E’ iniziato il conto alla rovescia per Astro Festival: sabato 30 giugno, al Circolo Magnolia, ci sarà la terza edizione di un festival che nei primi due anni ci ha portato headliner come Caribou, Four Tet, Moderat, Gold Panda, Dixon, Floating Points e che quest’anno cala ben dieci act in un’unica notte, dal tramonto all’alba, iniziando con la traiettorie aeree e di classe di Gigi Masin e finendo con l’attacco sonico techno-electro di Boys Noize, con in mezzo Jon Hopkins – per la primissima volta in Italia col nuovo live set – e anche Âme, George FitzGerald, Ross From Friends, i D’Arcangelo, Indian Wells, Herva, Walking Shadow. Nelle settimane passate, però, ci era capitato di fare un’intervista (per l’edizione cartacea di Billboard Italia) con Pietro Fuccio, che di Astro è uno dei creatori (assieme ad Andrea Angelini). E’ questo, è anche molto altro; è prima di tutto il fondatore di Dna Concerti, agenzia con ormai vent’anni di attività alle spalle (nasce infatti nell’autunno 1998) con nel suo curriculum moltissimi momenti fondamentali anche in ottica “soundwalliana” (uno su tutti: il double bill Kraftwerk + Aphex Twin a Livorno, per Italia Wave, molti anni fa) oltre ad aver prodotto date di Blur, Sex Pistols, Sonic Youth, Wilco, Editors, The National… e l’elenco potrebbe andare avanti molto ma molto a lungo. Da un decennio, Dna Concerti ha un “dipartimento elettronico”, a nome 3D Dna Dance Department; più recentemente, poi, ha aggiustato le sue strategie operative. Ad ogni modo: la chiacchierata per Billboard è stata talmente ampia che molto ma molto non è finito su carta. Ecco qui allora una versione quasi integrale dell’incontro; i ragionamenti sull’organizzare concerti in Italia e, ancora di più, organizzare festival vi possono far arrivare sabato ad Astro (o a luglio a Siren, altro festival “targato” Dna) con molta più consapevolezza su quello che vi sta accadendo attorno. Oltre alla musica, naturalmente. Che resta sempre il fattore più importante. La “singularity” fondamentale, per dirla con l’headliner di Astro edizione 2018, Jon Hopkins.
Proviamo subito a dare uno sguardo d’assieme: rispetto a quando è nata Dna Concerti, come è cambiato il tuo lavoro?
E’ cambiato completamente. All’inizio, ero praticamente da solo in quello che facevo; organizzavo concerti più piccoli di ora, con dinamiche assolutamente diverse. In generale, nell’agenzia, eravamo in tre e tutti dovevano fare tutto. Ora ovviamente è tutto su una scala molto diversa. Oggi, non mi tocca fare nulla di quello che facevo vent’anni fa, quando Dna è nata, o anche solo dieci o otto anni fa.
Ma è stata una crescita programmata, intenzionale e fatta seguendo un piano ben preciso fin dall’inizio, o in qualche modo te la sei “ritrovata addosso”?
Macché. Ogni giorno, ogni settimana, ogni mese arrivavano nuove opportunità ma anche nuove difficoltà e complicazioni – a cui non ero preparato.
Per quanto riguarda nello specifico il rapporto con gli artisti e le agenzie/management che li rappresentano, è cambiato qualcosa in questi vent’anni?
Con entrambi, sia artisti che agenzie/management, c’è stata la stessa evoluzione: vogliono più soldi. Per quello che riguarda noi nello specifico, devo dire che negli ultimi anni abbiamo spostato molto l’attenzione e le collaborazioni sugli artisti italiani, che a lungo tempo sono stati quasi assenti nel roster dell’agenzia. E con loro riesci ad avere, per fortuna, un rapporto diretto. Esattamente come quello che potevi avere agli inizi, quando organizzavi concerti sì di stranieri ma erano ancora di nicchia, “piccoli”. Ma passata questa prima fase, il rapporto con gli artisti è diventato quasi assente, se stranieri e un minimo “grossi”. Ti racconto un aneddoto: una volta, anni fa, andai all’Heineken Jammin’ Festival con l’intenzione di conoscere la crew di Morrissey, di cui avrei organizzato un concerto in Italia di lì a poco. Beccai uno della crew, gli chiesi in inglese “Scusa, dov’è Steven?”, lui mi guarda dall’alto in basso e un po’ sprezzante mi fa “There’s no Steven in our party”, questo pensando volessi incontrare Morrissey in persona (che di nome infatti fa Steven, NdR). Io capisco subito che intendeva dire e come in realtà volesse depistarmi. “Guarda che non voglio parlare con Morrissey, voglio parlare con Steven Ross, il suo tour manager. Sono il promoter delle vostre prossime date italiane”. “Ah”. Capisci? Il rapporto con gli artisti stranieri nella maggior parte dei casi è questo: non c’è, né ti permettono di averlo. Fortunatamente oggi, lavorando con gente come Cosmo o Calcutta, tanto per farti due nomi, il rapporto è un po’ più personale.
