Beh, che dire: molti di voi che state leggendo queste righe si saranno ritrovati a sghignazzare, vedendo le immagini del, ehm, “campionato di tiro delle transenne” andato in onda a fine luglio al Guendalina, ovvero “la” discoteca del Salento (almeno per un certo tipo di clubbing). Chiaro, ci sarà stata anche l’indignazione e il senso di fastidio, ma a molti davvero sarà salita la sghignazzata. Perché il senso era “Ecco, vedi, posto di subumani… quello era diventato ormai…”. Premesso che effettivamente nel video tracce di idiozia e di subumunità ce n’era a piena a mani, forse è il caso di andare un po’ più a fondo nel ragionamento. Soprattutto ora che è arrivata una notizia pesante.
Sì. Perché una volta respinto il ricorso che chiedeva la riapertura del club dopo lo stop post rissa imposto dal Questore, al Guendalina hanno preso una decisione drastica: basta, chiudiamo tutto, finiamo le ultime date dopo lo stop e poi stop. Non riapriamo più, non dove siamo sempre stati. Ce ne andiamo – dove ancora non si sa, ma ce ne andiamo. Tutto questo significa prima di tutto una cosa: molte persone senza lavoro. Significa anche: molte professionalità che vengono perse e mortificate. Significa pure: meno cose “forti” legate a un certo tipo di scena musicale accadranno in Salento. Non significa solo “Oh, finalmente i subumani non hanno più un luogo dove radunarsi, alé” (…tra l’altro, un suggerimento al Questore: non è che se chiudi al Guendalina i rissosi lanciatori di transenne scompaiono, e non è che se chiudi quattro locali perché ci hanno beccato degli spacciatori di bamba allora la cocaina scompare, anzi!, mentre è sicuro che scompaiono attività e posti di lavoro).
Ora: che in Salento ci fosse un problema legato a un progressivo “imbruttirsi” delle scene e delle cerchie legate alla musica elettronica, è un dato di fatto. E’ anche uno dei motivi che ci ha portato a spendere belle e convinte parole per chi cercava una via alternative al ballo e alla cultura in chiave più o meno elettronica (Fuck Normality, Sagra Elettronica), anticorpi vivissimi e coraggiosi contro la deriva del trasformare tutto (anche) in una drogheria tamarra fatta di canotte, occhiali scuri dalla notte fonda alla luce del giorno, bicipiti, tatuaggi, luoghi comuni da “pedalatori” gonzi ed irrecuperabili, per avere invece un approccio più maturo, più umano, più rilassato, più consapevole al divertimento notturno. Ma quello che troppo spesso si tende a dimenticare in Italia – evidentemente un eterno retaggio delle lotte tra Guelfi e Ghibellini – è che un ecosisistema sano ha bisogno, profondamente bisogno di diversità coesistenti. E quindi parlare bene di Fuck Normality e Sagra Elettronica non significa schierarsi contro il Guendalina a prescindere.
C’è profondamente bisogno, in quella zona d’Italia, di una realtà come quella costruita in vent’anni di gran lavoro da Vincenzo De Robertis e dai suoi, tra Guendalina ed altri eventi satelliti (non ultimo, il Pyrex Festival che doveva svolgersi quest’anno, e invece nada). Perché un ecosistema sano prevede non solo gli eventi piccoli&belli, nobili, di ricerca e a misura d’uomo, ma prevede anche che si sappia giocare il campionato dei nomi importanti e di peso, dei grandi numeri; anche perché i grandi numeri non sono solo un’entità astratta (e vagamente disprezzabile), ma significano appunto pure il frutto di un lavoro duro, lungo, pieno di rischi e di possibili pesanti conseguenze per arrivare ad avere un appeal presso un gran numero di persone, essere insomma “popolare” nel senso più pieno del termine. Non cazzate. Non bruscolini. No, perché poi passa la vulgata che se fai Marco Carola, Loco Dice e Richie Hawtin (tre nomi a caso) ci riesci solo perché hai la grana e poi guadagni di sicuro palate di soldi perché arrivano migliaia di stronzi, tutto così, giusto schioccando le dita, e tra l’altro ‘sta migliaia di stronzi che problema vuoi che ci sia a gestirli, mica ci vuole la scienza.
Cazzate.
