Formatosi prima come dj e poi come artista visivo, l’inglese Philip Jeck è una di quelle figure imprescindibili quando si parla di sperimentazione sonora e manipolazione analogica del suono. Compositore, performer, coreografo e artista multimediale interessato alla degenerazione del vinile rispetto al suono originale, procede per accumulo, sovrapponendo elementi sonori e destrutturandoli ad arte, col preciso intento di costruire trame acustiche emozionanti ed immersive. Ha iniziato a lavorare con i giradischi, i registratori a nastro e l’elettronica nei primi anni ’80. Dopo aver composto numerose colonne sonore per danza e teatro è entrato nel campo della sperimentazione radicale inventando manomissioni sonore di ogni tipo per creare “classici low-fi per la generazione elettronica”. Le sue performance e installazioni hanno avuto molti, importanti, riconoscimenti internazionali. “Cardinal” è il suo ultimo album, pubblicato su Touch, e segnalato da The Wire tra le 50 migliori release del 2015.
Per capire quello che succederà nel suo prossimo live italiano, venerdì 20 maggio alla Sala Vanni di Firenze, a chiusura del ciclo Hand Signed, lo abbiamo intervistato via Skype.
Ci racconti qualcosa a proposito della tua formazione artistica?
La musica è sempre stata la mia forma di espressione artistica preferita. Da ragazzo ho anche studiato chitarra ma non era una cosa che mi interessava davvero fare perché mi riusciva molto meglio disegnare e dipingere. Al college ho dunque preferito studiare arti visive. Poi, nel 1979, ho fatto un viaggio a New York e lì ho scoperto la figura del dj che mi ha subito affascinato moltissimo. I miei amici che mi ospitavano in città mi portavano spesso a ballare nei club disco che stavo esplodendo in quel periodo, assieme al fenomeno del turntublism che però ancora non seguivo per bene. Le mie ispirazioni principali, in quel momento, erano artisti come Larry Levan e Walter Gibbons. Ho cominciato imitando loro, per esempio nell’inserire lunghe pause strumentali tra un brano e l’altro. Ben presto, però, ho cominciato a mixare anche tracce che non fossero in 4/4 perché ho capito che era proprio l’atto del mixing ad interessarmi più che la dimensione del dancefloor. All’inizio degli anni ’80 collaboravo con varie compagnie teatrali, soprattutto come performer. Per alcune di queste ho cominciato ad occuparmi anche delle colonne sonore, dell’editing audio e della realizzazione di performance di improvvisazione sonora. Il punto della mia personale ricerca artistica nel quale mi trovo ora è più il risultato di una lenta evoluzione che non un’improvvisa epifania.
Che rapporto c’è tra la tua attitudine da collezionista del vinile e la componente emotiva della tua musica?
Quello che io e tutti gli altri artisti con i quali collaboravo già all’inizio della mia carriera cercavamo nella musica era qualcosa che ci emozionasse, che muovesse qualcosa dentro di noi. Nella mia ricerca personale appena trovavo qualcosa che avesse queste caratteristiche in forma di disco cercavo di approfondire. Con la pratica ho capito che queste cose si trovavano più spesso nella manipolazione di un suono che non in un disco compiuto e fedele. Allora ho cominciato a suonare i vinili ad una velocità differente, a capire come realizzare loop meccanici a vedere che effetto faceva la puntina fatta pattinare sui solchi… Quello che cercavo erano dei suoni, emotivamente trascinanti, da ricombinare. Li trovavo nei lavori di spoken word come nei corsi di lingua in vinile che trovavi nei negozietti dell’usato. Ad un certo punto però mi sono accorto che le registrazioni vocali su disco erano troppo specifiche e precise, troppo funzionali, per lasciare lo spazio necessario all’immaginazione, per evocare qualcosa di misterioso ed inaspettato. Mentre quello che io cercavo di generare attraverso l’uso di quei dischi era stupore, nostalgia, gioia, tristezza, commozione…
La riflessione sulla memoria sembra centrale nel tuo lavoro e passa attraverso l’uso che fai dei dischi come frammenti del tempo o, come tu stesso spesso dici, ‘memory packages’.
Mi ha sempre interessato la storia di ogni singolo disco che ho usato, le sue imperfezioni, i danneggiamenti che ha subito, la polvere tra i suoi solchi. Da questo punto di vista la ricerca che faccio per trovarli, tra negozi e mercatini, somiglia un po’ a quella di un archeologo. E, d’altra parte, molti dei dischi che uso nelle mie performance non sono necessariamente dischi che suonerei a casa o che mi piacciono in modo particolare. Di ognuno mi interessa qualcosa in particolare. Dico sempre che c’è qualcosa di buono in ogni singolo disco. È accaduto davvero pochissime volte che mettessi la puntina su un vinile e questo non avesse almeno qualcosa per cui valeva la pena considerarlo. Generalmente uso dischi di difficile riconoscibilità anche se qualcuno tra il pubblico ha l’impressione di ascoltare qualcosa che già conosce. Molto spesso non è così. È proprio in questo spazio della memoria, nel quale dei suoni richiamano alla nostra mente una qualche esperienza o situazione già vissuta che lavora la mia musica. Ricordo perfettamente l’emozione, la prima volta che acquistai un disco, nel metterlo sul piatto. Erano gli anni nei quali i dischi della Motown cominciavano frequentemente con esplosioni o, comunque, suoni molto potenti. Quell’emozione non è mai passata, la provo ancora ogni volta che poggio la puntina su un vinile.