L’esempio è chiarissimo. Ma in realtà, tornando alla domanda che ti facevo, mi incuriosisce sapere quanto sono cambiati gli standard degli accordi. La prassi dell’80/20, per dire, che chi non lavora nel booking di un certo livello spesso ignora: ovvero, al netto delle spese gli eventuali guadagni di un concerto vanno all’80% all’artista e il 20% al promoter. Ovviamente, se ci vai sotto, l’artista ha sempre il suo bel garantito, non ci sono santi. Non propriamente un accordo equilibrato tra le parti. Però è lo standard.
Ma non è manco più lo standard. 80/20, sì, ma si vede anche di peggio ormai: stiamo viaggiando credo verso il 101/-1. E’ da dieci, dodici anni che l’andazzo è questo: gli accordi sono talmente sbilanciati a favore di una sola delle due parti, quella legata all’artista, che peggio di così non può essere.
Ma non esiste un modo per rovesciare o almeno ribilanciare questo rapporto di forza?
Sì: andare a lavorare per Live Nation (il gigante mondiale dell’organizzazione di concerti, presente da anni anche in Italia, NdR).
Al di là dei conti economici, nei contratti standard con gli artisti stranieri poi ci sono anche delle clausole abbastanza bislacche, tipo quelle per cui un artista può annullare un concerto quando gli pare, senza pagare alcuna penale, anche a contratto firmato e soldi ricevuti.
La creazione di certe clausole nasce da due fattori: il potere contrattuale, dato agli artisti e a chi rappresenta i loro interessi dalla pluralità di persone che ti vengono a cercare e ti offrono di organizzare un tuo concerto, e l’arroganza degli agenti inglesi: due fattori evidentemente immutabili di questo sistema. E non vedo all’orizzonte nessun cambiamento. Qualsiasi artista straniero troverà sempre un promoter italiano disposto a raccogliere la merda che non voglio pestare io… Troppo inelegante come espressione?
Rende bene l’idea. Diciamo così: un promoter disposto a correre i rischi di andare in perdita secca che non vuoi prendere tu.
Come puoi sperare di rapportarti da pari a pari con una persona che sa che, se non ci sei tu, c’è la fila di altra gente pronta ad organizzare un concerto dell’artista che rappresenta?
Ma come mai c’è così tanta abbondanza di promoter, sul mercato italiano?
Questa è un’ottima domanda. L’Italia è davvero molto strana: c’è uno sbilanciamento di operatori rispetto a quanti realmente fruiscono il prodotto-concerto che, secondo me, è davvero inspiegabile.
Una spiegazione però avrai provato a dartela.
La ragione che mi sono dato, della quale peraltro non sono completamente convinto, è che da anni il livello dell’attenzione e della qualità del lavoro è talmente basso qui dalle nostre parti da creare una professionalità che, in generale, è altrettanto bassa: ecco che quindi è più facile infilarsi nel mercato, la soglia d’accesso è alla portata di tutti, troppi. Ovviamente non vale per la totalità degli operatori del settore, c’è gente molto preparata e che lavora molto bene, ma io se voglio aprire una catena di hamburger me la devo vedere con McDonald’s e un’altra serie di catene che lavora molto bene, non posso fare troppe cazzate. Mentre invece organizzare concerti pare lo possano fare tutti. E un agente inglese poi ci mette del suo, perché parte dal presupposto che se rinuncia a lavorare con me perché non soddisfo le sue richieste per andare invece a lavorare con uno qualunque, non è che in fondo ci perde chissà cosa…
…questo perché, correggimi se sbaglio, c’è l’eterno pregiudizio che l’Italia è sempre un po’ un paese un po’ del cazzo, per i live. Una roba nata decenni fa, che mi pare dura a morire.