Invece la scienza ci vuole (entrate, uscite, servizi, bar, sicurezza: è un casino, a maggior ragione coi folli ed apprensivissimi regolamenti italiani; ma poi anche arrivare a poter fare certi nomi, nella proprie serate, è un processo che per mille motivi chiama tempo, investimenti, credibilità da costruire passo dopo passo).
Ma soprattutto, oltre alla scienza ci vuole che è il momento di smetterla oggi, nel 2019 quasi 2020, di insistere su questo tasto per cui si distingue chiaramente il “clubber buono” dal “clubber cattivo”, l’appassionato di musica elettronica “nobile” da quello “bufalo” e “commerciale”, e si dà per scontato sia giusto così. E’ il momento storico per farlo. E’ il momento storico in cui diventa assolutamente necessario farlo. Una rinascita sana e sensata ed un’uscita dal momento di crisi del clubbing nasce da questo.
…se per caso ve l’eravate persi (continua sotto)
Attenzione: non stiamo dicendo che questa divisione non abbia senso. Soprattutto se guardiamo al passato e in buona parte anche al presente, ne ha avuto parecchio. Stupido o ingenuo negarlo. Ad un certo punto però – perché era più facile, più conveniente, più efficace sul breve periodo – si è preso come un fatto ineluttabile ed anche “utile” che in Italia un certo tipo di nomi diventasse sinonimo di gente che viene a ballare più per fare casino (e/o sfoggiare i tatuaggi) che per la musica. Sul breve periodo ciò rende tutto più semplice: li cerchi questi personaggi, li incoraggi, perché bevono, consumano, portano gli amici, creano inizialmente massa, ti danno la garanzia che mettendo in cartellone un certo tipo di nome – a cui loro si sono “affezionati” un po’ per convinzione, un po’ per pigrizia mentale, un po’ per superficialità – hai uno zoccolo duro di partenza a livello di paganti che ti fa stare tranquillo. Pochi sforzi per confrontarsi con loro, pochi sforzi per spiegare loro che il clubbing era anche altro (era ed è anche: pace, tolleranza, presobenismo, inclusività), pochi sforzi per far loro capire che non dovevano diventare loro i “padroni” della pista e della vibrazione complessiva della venue.
Col risultato che il tamarro, molesto, aggressivo, cafone si è sentito autorizzato ad essere sempre più tamarro, molesto, aggressivo e cafone, perché era lui la presenza “forte” (numericamente e come vibra) all’interno della serata e quindi si sentiva autorizzato a spadroneggiare.
Qua si innesta un altro meccanismo. A parole, noialtri “normali” o magari “civili&illuminati” – definiamoci così – detestiamo i tamarri tatuati e il loro modus operandi, ma in realtà ne siamo spesso tanto schifati quanto affascinati. Ci piace vederli all’opera. Scatta l’”effetto-Zoo”. In qualche caso anche solo per dire “Ecco, io non sono come loro e non voglio essere come loro”. Ma tutto questo, a dove ci porta? Quanto serve davvero? Quanto costruisce? E soprattutto, tutto questo come si sposa col principio di orizzontalità ed inclusività che dovrebbe essere alla base di ciò che è l’esperienza del clubbing così come è nata?
Se siete contenti per la chiusura del Guendalina, sappiate che siete parte del problema
Il clubbing, quando perde la sua matrice inclusiva e si fa territorio di tribù che disprezzano più o meno esplicitamente l’altro-da-sé, diventa in linea di massima una merda. Diventa una porcata come diventarono una porcata i rave romani conquistati dalla teppaglia e dagli spaccini a metà anni ’90, dopo le meraviglie iniziali, o diventa una manifestazione neo-paninara e fashionista di esclusività e prestigio sociale, in cui sfoggi l’essere nel privé del DC10 (peraltro, un privé dove manco si sente la musica, pensa te quanto sei lì per la musica e per i bei nomi in cartellone…) come fosse una medaglia nel campo della club culture, ovvero una cultura di cui cogli il fascino ma, evidentemente, non capisci l’essenza. Sul breve, funziona. Sul lungo, ti stai bruciando la terra sotto i piedi, stai dissanguando il campo che coltivi e che ti dà i frutti per sopravvivere all’inverno – perché l’inverno prima o poi arriva ogni volta, e ogni volta va sopravvissuto.
