Ci sono molti modi di essere ignoranti, idioti. Di sicuro, uno dei peggiori di tutti – anzi, probabilmente proprio il peggiore – è il razzismo. Mettere gerarchie all’interno della razza umana senza capire che la diversità è ricchezza è una miopia propria di chi fa fatica ad attivare il cervello, e riesce ed elaborare solo ragionamenti semplici e rozzi. Elaborandoli pure male, tra l’altro. Su questo non bisogna avere dubbi o cedimenti, come non si dovrebbero avere nemmeno sull’altra grande questione dibattuta in questi ultimi tempi, il sessismo: altra cosa che nel clubbling non dovrebbe cittadinanza, e ne abbiamo scritto qui, ma se è per questo neppure in miliardi di altri campi, anzi, proprio in nessuno. Anche qui è questione di capire che diversità è ricchezza (…e non che “le donne debbano comportarsi come gli uomini”: alla fine ragionare così è solo perpetuare il modo di ragionare sessista).
In entrambi i casi bisogna comunque tenere ben presente un dato di fatto. Non si può semplicemente dire “No al razzismo!” e “No alla differenza di genere!” pensando di essersi così lavati le mani e aver risolto il problema. In entrambi i casi, si arriva infatti da secoli su secoli in cui discriminare era visto come “normale” e in molti casi abbiamo introiettato meccanismi inconsci che ci impediscono di vedere quanto si siano fattualmente stratificati negli anni pregiudizi, discriminazioni, ingiustizie. Bisogna prendere atto di questo. A tutti noi – se facenti parte di una categoria “privilegiata”, qualsiasi essa sia – può capitare quotidianamente di non renderci conto su come ciò che a noi appare “normale” è, nella realtà oggettiva dei fatti, ancora una coda lunga di un lunghissimo squilibrio perpetrato nel tempo.
Un problema lungo e complesso non ha soluzioni semplici. E non prosegue per linee rette. Per linee rette invece procedono proprio razzismo e sessismo, guarda un po’: se li si vuole battere, bisogna educare tutti a ragionare in modo meno brutale e binario (buono/cattivo, giusto/sbagliato). Ecco, c’è una cosa importante da dire: il clubbing – molto più della musica in generale – è un osservatorio privilegiato, se ne si rispetta il DNA. Nasce infatti come una cultura inclusiva, nasce e si sviluppa grazie alla visione, alla sensibilità ed alla ricchezza emotiva di minoranze (gay, nere…), nasce come luogo di abbraccio collettivo esplicitamente rivendicato. E’ stata criticato anche per questo, vista da una prospettiva marxista/rivoluzionaria: vuole appianare i conflitti invece di esacerbarli, vuole punti d’incontro invece di incoraggiare punti di scontro. (Anche) per questo la discoteca e la musica dance è stata vista, per tutti gli anni ’70 e ’80 e prima parte dei ’90, come musica “reazionaria”, la “musica del disimpegno”. Visione che può avere le sue motivazioni, ma che forse per amor di rivoluzione e integralismo dogmatico diventa tristemente cieca verso quanto la club culture nelle sue origini abbia fatto per “unire” e per valorizzare le minoranze vessate (e di quanto la club culture nel suo insieme abbia saputo fare fronte comune quando sono emerse manifestazioni di intolleranza, vedi i casi Ten Walls e Konstantin: ne scrivemmo qui e qui, e ancora non siamo pentiti di essere stati recisi, perché i valori fondanti sono valori fondanti, punto, puoi sostenere quello che vuoi ma allora vallo a sostenere altrove, se non sai fare ammenda).
Bisogna discernere e guardare alla sostanza delle idee, non fermarsi nel giudizio al colore della pelle di chi le sostiene
In più, nel clubbing più che in praticamente tutti gli altri generi musicali moderni, si è fatta attenzione da un pubblico su scala mondiale a dare credito agli originatori di un genere, e se erano neri nessuno ha mai detto “ba” (…e ci mancherebbe). Il rock’n’roll elvisiano è un conclamato scippo alla cultura nera, se ne parla in tutti i libri di musicologia; nella techno e house nessuno mette in dubbio Chicago o i Tre di Belleville, vivaddio. Non solo: il dibattito sull’eliminazione delle discriminazioni di genere è presente nella comunicazione attorno alla musica elettronica più che in qualsiasi altra galassia comunicativa legata ad altri generi (e, forse, alle arti e alla società in generale). Bisogna andarne fieri, e rivendicarlo.