Esattamente. Secca doverlo dire, ma per l’agente inglese medio l’esperienza del passaggio in Italia fa mettere in conto delle problematiche che poi il più delle volte manco si verificano, ma nella sua testa l’Italia è ancora quel paese di “Ti ricordi quando i Pixies sono stati aggrediti dalla security della data che volevano cancellare…”: peccato siano storie di quarant’anni fa. Che però loro ti raccontano di continuo, e si raccontano fra di loro, come se fosse una faccenda avvenuta ieri e che avverrà domani. Se parti dal presupposto che l’Italia sia un paese così ingestibile, che problema c’è a mettere un po’ di fuoco sotto il culo del tuo promoter italiano storico, facendogli intendere che potrebbe sempre rivolgersi ad un concorrente, pazienza se non qualificato e collaudato negli anni, l’importante è che dia l’idea di voler pagare e accettare qualsiasi condizione? Insomma, credo che la dinamica che si instauri sia questa. Ma non ne sono del tutto sicuro, non è detto che sia esattamente questa la spiegazione del perché l’Italia sia un paese così strano, nel mondo dell’organizzazione concerti per artisti stranieri in tour.
Ma è vero che, in generale, si tratta di uno dei settori dell’industria dell’intrattenimento più in salute?
Credo sia vero. Il problema è che un’analisi accurata dovrebbe scorporare i dati in mille sottocategorie, per capire davvero lo stato di salute del settore. Basta che ci sia Vasco che decide di fare tre concerti all’anno, e subito la differenza si sente.
Come Zalone nella cinematografia italiana: annate record solo se c’è un suo nuovo film in sala…
Esatto, bravissimo: “Quest’anno il cinema italiano è andato alla grande, ha incassato molto in sala”: ci credo, è uscito Zalone, che da solo fa gli incassi di tutti gli altri messi assieme… La butto lì per ridere, ma nemmeno tanto: bisognerebbe fare come si faceva con la Formula Uno tanto tempo fa, quando nella classifica generale dovevi scartare il risultato peggiore ma anche quello migliore che hai conseguito. Lì magari si avrebbe un’immagine un po’ più chiara. Una cosa è certa: di sicuro, rispetto a qualche anno fa, oggi c’è molta più gente che va a vedere i concerti. Ma questo non significa automaticamente che il settore sia in salute.
A occhio, nel settore della musica live la crescita più decisa riguarda quella dei concerti di artisti italiani, nell’ultimissimo periodo. Lo stesso artista che anni fa poteva fare fatica a raggranellare trecento paganti, oggi può ambiare tranquillamente a fare sold out all’Alcatraz a Milano, quindi paganti tremila. Come si diceva all’inizio, per un sacco di tempo Dna Concerti si è occupata quasi solo di tour di artisti stranieri; poi c’è stata un’inversione di tendenza, iniziata direi coi Verdena che entrano nel roster, avvenuta volendo anche un attimo prima che questa rinnovata passione per i concerti degli artisti di casa nostra si manifestasse in modo così pesante ed evidente.
E’ vero quello che dici, ma fammi sottolineare che in passato non è che da parte nostra ci fosse snobismo nei confronti degli artisti italiani. Sono due dinamiche molto diverse, quelle del fare da un lato un tour di novanta date, dall’altro invece una data secca di un artista straniero che arriva, suona e se ne va, proseguendo il tour europeo, e va pure bene se lo rivedi fra non prima di un paio d’anni. Noi a lungo ci siamo sentiti molto più ferrati sul secondo tipo di dinamica, ci abbiamo messo un bel po’ prima di sentirci pronti a cimentarci sulla maratona, sul percorso “lungo”, dopo aver fatto per anni gli scattisti. L’inversione di tendenza l’abbiamo intercettatata un po’ in anticipo credo prima di tutto per mera fortuna. E’ vero quello che dici: artisti che prima facevano 150 paganti ora possono farne 1000 quasi in scioltezza, con un potenziale di crescita che pare non essere ancora arrivato alla saturazione e che mi sentirei di definire importante: e dico questo da persona che per quindici anni ha lavorato quasi solo con artisti stranieri, un punto di vista volendo anche “esterno”. Sì, l’artista italiano è un prodotto davvero interessante da proporre al tuo pubblico, oggi.
Ecco: esiste un “tuo” pubblico? Ovvero: Dna Concerti ha un pubblico di riferimento?