C’è un evento che quest’anno è andato alla grande, in Italia, ed è il Kappa FuturFestival. Nel nostro report abbiamo molto insistito su una cosa: sarà stato per la grande presenza di stranieri (tipo, parliamo del 40%: un’enormità), l’atmosfera è stata veramente “da festival”, con tutta la gioia annessa e connessa, e non quella che in Italia un po’ per fare i saputi un po’ per fare gli spiritosi diamo per scontato quando ci sono i grandi nomi della techno e della house (piaccia o non piaccia, ancora oggi di gran lunga i due generi più popolari ed “immediati” dell’alfabeto della club culture). Evidentemente per gli stranieri se in line up c’è un certo tipo di nome “grosso” non significa che c’è un implicito ed inevitabile “via libera” all’imbruttimento cafone e tamarro. Cosa che in Italia invece da troppo tempo abbiamo dato e stiamo dando per scontato.
Col risultato che il cafone è diventato più cafone perché si è sentito “protagonista”; l’aficionado storico&consapevole ha avuto sempre meno voglia di mescolarsi col cafone in questione (e si è sentito sempre più “superiore” a lui); il clubbing infine è diventato qualcosa con sempre meno appeal dopo la fascinanzione iniziale che tutti i posti “pericolosi” chiamano (ma il “pericolo”, come quello del Cocoricò degli anni d’oro o dei rave romani storici, deve andare a braccetto con l’arte; sennò dopo un po’ mostra la corda e diventa fastidioso, inutile). Insomma i club e il clubbing sono diventati sempre più un’esperienza residuale, soprattutto nei grandi numeri e nelle cerchie più popolari, meno di nicchia. Perché tutto questo? Perché l’ecosistema è diventato debole, malato. Ed è diventato debole e malato perché ha iniziato a non tutelare la sua diversità intrinseca (…che appunto, deriva dalla voglia e necessità di vivere su dinamiche multiforme ed inclusive, non snob).
Questo è il tema da portare al centro della discussione, ora. Questa è la strada da cui ripartire.
Se siete contenti per la chiusura del Guendalina, sappiate che siete parte del problema, non la soluzione. Non significa, occhio, che qua difendiamo i tabbozzi campioni regionali di lancio del bicchiere e della transenne e del litigio-a-cazzo: persone che si comportano così vanno ricondotte alla ragione, e lo si può fare se si inizia a chiedergli “Ma scusa, che senso ha venire a ballare da imbruttiti e da pronti alla rissa? Non ti pare che stai sprecando i tuoi soldi? Non ti pare che tutto quello che stai spendendo in biglietti d’ingresso, tavoli e bamba lo stai facendo non per star bene, ma per stare alla fine pure peggio, visto che la vera soddisfazione, divertimento e serenità così non li assaggi mai?”. Uno può anche spendere in biglietti d’ingresso, tavoli e bamba (no: non siamo proibizionisti, per quanto la cocaina sia una merda che rovina le persone molto più di quanto si creda), ma lo facesse in modi e luoghi più sensati, più – come dire? – “soddisfacenti”. Lo diciamo in primis per lui.
Perché in realtà, se le persone le tratti da persone e non da animali allo zoo, qualcosa di interessante salta sempre fuori. Il clubbing come lo conosciamo oggi è nato proprio per dare piena dignità ai dropout sociali (neri, mezzosangue, omosessuali…), e per farlo in maniera sciolta, felice, euforizzante, non per contrapposizioni ostili e violente. Non è un processo semplice. Ma è un processo per cui combattere, e da portare avanti. Ora, adesso, subito. Per ridare linfa a un patrimonio, quello del clubbing, che resta fondamentale. A maggior ragione finché nel frattempo niente e nulla potrà arrivare dalle istituzioni, in Italia miopi come non mai e pronte sempre e solo a reprimere per farsi belle, ma mai a costruire, a creare le condizioni per far lavorare bene la gente, a trovare il modo incoraggiare l’impresa, a far sì che anche il tempo del loisir sia un tempo di qualità e un luogo – finalmente – di libertà e libero arbitrio, non di regole e divieti decisi da chi in una discoteca non c’ha mai messo piede, o un’impresa è abituato a portarla avanti solo coi contributi a pioggia emessi per logiche clientelari, o (sommatoria di tutte queste categorie) alla peggio trova nell’ipocrisia perbenista il rifugio più sicuro.