Questo non significa una autoassoluzione plenaria ed obbligatoria: bisogna tenere sempre la guardia alta. Ma è comunque un convinto invito a vedere il bicchiere mezzo pieno, invece che mezzo vuoto. Perciò chi vuole rimestare nel torbido, magari animato pure da buone intenzioni ma affetto da una visione semplice, anzi, semplicistica, va affrontato e discusso. Soprattutto se lo fa adottando modi di ragionare ottusi, dogmatici, incapaci di ragionamento ad ampio raggio ma rispondenti solo a logiche binarie molto, molto, molto superficiali.
Andando al punto: la petizione apparsa su change.org che chiede a The Black Madonna di cambiare il proprio nome, è una puttanata. Una pericolosa puttanata. Anche tentando di capirne e valorizzarne gli aspetti e le intenzioni condivisibili, eh sì (…che ci sono a prescindere, sia chiaro: ogni volta che si tenta di capire se qualcosa è inconsciamente ed inconsapevolmente razzista o sessista non si perde tempo dedicandocisi, visti i già citati e sottolineati secoli di discriminazioni diffuse, sistematiche e sistemiche che abbiamo alle spalle). Il principio cardine attorno a cui ruota è infatti questo:
“By creating a black identity, these artists aim to create authenticity, without acknowledging the damage and hurt they cause to black people and black culture”
Ci sbilanciamo: a nostro modo di vedere, chi scrive così non ha ben chiaro cosa sia, come sia nato e perché sia nato il clubbing, e di come si siano alimentate le musiche che lo hanno “disegnato” negli ultimi trent’anni. E’ una visione che risente ancora della “sindrome di Vanilla Ice” (quando cioè sedicenti rapper si sono impadroniti dell’immaginario hip hop per “sbiancarlo” e venderlo meglio), sindrome che però non ha mai attecchito in techno e house: c’è chi accusa più o meno velatamente Hawtin di averlo fatto in passato, ma è come accusare Eminem di averlo fatto nel rap. Accuse che cadono nel vuoto, fra l’imbarazzo generale, perché i fatti parlano chiaro. Hawtin ha una storia artistica che può sì piacere o meno ma ha un’identità riconoscibile e, al tempo stesso, non ha mai disconosciuto chi fossero gli originatori veri della faccenda.
Chi ha scritto la petizione, ignora ad esempio di come la techno, per essere quello che è, abbia preso pesantemente spunto dall’Europa kraftwerkiana. Si potrebbe infatti girare l’affermazione citata sopra e dire che la techno “è andata a cercare l’autenticità” ispirandosi a varie cose crucche, appropriandosene indebitamente. Suona strano, vero? Suona ridicolo, no? In questo caso la contro-argomentazione è “La cultura bianca è storicamente dominante, è lecito appropriarsi di qualcosa patrimonio dell’oppressore, non invece il suo contrario”. Vedete un po’ voi quanto vi suona convincente. A noi, molto poco. Ma ognuno si faccia il giudizio che ritiene più opportuno. Però ecco, verrebbe da dire che se The Black Madonna deve cambiare nome, allora andrebbe rinominato tutto l’output artistico di, per dire, Dopplereffekt. Una cellula artistica che ha trovato nella mimesi “germanizzante” un solido pilastro per esprimere se stesso e valorizzarsi.
