Che le classifiche di DJ Mag siano ormai buone solo per fare il tiro al piccione, vincendo magari l’orsetto di pelouche al Luna Park (ci siamo cimentati anche noi, eh), è un dato di fatto: sono una burla (artisticamente), sono uno schifo (per quanto sono esplicitamente un’operazione in primis commerciale), sono inutili (per capire in che direzione va il deejaying artisticamente parlando). Ne parlano tutti, certo, e ci fanno pure le presentazioni in pompa magna di fronte a millemila persone in stadi olandesi: ma ormai è come Sanremo, un pacchiano circo mediatico che non c’entra un cazzo con la musica e c’entra invece molto coi fenomeni di costume (o i fenomeni da baraccone). E fin qua, nulla di nuovo. Purtroppo.
Quello che è nuovo è invece il sottile vento del malcontento che sta colpendo quella di Resident Advisor. Classifica che deve ancora uscire, ma se uno osserva attentamente i social, parla spesso con gli addetti ai lavori e ha un minimo di intuito, beh, non può che accorgersi che quest’anno la classifica in questione susciti un filo di fastidio. Classifica che deve ancora uscire, non è lei il punto: perché in realtà ciò che sta facendo salire la mosca al naso ai più avvertiti è la tambureggiante “campagne elettorale” che hanno lanciato molti dj (o i loro management) per raccattare voti. Davvero, il problema non è infatti la classifica in sé: la si può contestare, si può non essere d’accordi coi piazzamenti o le esclusioni, ma quello è un altro tipo di polemica. Un polemica ex post. Non si contesta cioè il fatto che ci sia (come invece si contesta con gioia quella, ormai clownesca, di DJ Mag), si contesta il suo esito – ma questo è normale e giusto, perché probabilmente non è mai esistita nella storia dell’umanità una classifica di prodotti artistici (dischi, film, libri, dj…) che abbia messo d’accordo tutti.
Ora però qualcosa sta cambiando. L’aria si è fatta più avvelenata verso le chart di RA proprio per principio nonché preventivamente e, come dicevamo, soprattutto si è fatta avvelenata verso chi si agita molto per tentare di finirci dentro e ancora di più verso chi si agita per finirvi dentro alla posizione di classifica più alta possibile. Come mai? Che sta succedendo?
Non è un problema di nomi. Non è un problema di chi in quella classifica ci finisce. Il problema, lo stiamo cominciando a capire, è cosa comporta finire in quella classifica. I management dei dj lo hanno capito benissimo, cosa comporta: l’ottima scusa per alzare i cachet, in qualche caso raddoppiarli o triplicarli, e quindi convincono gli artisti a metterci la faccia. Dieci minuti prima di scrivere queste righe è arrivata nella nostra posta una mail contenente un messaggio di Kerri Chandler (“A personal message from Kerri Chandler”): oddio, che ha da annunciare Kerri? Si ritira dalle scene? Gli è successo qualcosa? Lui o qualche suo stretto amico o famigliare ha bisogno di aiuto? …no. Chiede il voto per la classifica di RA. “It really does make a difference”, chiosa a fine messaggio, e non aiuta molto il fatto che inviti a votare per lui o “any of the other amazing talents we share our scene with” (“uno qualsiasi degli altri talenti con cui condividiamo la scena”).
Kerri, capisco che sei americano e che in America arte e business marciano assieme – con molta meno ipocrisia rispetto all’Europa. Ma fidati, ti stanno consigliando male. Una lettera come questa può diventare un autogol. In generale, che all’improvviso in molti, troppi si sbraccino scomposti per farsi votare nella poll di RA è, insieme, la consacrazione definitiva della poll di Resident Advisor e l’inizio della sua fine. Già. Almeno, il rischio è che possa essere così. Simile meccanismo su cui ragionavamo parlando, meno di due mesi fa, sulla Top 100 di DJ Mag (che però in teoria è ormai un altro sport, lo sport dei frizzi e lazzi e fuochi d’artificio).
Non è che le classifiche siano un male in sé, sia chiaro. Sono divertenti. Sono interessanti. Servono a fare il punto, con accettabile approssimazione, su chi ha fatto di più e meglio nel corso dell’anno solare. Servono poi a certificare l’avvento di nuovi trend. Servono a testimoniare certi passaggi di consegne. Servono a consacrare cose che meritano di essere consacrate, uscendo così da nicchie romantiche (ma spesso troppo anguste). Siamo tuttavia molto ma molto contenti che in giro, fra gli addetti ai lavori della club culture, o almeno fra alcuni di loro, quando la classifica diventa un modo per spostare interessi economici sempre più grossi allora, ecco, inizia a salire una sensazione di fastidio. Di forte fastidio. Questa cosa ci piace.
