Da fan italiano del rap, una delle maggiori frustrazioni è notare come la maggior parte dei propri connazionali siano da qualche anno attentissimi ad ogni inezia cha accade nella scena locale, e invece così tanto disinteressati e poco informati rispetto a quello che accade nel mondo oltre confine. A questa regola sfuggono solo due nomi: uno prevedibile, Eminem; e uno inaspettato, Travis Scott.
Dico inaspettato, perché fa abbastanza impressione notare come Jay Z o Kanye West o lo stesso Drake facciano (chi più chi meno…) fatica ad “arrivare” nel Bel Paese, mentre il rapper di Houston sia riuscito ad sfondare in classifica FIMI con un singolo (anche abbastanza mediocre) come “The Scotts” con Kid Cudi. E questa non è stata la prima volta che Travis Scott è riuscito ad arrivare così pesantemente nel contesto Italiano: “Astroworld”, per esempio, è stato uno dei pochi dischi rap americani ad attecchire anche nella Penisola. Viene quindi da chiedersi come sia possibile tutto ciò, e quali siano le motivazioni che abbiano spinto il pubblico italiano ad appassionarsi al suo personaggio, lì dove altri invece sono spesso facilmente “sorvolati” o colti solo a metà.
Detto che a queste disamine sfugge sempre qualcosa, e che si parla di un artista vivente in piena attività (quindi passabile ancora di molte evoluzioni), alcuni punti si possono però notare facilmente: primo fra tutti, la bidimensionalità. Il rapper di Houston è infatti un artista che non porta con sé complicazioni.
Travis Scott nasce come protetto di Kanye, da cui eredità il desiderio e la capacità di essere un direttore d’orchestra del suo personaggio: non un semplice rapper, ma un direttore creativo di se stesso, curando ogni aspetto della propria carriera (dalla musica, all’immagine). Ma, al contrario del proprio maestro, non porta sulle spalle alcun peso dell’essere ciò che è. La Flame (suo storico nickname) viene infatti da una famiglia borghese, non dalla periferia; non ha una storia tragica alle spalle, non ha controversie giuridiche di alcun tipo, non ha scheletri nell’armadio, non ha pensieri profondi o concetti da esprimere che scuotano le coscienze; non vuole farsi paladino di niente, e non ostenta eccessivamente la propria ricchezza (o quanto meno, non più di altri). Egli è esattamente come appare, cioè il rapper più cool del mondo per musica e immagine, e per questo diventa un perfetto simulacro della rappresentazione da esportazione del rapper contemporaneo.
Non molto tempo fa è uscito su una nota testata online un articolo che spiegava come Michael Jordan fosse stato il miglior prodotto da esportazione per gli Stati Uniti, e come la sua icona fosse un biglietto da visita ideale per gli USA negli anni 90. Per Travis Scott (in ambito diverso, con proporzioni diverse, eccetera) vale il medesimo discorso: è la perfetta rappresentazione del rap contemporaneo in tutti i suoi aspetti, un prodotto da esportazione ideale, senza alcun tipo di effetto collaterale, che trasmette un semplice desiderio di emulazione. Meno family friendly di Drake, ma più di facile lettura di ASAP Rocky o Tyler the Creator – giusto per fare due nomi. E questo è il primo punto.
Secondo: tra i rapper neri, Travis Scott è il più “bianco” di tutti. In un paese come quello italiano dove la comprensione della cultura afro discendente è qualcosa di attualmente inesistente, è impensabile ragionare sull’ipotesi che un rapper che affonda al 100% le radici della propria musica nella black culture possa avere un successo di massa. Dischi come il Kendrick Lamar di “To Pimp a Butterfly”, o i primi lavori di Kanye, sono incomprensibili (se non in modo parziale, superficiale) per il pubblico italiano medio, che non ha alcun interesse verso quel tipo di universo culturale.
Come si diceva sopra, Travis viene da una famiglia borghese, ed è cresciuto prevalentemente in un contesto più sereno rispetto alla media della narrazione del rap, che fa della vita del ghetto, delle sue difficoltà e contraddizioni il suo core. Tutto questo è assente o quasi nella sua poetica, che è stata strutturata maggiormente attorno a concetti più trasversali – e quindi più accessibili da parte anche di un pubblico che di realtà periferiche problematiche di un certo tipo è digiuno.
Questo è uno dei motivi per cui per esempio, Eminem piace così tanto: è bianco, è stato il paladino dei white trash, campiona il rock e via discorrendo. Medesimo discorso per Travis Scott, che a livello musicale prende tanto dall’elettronica e dal rock quanto dal jazz, blues o r’n’b; è un appassionato di punk e ha dichiarato con uno dei suoi idoli è Sid Vicious, ma chiama Stevie Wonder a suonare l’armonica in “Astroworld”. Parafrasando una celebre clip del telefilm “Boris”, si potrebbe dire che Travis Scott assolve il pubblico italiano dai propri peccati: gli ascoltatori non sono interessati per davvero al rap ad un livello più profondo, ma ascoltando lui si sentono “giovani” e al passo coi tempi – non è un caso che proprio lui sia il preferito di Fedez, uno che da tanti anni ha un piede dentro e uno fuori dalla scena, impegnato com’è ad occupare militarmente le varie pieghe del mainstream.
(c’è chi si piglia la Ferragni, e c’è invece chi… – continua sotto)
Terzo e ultimo punto: Kylie Jenner. E qui si arriva all’apice della piramide. Tra tutte le mosse giuste che nel corso della sua carriera Travis Scott ha fatto, la relazione con Kylie Jenner è stata lo scacco matto. Senza voler creare dietrologie a riguardo, è però indubbio che la storia d’amore a cui è seguita la nascita di Stormi abbia catapultato il rapper in un gioco completamente diverso, dove non è solo un artista ma un personaggio pop a tutti gli effetti che gioca un ruolo all’interno della vita-sitcom della famiglia più seguita del mondo. Questo ha avuto una cassa di risonanza grossa come un grattacielo per sé e la sua arte, che è diventata davvero di dominio pubblico. E non è neanche un caso, che da quel momento in poi la sua carriera come gestore della propria immagine sia decollata ulteriormente, con merch disegnato da Virgil Abloh, collaborazioni esclusive con i maggiori marchi di abbigliamento, eccetera eccetera. Tutto questo a favore di una fan base indemoniata, pronta a comprare qualsiasi cosa su cui lui metta le mani.
Ma anche qui, se si parla di moda, il suo talento non è rivoluzionario nei termini di invenzione da zero ma più come un lavoro di ready made alla Duchamp, in grado di posizionare nel contesto giusto un elemento, cambiandogli di significato. Non è Kanye che crea una scarpa da zero ma è più simile allo stesso Virgil Abloh, che lavora sul preesistente modificando e riposizionando simboli che sono già comuni, e che (solo) nel momento in cui ricevono il suo timbro assumono valore. E questo tipo operazione, se coniugata con un i punti sopra spiegati, rende il proprio genio creativo un prodotto spendibile a New York come a Tokyo, a Roma come a Città del Capo.
Questi tre punti abbastanza schematici rendono l’idea di chi sia e come agisca una macchina del successo come Travis Scott, che è attualmente il rapper più amato e invidiato del mondo. In più, diciamo pure che mettono (ancora una volta…) in luce la mancanza di profondità di approccio al genere da parte del pubblico italiano, un pubblico che si continua ad accontentare della superficie del rap. Una superficie incredibilmente cool e di livello, certo, ma pur sempre superficie.