Poi in realtà verrebbe da dire che è anche un po’ cieca e superficiale la maniera in cui si affronta l’argomento “Madonna Nera”, una tematica complessa che può avere molteplici sfumature – oh, non ci vuole tanto, basta andare su Wikipedia. Ma al di là di questa, anche prendendo per buono il fatto che Marea Stamper voglia proprio sfruttare il fascino della “blackness” in modo diretto ed esplicito, manca la valutazione di merito sul perché lo faccia: lei può stare antipatica quanto si vuole, ma la sua intenzione di non discriminare le minoranze, di dare spazio agli oppressi, di valorizzare chi negli anni non ha avuto giusti riconoscimenti e spazi per motivi si sesso o razza è fuori da ogni discussione. Poi uno può dire e pensare che ogni tanto lo fa male, che ogni tanto è troppo dogmatica: se ne può discutere. E’ anche una discussione sana, vitale. Ma attribuirle la volontà esplicita di discriminare e sfruttare è malafede, è un ragionamento capzioso ed inaccettabile. E, tra le altre cose, evita lo spiacevole effetto collaterale del “Ben le sta: chi di integralismo ferisce, di integralismo perisce” a cui più di qualcuno ha trovato piacere nell’adagiarvisi: ovvero il modo migliore per silenziare e togliere rilevanza ad un dibattito invece fondamentale, quello sulle discriminazioni verso le minoranze (sociali o anche solo artistiche). Dibattito che non può essere abbattuto da una logica della ripicca “Gne gne Marea, hai rotto tanto i coglioni ora ti sta bene che rompano i coglioni a te!”. Non dobbiamo arrivare a questo.
…non dobbiamo arrivare a questo, perché nel clubbing – anche se come detto è l’ambiente più “safe” in quanto a discriminazioni – i problemi non mancano: i sistemi di potere sono sempre più legati ai meccanismi tradizionali del pop (ancora troppo “bianchi”), ora che in molti casi si sta emergendo definitivamente dall’underground e dall’”alternativa” e si entra nella grande industria dell’intrattenimento; ci sono ancora troppe poche donne in console, nelle agenzie, nelle etichette. Se perdiamo tempo dietro a petizioni come questa dietro al nome di The Black Madonna ci facciamo solo del male, sprecando idee, risorse, energie. E facendo vedere di essere stupidi, ottusi, binari. E se dobbiamo dirlo a persone che abbiamo sempre stimato, come King Britt (fa capolino la sua convinta adesione alla petizione in questione), lo diciamo senza problemi. Sapendo di correre il rischio che la nostra sia vista come una opinione di “bianchi privilegiati”: accettiamo la sfida, perché siamo convinti che la nostra posizione sia valida a prescindere. Anche perché è razzista anche pensare che l’opinione di un bianco sia sempre errata e non valida, e quello invece di un nero (o un asiatico, o…) sempre valida a prescindere. Bisogna discernere e guardare alla sostanza delle idee, non fermarsi nel giudizio al colore della pelle di chi le sostiene.
UPDATE
Giusto poche ore, anzi, forse pochi minuti dopo la pubblicazione di questo articolo – ovviamente non c’è nessun collegamento tra le due cose – Marea Stamper ha deciso di cambiare il proprio nome d’arte da The Black Madonna a The Blessed Madonna. Qui sotto potete vedere voi stessi il post di Instagram in cui annuncia la cosa.
Come sempre, a voi il giudizio. Per quanto riguarda chi vi scrive, questa cosa non sposta di una virgola il mio pensiero. Non troviamo sano questo arrendersi incondizionato a un certo tipo di pressioni d’opinione molto “piatte” e massimaliste, che si concentrano sui simboli e non ammettono mediazioni: per il fatto in sé, sì, ma anche e soprattutto perché finché la questione è relativa – come appunto sottolinea Marea stessa, ovvero “ci sono cose più importanti delle singole parole dentro un nome d’arte” – il tutto può anche essere sostenibile, assolutamente, ma nel momento in cui pensiamo che di abdicare ad ogni discussione e ad ogni controversia, beh, prima o poi in questo calderone troppo “safe”, univoco ed unidirezionale finiscono anche questioni molto più importanti e/o più problematiche.
Se Marea si sente più a suo agio a cambiare il proprio nome in The Blessed Madonna buon per lei, ne ha pieno diritto (peraltro: fossi cattolico o comunque cristiano, forse due o tre le avrei da ridire, secondo gli stessi principi di non-mediazione). Ma è pieno diritto poterle dire che sta sbagliando. Pensando di fare del bene alle cause che sostiene (e che si sovrappongono molto alle nostre), sta invece facendo loro un pessimo servizio.