di quei flop è stata la volontà di perseguire un business model lontano anni luce – per etica, disponibilità economiche ed infrastrutturali ed appoggio istituzionale – da quella che è la realtà del nostro Paese. Solo perché eventi come Club To Club e Kappa FuturFestival ci sono riusciti per diversi anni non vuol dire che il successo sia arrivato in maniera scontata. Infatti, ancora oggi, gli eventi di grandi dimensioni con numeri consistentemente in attivo e che vantano un seguito anche internazionale nel nostro Paese si contano sulle dita di una mano. E va bene così. Nella psicologia umana c’è sempre quel maledetto tarlo dell’erba del vicino sempre più verde che ci impedisce di essere lucidi nello sfruttare al meglio ciò che abbiamo a disposizione: siccome Paesi come gli Stati Uniti hanno imposto le montagne di ledwall ed i palchi giganti come unico mantra per far funzionare un evento di musica elettronica, chi siamo noi per contraddirli? Se un festival inglese può pagare centinaia di migliaia di euro per quell’artista, perché noi non dovremmo esserne in grado? Il problema è che noi non abbiamo i mezzi per competere in quel campionato senza finire con l’acqua alla gola ad ogni pie’ sospinto. È come andare all in ad ogni mano con due e sei, sperando di incastrare sempre una scala reale: magari un paio di volte ti può anche dire bene, ma alla lunga le statistiche ti giocheranno inesorabilmente contro.
(Il venerdì in Piazza Vittorio Emanuele II a Morrovalle, con un evento partito piano a causa del maltempo ma poi sfociato in festa grande)
Quello che, fortunatamente, alcuni promoter hanno iniziato a comprendere, è che invece di perpetuare questo gioco al massacro – andando a rincorrere un modello che sarà sempre e comunque migliore del nostro – possiamo guardarci allo specchio e valutare quale possa essere il mestiere in cui noi italiani possiamo davvero giocare il nostro campionato. E la risposta migliore che è arrivata fino ad ora è la storia di questo weekend: un evento tailor-made che possa da un lato offrire un’esperienza trasversale, in grado di esaltare l’enorme patrimonio culturale di cui disponiamo in maniera complementare con la produzione artistica. E dall’altro la scelta di economie di scala più sostenibili, sia per chi investe che per chi poi dovrà fruirne. Questo non solo garantisce un facile ritorno d’immagine offerto dalla semplice bellezza dei luoghi e delle materie prime autoctone. Ma permette di incuriosire il cliente con quel valore aggiunto in più sotto il profilo contestuale che magari lo tenterà a fermarsi un po’ di più sul territorio. Così che non solo il gli organizzatori del festival ma tutto il tessuto sociale tragga beneficio dell’indotto che ne deriverà. E, di conseguenza, le istituzioni saranno più portate ad appoggiare piuttosto che reprimere come accade all’ordine del giorno quando arrivano “quelli della discoteca”.
Ovviamente questo modello risulterà essere adeguato ad un target di clientela più maturo. Come quando si decide di bere un buon torbato anche per l’esperienza gustativa e non solo per gli effetti inebrianti successivi. Seguendo questa via sicuramente si finisce col correre il rischio di diventare elitari. Ma il risultato sarà anche quello di avere un pubblico più responsabile ed attento a comportarsi con la stessa cortesia di chi lo ospita. Del resto FAT FAT FAT Festival è un esempio perfetto di come si possa mettere la genuinità al servizio di una rassegna di musica elettronica. E questo aspetto ha un valore enorme sia per il consumatore finale che per tutti quei professionisti che rimangono abbacinati da tutto ciò che fa da corollario alla prestazione per cui sono stati assoldati: non a caso molti dei dj chiamati a suonare questo weekend, se non richiesti ad altre latitudini, hanno avuto il piacere di fermarsi come semplici appassionati nei giorni restanti. Vagando per il dancefloor, facendo due chiacchiere davanti ad una birra o cercando di avviare improbabili business agro-alimentari con i grigliatori del festival con cui non avevano una parola in comune.
(Motor City Drum Ensemble e Mr. Scurf, che bel modo di aprire le danze alla Grancia di Sarrocciano)
Per questo motivo molti di loro hanno voluto restituire qualcosa in più, sfoderando prestazioni importanti come Motor City Drum Ensemble e Mr. Scruff, impegnati per quattro ore ad aprire i giochi nella Grancia di Sarrocciano il sabato sera. O l’olandese Carista, autentica rivelazione dell’opening del venerdì nella piazza di Morrovalle. Pronta ad incanalare l’energia accumulata dalla pista durante l’attesa per rischio maltempo nelle prime ore di manifestazione. E che dire di Moodymann, il cui suono ultimamente di moody ha ben poco: dischi facili, festaioli e vai col liscio. In una domenica che ha visto prima di lui anche un ottimo dj set del sempre enorme Dâm-Funk, che non ha resistito al fascino del live e si è messo a cantare sopra i dischi con la sagacia di chi le labbra sul mic le sa appoggiare da ormai qualche decade. E poi Move D che suonava alle due di mattina e si è presentato alle tre di pomeriggio sul campo di gioco. Quello che credo faccia da fil rouge per il tipo di artisti che piacciono a FAT FAT FAT sia il fatto di non essere semplici professionisti che vengono a prendersi la pagnotta. Bensì gente – siano impegnati dietro ai deck o davanti ad un panino con le palle di toro – in grado di trasmettere il profondo amore per la musica che li lega indissolubilmente a chi li ascolta. Andando ad annullare quel gap che, come sempre più spesso accade nella club culture moderna, pone il dj su di un piedistallo, sia fisico che figurato, ben meno necessario di quanto la storia della musica elettronica insegnerebbe.