Io penso che il 99% delle persone che va a vedere un concerto non si preoccupi minimamente di andare a cercare, in alto a destra sul manifesto del concerto o scritto in piccolo sul biglietto, il nome del promoter italiano che lo organizza. Manco io lo facevo, prima di iniziare a fare questo lavoro, prima di iniziare a conoscere i miei competitor perché mi chiamavano al telefono per minacciarmi o per fare finta di essere contenti quando le cose mi andavano bene. Oh, io i biglietti dei concerti a cui andavo, da giovane, proprio li collezionavo: e no, non mi ero mai accorto che sopra c’era scritto anche il nome del promoter. Però è vero: per un bel po’ Dna Concerti ha avuto un pubblico molto omogeneo, in qualche modo riconoscibile. Ma questo credo nasca unicamente dal fatto che per molti anni facevamo concerti di band di un certo tipo, un filone indie abbastanza ben individuabile. E dai e dai, magari qualcuno fra gli appassionati di live per un certo tipo di musica ha iniziato a conoscerci… ma un’agenzia come la nostra non sarà mai un “marchio”, non sarà mai come la Warp che vedi che fanno uscire un disco e lo vai ad ascoltare e comprare a prescindere, perché sai che di loro ti puoi fidare.
Però potrebbe diventare una prospettiva interessante da perseguire. A maggior ragione considerando che sì, Dna Concerti a lungo è stata appunto abbastanza riconoscibile. Come del resto altre agenzie in Italia.
Anche lì ogni tanto mi chiedo: vero, sulla carta potrebbe essere utile ed interessante, ma come mai non è mai successo? La spiegazione che ti posso dare è che noi, da quando abbiamo deciso invece di allargare lo spettro artistico delle nostre proposte, lavoriamo meglio. Sì: da quando non facciamo più solo gli Wilco e i gruppi che assomigliano agli Wilco e i Sonic Youth e i gruppi che assomigliano ai Sonic Youth (risate, NdR), lavoriamo meglio. Questo perché hai più possibilità di sopravvivere al fatto che determinati filoni di musica possano conoscere una flessione, si esauriscano – o vengano considerati esauriti dai fruitori di musica dal vivo. Non solo: lavorando con musiche diverse, impari anche cose diversi. Accresci le tue conoscenze. Senza perdere nulla di quanto hai imparato in precedenza che anzi, in qualche caso ti viene anche molto utile. Questa è una prima risposta che potrei dare, forse un po’ affrettata: insomma, se vuoi fare bene il promoter devi saper differenziare la tua proposta. Questo significa non riuscire a rendere riconoscibile il proprio marchio? Beh, io posso solo dire che lavoro meglio adesso e sono più sereno adesso rispetto a prima, quando Dna Concerti era invece un po’ più “riconoscibile”. Il problema, forse, è che il promoter arriva proprio “a valle”: sarebbe bello essere autorevoli, rispettati ed influenti come la Matador o la Warp, eccome se sarebbe bello, ma tu sempre e comunque arriverai dopo di loro. Tu promoter arriverai sempre dopo un’etichetta discografica. Senza il supporto della discografia per far nascere e conoscere il fenomeno, è difficile che tu promoter riesce a lanciare dei fenomeni contando sull’unica cosa che puoi far fare a un artista: i concerti dal vivo. Tutti dicono a parole che non è vero, che anzi è vero il contrario, che i veri fenomeni nascono dalle date live, ma io non ne sono per nulla convinto. Però se ti guardi intorno, ed analizzi i fatti, vedrai che non esistono artisti che sono stati creati solo ed unicamente da un promoter, senza che ci fosse di mezzo una discografia.
Però c’è stato un periodo storico, diciamo verso il 2010 e per qualche anno successivo, in cui pareva che le major discografiche volessero abbracciare questa formula “totale”, andando ad acquisire le agenzie di promoter, qui in Italia.