La tua passione per il collezionismo non è scindibile dalla pratica musicale per la quale i piatti che usi per suonare i dischi sono veri e propri strumenti musicali. Con la tua performance processi il suono trattandolo come materia plasmabile. Ti interessa l’idea della scultura sonora?
In realtà quando inizio un live non ho quasi mai ben chiaro dove andrà a finire e questa è una cosa che trovo creativamente interessante. Il processo attraverso il quale effetto i suoni contenuti nei dischi, li campiono con un basilare e vecchio campionatore della Casio somiglia molto all’idea di scolpire una materia: dare una nuova forma a quanto già codificato attraverso una registrazione e un’incisione. Anche i piatti che uso per riprodurre i dischi hanno un ruolo fondamentale. Si tratta di vecchi player a bassa fedeltà che già di per sé aggiungono colore al suono originale, distorcendolo. Dal punto di vista tecnico si tratta di una riproduzione assai povera e lontana dal concetto di alta fedeltà. Io la gestisco come uno dei tanti livelli di modifica del suono che faccio interagire tra loro. Altri livelli derivano dall’uso del mixer, del campionatore, degli effetti per strumenti, etc.
Pensando al modo nel quale altri compositori contemporanei come Otomo Yoshihide o Christian Marclay usano i piatti come strumento hai qualche influenza da dichiarare?
In particolare io ho scelto di usare un certo tipo di vecchi riproduttori portatili come quelli che porterò con me per il prossimo live a Firenze perché ognuno di loro è in grado di suonare differentemente gli stessi dischi, proprio in virtù dei loro difetti specifici. Se penso a come lavorano Martin Tétreault, Christian Marclay e Otomo Yoshihide mi rendo conto che tutti loro lo fanno in maniera differente pur usando strumenti simili. Un po’ come la distanza che corre tra chitarristi quali Hendrix e Segovia. È chiaro che a volte le nostre ricerche potrebbero sembrare vicine ed è vero che ci sono state anche occasioni di collaborare assieme ma per me la cosa più interessante è proprio questa diversità di approcci che si va a sommare alle tecniche di mixaggio sviluppate da quei dj che i piatti li usano in ambito dance. Vuol dire che siamo stati in grado di sviluppare una ricca diversità di stili, forme espressive e sperimentazioni che ruotano attorno all’uso creativo dai player per vinile.
Puoi dirci qualcosa a proposito del tuo progetto collaborativo Spire?
Spire è un progetto originariamente fondato da Charles Matthews, un organista, e Mike Harding della Touch nel quale tutto è basato su composizioni per organo, dai primi brani pensati per questo strumento alle partiture contemporanee. Sostanzialmente si tratta di una serie di performance nelle quali vari artisti vengono invitati a lavorare attorno a questo concept. Quando ho preso parte al progetto ho costruito un set nel quale usavo vinili con registrazioni d’organo: dalle composizioni religiose scritte da Bach fino a quelle odierne per questo strumento.
A quale set up stai pensando per il tuo prossimo live nella rassegna fiorentina Hand Signed?
Userò due piatti portatili con delle componenti utili a metterli in loop, un mixer del quale uso solo gli effetti di riverbero e delay, una tastiera Casio Sk1 per campionare suoni a bassa qualità e un paio di pedali per chitarra e basso.
‘Cardinal’ è il tuo album più recente, uscito su Touch nel 2015. Hai qualche progetto discografico in preparazione?
‘Cardinal’ ha richiesto cinque anni di lavorazione. Compongo sempre molto ma raramente sono soddisfatto di quello che faccio. In generale ho una filosofia specifica per le mie release: ognuna deve costituire uno sviluppo specifico o una miglioria sostanziale rispetto alla precedente. Arrivare a questo implica un lungo tempo di gestazione. Credo che oggi ci sia la tendenza a produrre troppo. Vedo che ci sono artisti che tirano fuori tre lavori l’anno e sinceramente non riesco a immaginare come facciano mantenendo buoni standard qualitativi. In questo momento sto lavorando a diverse cose, alcune delle quali sicuramente suonerò a Firenze come anticipazioni inedite. Oltre a queste eseguirò anche tracce di ‘Cardinal’ e dei miei primi album.