Ed ora mi tocca dire una cosa che forse sarà poco popolare. Ma credo che un artista debba sempre avere come fine ultimo quello di leggere la pista e farla divertire al meglio delle proprie capacità. Qualcosa che nella parte cruciale della serata di sabato i due back-to-back fra Volcov e Kyle Hall prima e Move D ed Optimo dopo non hanno saputo raggiungere pienamente. Nel primo caso tre ore di dischi eleganti senza però riuscire mai a dare lo strappo decisivo. Con il giovane detroittiano che ha tentato due-tre volte di mettere la freccia verso ritmi più facili ed incalzanti. Ma il veronese, con la severità di un decano della scena, ha sempre rimesso ordinatamente la macchina in carreggiata. Nel caso successivo, una sequela di dischi eterogenei fra loro e con poca presa ci hanno spediti a letto a gambe levate nel giro di un’ora con l’amaro in bocca vista la magnitudo dei nomi in gioco. Per diverse ore siamo stati, invano, in attesa di un colpo del KO che nessuno è riuscito a darci.
(Colpo d’occhio dell’angolo ristoro di FAT FAT FAT Festival, con alle spalle il più piccolo – ma non meno emozionante – Giardino della Sgugola)
E a dirla tutta, confesso di essermi congedato con una piccola crisi esistenziale: mi sono sentito il solito caciarone di Ibiza che se non c’è il drop non c’è la festa. Ed ho pensato che alla fine i trenta li ho già assaggiati a dovere e forse sarebbe stata anche l’ora di andare oltre quel tipo di facilonerie. Ed iniziare a concentrarmi maggiormente sulla qualità e sullo stile invece che valutare la presa sul pubblico come fine unico. Fortunatamente, a chiudere idealmente il festival la sera successiva, ci ha pensato il caro Antal. Che non solo il colpo del knockout ce l’ha dato eccome, ma il suo groove ci è prima passato sopra come un treno merci in corsa e nel dubbio ha fatto anche retromarcia per essere sicuro di averci finiti a dovere, dando a tutti la dimostrazione che si può fare la festa vera sul dancefloor pur rimanendo immacolati in fedina dal punto di vista selettivo. Col solito caleidoscopio musicale degno delle Nazioni Unite che non ha voluto mancare la fermata nostrana rappresentata da Pino Daniele e Nu Guinea, Mr. Rush Hour ci ha offerto un passaggio sul solito giro del mondo musicale che lo ha reso uno dei selector più rispettati della nuova generazione. Lanciando un messaggio chiaro: non conta avere i dischi più fighi o esotici di tutti se ti servono solo a fare palestra all’ego. La Messa è finita, andate in pace a mangiarvi un panino col ciauscolo.
(L’MVP del festival, Antal, ringrazia pubblico e staff per la bellissima notte. Il ringraziamento è, ovviamente, reciproco!)
Per concludere, chiunque legga queste pagine penso possa aver notato che il sottoscritto riponga una certa qual simpatia nei confronti del Dekmantel Festival. Motivo che mi ha portato ad esservi presente negli ultimi cinque anni consecutivi e quindi, di conseguenza, a dover sempre saltare FAT FAT FAT causa sovrapposizione di date. Quando ho cominciato a sentire amici parlare della rassegna marchigiana come del “Dekmantel italiano”, ammetto che la curiosità di vedere di che pasta fosse fatto è stata forte. E quello che mi sento di dire dopo esserci stato è che non c’è bisogno di imitare il Dekmantel quando puoi essere, semplicemente, il FAT FAT FAT.
Perché va bene, era giusto parlare di musica ed alla fine siamo qui per questo. Ed è giusto mettere l’accento su una line-up di qualità altissima. Ma è importante capire dove risieda il grande valore di questo evento e su quanto il fattore territoriale sia stato fondamentale nell’esperienza appena trascorsa: le Marche sono una regione che avevo, sinceramente, sempre snobbato. Del resto il già citato concetto dell’erba del vicino è validissimo anche quando si parla di viaggi. Ho visto più di cinquanta Paesi negli ultimi dieci anni eppure questi ultimi giorni mi hanno colpito a fondo oltre ogni più rosea aspettativa: borghi medievali accoccolati sulle colline, mari cristallini e cibo da leccarsi i baffi sono stati il minimo comun denominatore di un’esperienza che potrei tranquillamente definire inedita nella mia esperienza come clubber. Dopo aver vissuto qualche anno all’estero, ritrovare il piacere della semplicità fine a se stessa è stato come una ventata d’aria di casa di ritorno da una lunga vacanza. E forse non saremo più quelli che andavano a KaZantip a farsi prendere a mannaiate sul culo dai baristi per bere gratis o quelli dei pullman per il Monegros in dritto da due giorni. Ma se prima di questo evento sentivo quella sensazione di sconforto tipica di chi ha poca voglia di continuare a fare le stesse cose di quando aveva vent’anni fingendo di provare lo stesso gusto, ora mi sento paradossalmente rigenerato e conscio di poter virare su eventi magari meno intensi ma capaci di toccare corde subliminali differenti. In un campionato in cui gli altri possono e potranno solo mangiare la nostra polvere.