C’han provato. Ma evidentemente non ha funzionato, vedendo come la cosa si sia progressivamente spenta, con vari passi indietro da entrambe le parti. Il perché tutto ciò non abbia funzionato, ce lo devono dire le persone che hanno provato a farlo. Quello che posso dire io, è che le major discografiche quando ti proponevano questi accordi ti dicevano “Ok, voglio una percentuale sul cachet delle date che tu promoter chiudi”: scusa? Com’è questa storia? Com’è possibile che siamo passati dal “tour support” (pratica molto in voga fino a un paio di decenni fa, per cui le major co-finanziavano le date dal vivo di alcuni musicisti che rappresentavano, dando dei contributi a fondo perduto ai promoter, NdR) a qualcosa che è esattamente il suo contrario? Se glielo chiedevi, la risposta era: “Eh, perché ora sei tu a a guadagnarci”. Interessante: quando eri tu major discografica a guadagnarci non mi pare che avessi creato un sistema per cui sostenevi strutturalmente chi ci guadagnava di meno… Ad ogni modo: sì, si è parlato tanto di questa integrazione fra major e promoter, sia a livello locale che a livello internazionale, cinque anni fa sembrava un destino inevitabile, ma adesso invece è si è spento tutto, nel silenzio generale, come se nessuno avesse mai detto o pensato una cosa del genere.
Domanda classica ed inevitabile: ha senso in Italia organizzare dei festival?
Dipende da che dimensioni devono avere. Se stai pensando a festival a da 50/70.000 persone no, non ha senso organizzarli. Punto.
Come mai?
Perché l’80% delle persone che va a vedere la musica dal vivo in Italia ascolta musica che “vive” male all’interno di un festival e, se provi a proporgli qualcos’altro, lo rigetta.
Fenomeno molto italiano?
Assolutamente. Andiamo famosi per questo. Se ascolti Vasco Rossi, non so per quale motivo, forse è scritto in qualche Sacra Scrittura, sembra che tu non possa accettare di ascoltare dal vivo nient’altro.
Non puoi ascoltare Vasco e, per dire, gli Editors.
Non solo gli Editors: nessuno! Per anni, l’unico vero grosso festival italiano è stato l’Heineken Jammin’ Festival: un evento che tecnicamente si reggeva, poi eventualmente gli organizzatori mi smentiscano, sul fatto che ogni due anni c’era Vasco Rossi in cartellone. Che metteva a posto i conti. Il problema era che se su quel palco mettevi chiuque non fosse Vasco, fosse pure qualcuno che Vasco aveva prodotto, vedi il caso di Simone, per il pubblico di Vasco era comunque un affronto inaccettabile e l’”invasore” veniva tirato giù dal palco a bottigliate. Come fai a costruire un festival su queste basi? Vasco serviva da un lato al festival per andare avanti, per stare in piedi economicamente, ma dall’altro ammazzava ogni possibilità di creare con continuità un discorso artistico sfaccettato.
L’unica soluzione insomma sono i boutique festival, quelli con le presenze complessive entro le 10.000 persone?
Diciamo che è l’unica soluzione che ho trovato io, per quanto riguarda la mia esperienza.
(il teaser dell’edizione dell’anno scorso di Astro; continua sotto)
Infatti, penso in primis a Siren, una “creatura” di Dna Concerti. Così come lo è Astro. Ci torniamo, soprattutto sul secondo; ma prima fammi chiudere il discorso sui festival in generale, sul fatto che in Italia sembri impossibile creare un evento delle dimensioni dei grandi festival europei.
Non credo ci siano artisti in grado di attirare sulle 30.000 persone, che è la soglia minima per un headliner di un festival dalle dimensioni rispettabili, che tu possa inserire in un cartellone italiano senza che qualcuno si lamenti. Puoi fare delle date singole, mettendoci qualche gruppo di contorno. Ma questo non è un festival; questo è il modello di Firenze Rocks. Il che non significa voler sminuire Firenze Rocks, attenzione, ma di sicuro non si tratta di un festival.
Ecco, un’altra delle anomalie italiane, vista con gli occhi di un grande operatore straniero: la nostra tendenza a chiamare “festival” quelli che festival, in realtà, non sono.
Con gli agenti stranieri, quando tratto gli artisti, devo usare formule come “concert series” per parlare di situazioni come Ferrara Sotto Le Stelle o Rock In Roma, che qui da noi sono viste e comunicate come festival, sui media. Perché se io dicessi “festival”, le domande che l’agente inizierebbe a pormi sarebbero, giustamente: “Chi altro suona sul palco dove ci sarà il mio artista? Chi suonerà sugli altri palchi? Quanti palchi ci sono? A che ora vorresti far esibire il mio artista?”. Che gli rispondi? Io non sto dicendo che Rock In Roma o Ferrara Sotto Le Stelle abusino del termine di “festival”, però è oggettivo che nel resto del mondo il termine ha una valenza diversa.