Conosciamo gli artisti, li conosciamo bene. Soprattutto quelli del nostro settore. A parte quelli sfrontatamente avidi di loro come personalità (ma sono quelli che anche a sei anni rubavano le Girelle al compagno di banco, non c’entrano il deejaying e la carriera), per il resto sono tutte persone per cui la musica va al primo posto. Vivono prima di tutto per la musica. Sì, bello il successo, chiaro: ma in fondo nel momento in cui riesci a pagare bollette e affitto a fine mese senza troppo affanno con la tua arte (un traguardo enorme e difficilissimo), tutto quello che viene in più se c’è bene, certo, ma non è fondamentale. Diventa invece fondamentale solo per i management, diventa fondamentale solo per i localari, diventa fondamentale solo per chi guadagna con l’indotto: agenzie, PR, sponsor.
Non abbiamo nulla contro questo indotto. Anzi, è fondamentale che ci sia: ci aiuta a far sì che la nostra passione, una cosa che riteniamo bella e preziosa, diventi un gioco serio, adulto, consistente, in grado di muovere interessi veri e creare economie e posti di lavoro. Le nicchie-troppo-nicchie, a parte rare eccezioni, sopravvivono solo se sono portate avanti nei ritagli di tempo rispetto agli impegni quotidiani per sopravvivere, o se si è mantenuti figi di papà. Il punto è che molti, anche inconsciamente, percepiscono che è sempre meglio non mescolare i due piani: ossia quello artistico vero e proprio da un lato, quello dell’indotto e dell’industria attorno al prodotto artistico dall’altro. E’ sbagliato mescolarli non tanto e non solo per un imperativo etico, ma anche e soprattutto per conservare la purezza, la gioia e l’efficacia dell’esperienza-clubbing. La club culture, come il jazz, lo si voglia o meno, nasce antitetica o almeno profondamente differente rispetto al pop (non vogliamo dire che il pop è il “male”, giammai, ma che sia un’altra faccenda – ecco quello sì). DJ Mag si è completamente svenduto al pop con la sua classifica, diventando infatti l’orsetto da impallinare al Luna Park tra gli sghignazzi generali. Resident Advisor invece si è sempre qualificato come una voce “della scena”.
E allora, dà fastidio che artisti già affermati, già conosciuti, già in grado di vivere della propria musica (in qualche caso anche molto bene) si diano tanto da fare per competere per finire nella classifica di RA, e finirci più in alto possibile. Club Culture, in origine, è più condivisione che competizione. Club Culture, in origine, è più voglia di star bene che pensare di arricchirsi per star meglio. I casi sono due: o lo fai tutto ‘sto can can perché sei uno stronzo agonista che vuole primeggiare sempre e comunque, o lo fai perché il tuo management ci ha chiesto di metterci la faccia (perché se poi finisci in alto nella chart c’è più trippa per tutti, yeah!). In entrambi i casi, non ci fai bella figura.
Fossimo poi in Resident Advisor, parere non richiesto, noi per primi chiederemmo ai dj e alle strutture che li circondano di non lanciare “appelli al voto”: nel farlo, smascherano il meccanismo per cui la poll di RA è diventata assai un volano di interessi economici. Col risultato che la svuotano così parzialmente di sincerità, purezza ed autorevolezza. E sincerità ed autorevolezza, per un media specializzato, sono asset preziosi come l’oro.
Di più, per aggiungere carne al fuoco: fare bene nella poll di RA, di questo passo, potrebbe diventare il “bacio della morte” anche per gli artisti. Vedi il caso di Jamie Jones: quando ha trionfato nella poll il suo cachet è raddoppiato, ma si sono poi decuplicate anche le voci fra gli introdotti di come la sua vittoria fosse un po’ posticcia (i suoi voti “anabolizzati” da manovre varie di PR inglesi), di come i suoi set non valessero poi così tanto per i soldi che chiedeva, eccetera eccetera. Quando c’è della speculazione economica sulla tua arte, o giochi alle regole del pop – ma lo ripetiamo, chi arriva dalla club culture in quelle regole difficilmente ci si trova bene, chiedetelo ai diretti interessati – oppure dopo un po’ la cosa ti si ritorce contro, togliendoti serenità.
Concludendo: viva le classifiche, sia chiaro. Nulla contro di esse. Nulla. Vogliamo anzi leggerne tante: perché quelle fatte bene – e non fatte a baraccone – ci aiutano a capire l’aria che tira e chi è particolarmente in forma e in ascesa dal punto di vista creativo, sono utilissime e belle queste classifiche. Viva poi anche il poter vivere e guadagnare (magari pure bene) lavorando nel settore del clubbing, sia come artista che come proprietario di club o come fornitore di servizi accessori: niente di male, anzi.
Ma bisogna sempre attenti a mantenere il giusto equilibrio, ecco. Bisogna sempre stare attenti a non essere avidi. Bisogna sapersi accontentare e gioire di quello che si fa e si ha, soprattutto se è abbastanza per viverne; non essere ossessionati dall’idea di crescere, aumentare, raddoppiare. E non perché lo diciamo noi, o perché lo dice chissà quale discorso etico o moralistico: ma perché così, occhio e croce, si vive meglio. Con più serenità. L’ansia, la brutta ansia di misurare il valore di se stessi a seconda del fatturato prodotto lasciamola pure al pop o alla parte più isterica, e drogata, dell’hip hop.