Dicevamo di Astro. Se il Siren è più facilmente riconducibile alla storia e all’identità di Dna Concerti, per il suo approccio indie (anche se in realtà sempre più variegato ed irregolare), per Astro forse la cosa funziona un po’ meno. Cosa ti ha spinto a crearlo? Lo hai fatto per mera soddisfazione, per la voglia di aumentare i guadagni o per scelta strategica?
Ti dovrei rispondere: che differenza fa? Una cosa implica l’altra quindi sì, l’ho fatto per tutt’e tre i motivi. Anche se la ragione vera penso sia un’altra: abbiamo da ormai quasi dieci anni una “divisione elettronica, 3D Dna Dance Department, affidata in primis ad Andrea Angelini, che col tempo ha lavorato davvero bene, anzi, in particolar modo negli ultimi anni. Era giusto e doveroso creare un evento in cui si rispecchiasse, con la direzione artistica di Andrea. Il mio sogno ovviamente sarebbe fare un evento che rispecchi tutte le anime di Dna, ma allora torniamo al discorso di prima; ma sempre relativamente al discorso di prima, storicamente una eccezione al discorso della mancanza di “mentalità da festival” in Italia è rappresentata da quelli a matrice elettronica, lì il pubblico pare molto più ricettivo e molto più disposto a passare dieci ore di fila ascoltando anche artisti che non conosceva prima, per il gusto della scoperta, senza sentirsi offeso se in cartellone c’è qualcosa non di suo gradimento o non di sua conoscenza. Infatti, guardacaso, mediamente i festival di musica elettronica in Italia funzionano, rispetto alle spese che hanno. Perché quindi non fare anche noi un buon festival di musica elettronica, anche se per ora lungo solo un giorno?
(scene da backstage: chi vi scrive, a sinistra, e Pietro Fuccio in mezzo ai due Die Antwoord, anno 2012; continua sotto)
Pure perché avere un festival, nel portfolio di un promoter, aiuta a trattare con gli agenti inglesi, i padroni del vapore…
Il 99% degli artisti stranieri, per bocca dei loro agenti, ti chiede di suonare in un festival. Sai perché? Se suoni in un festival di solito, se sei un artista di medio-alta importanza, ti strapagano, anche al di là del tuo valore di mercato; non soffri alcun tipo di stress, tipo “Oddio, e se faccio un buco, che ne sarà della mia immagine?”, perché non sarai mai solo ed esclusivamente tu la faccia del festival, se le cose vanno male potrai sempre dire che è stato per mille altri motivi; la tua crew ha molto meno lavoro da sbrigare, perché il palco c’è già, l’impianto c’è già, è tutto già pronto. Insomma: il massimo. Quindi se tu promoter oggi vuoi lavorare nel mercato del live, devi per forza proporre date in un festival. Perché se proponi solo date “normali” finisci coll’essere un seccatore, uno poco appetibile: la data “normale” implica più lavoro, più stress, più incertezze (il tuo cachet varia a seconda dei biglietti venduti). E visto che nel mondo ci sono così tanti festival, Italia esclusa naturalmente, perché andare a complicarsi la vita senza motivo?
A proposito del complicarsi la vita: qual è il concerto più difficile che tu abbia mai organizzato?
Perché complesso da organizzare dal punto di vista tecnico, o perché ingestibile come dinamiche lavorative?
Fai entrambe!
Difficile tecnicamente, ma comunque fattibile e quindi stimolante, potrei dirti Kraftwerk. Magari la prima volta che abbiamo portato qui la versione 3D del loro show: lì c’erano alcune cose inedite da gestire, e mi pare siano state portate avanti brillantemente. A livello di ingestibilità, beh… potrei dire Einstürzende Neubauten, non proprio dei personaggi semplici. Ma il trionfo dell’assurdità, del creare complicazioni drammatiche senza in realtà nessun motivo concreto da parte della crew tecnica e manageriale che segue la band, è stato: Blur.
E’ possibile diventare realmente amici, ogni tanto, con gli artisti?
Vedo che a molti miei colleghi succede quindi sì, penso sia possibile. Io però non penso di poter definire realmente “amico” nessun artista con cui ho lavorato negli anni. Penso, ma è una posizione molto personale, che sia meglio mantenere un po’ di distanza. Ma è una scelta mia: perché non è l’artista che ti tiene a distanza, di solito. Anzi.
Perché hai deciso di fare questo lavoro?
Non l’ho mai deciso (ride, NdR)… Sai come stanno le cose? Il problema è che in realtà non ho mai deciso di smettere. Questo è il punto.