Poche parole, come introduzione. Perché invece nell’intervista ce ne sono tantissime (…e considerate che sono solo una parte delle chiacchiere spese durante un pomeriggio, a sorseggiare caffè e ricordare anche vari aneddoti comuni riguardo alla scena rap italiana di fine anni ’90, oltre a ragionare su quanto valga la pena o meno vivere in Svizzera: da lì in poi abbiamo acceso il registratore). Del resto Phra, l’attuale titolare unico della sigla Crookers, di introduzioni non ne avrebbe nemmeno bisogno: uno dei pochi artisti di casa nostra ad avere un successo veramente globale. Anzi, ad averlo avuto a più riprese, prima con l’ondata fidget (che ora pare modernariato…), poi con mega hit di taglio un po’ diverso. In realtà, Phra è in una fase molto particolare e molto interessante della sua carriera. Dove Herbert e Theo Parrish contano più delle folle oceaniche. Opportunismo? Eh no, diremmo proprio di no. Leggete anche voi. E fatevi la vostra idea. O scoprite che effetto fa lavorare per Rihanna e Beyoncé, e quanto invece può preoccuparti incontrare Kenny Dope…
E insomma, “Non farò mai più l’errore di cercare qualcosa fuori dall’Italia”, mi dicevi…
L’errore è stato andare a vivere in Svizzera. Dopo tutti questi anni passati a girare, vedendo un po’ come stanno le cose, ho capito che in Italia sto bene, non ho bisogno di altro.
Mmmh. Spesso si dice che è fondamentale avere una mentalità almeno europea, non essere provinciali, non essere ancorati allo stagno italiano. Poi però in realtà tu sei stato uno dei non tantissimi dj/producer di casa nostra che ha avuto realmente un successo globale.
Boh sì, immagino di sì. Ma non ti sto parlando di lavoro, ti sto proprio parlando di vita quotidiana. Un conto è se dici “Devo andarmene da qui, perché voglio riuscire nella musica” o “Voglio riuscire nell’arte, facendo quadri”: vivendo in provincia, chiaro che non puoi fare molto, non trovi sfogo. Lì ci sta: uno deve prendere e andare. Facendolo però con una certa testa, non a caso. Quando comunque inizi davvero a vivere in giro per il mondo, facendo per giunta quello che ti piace, ti rendi conto che i bug ci sono un po’ dappertutto. Sai, ti viene il nervoso quando tornando in Italia, tipo a Linate o Malpensa sul pullmino che ti porta dall’aereo allo sbarco, senti discorsi tipo “Ah, come si sta bene all’estero”: ci credo che ci stai bene, ci sei stato al massimo dieci giorni e in vacanza! Oh, è come stare con una donna solo le prime due settimane: chiaro che è tutto bello. E’ solo dopo un po’ che ti rendi conto che all’estero il sistema sanitario è quello che è, rispetto a quello italiano; che i marciumi in politica ci sono anche lì; che pure lì tutti si lamentano. Sì, il lamento di sottofondo c’è sempre.
Non è solo una caratteristica italiana, insomma, il lamento…
Ma va’. Ok, anche se noi siamo forse i campioni del mondo, nella disciplina. Ma c’è anche fuori. Però sì, tutto considerato l’Italia è il posto che ti dà la qualità della vita migliore.
E cosa dà invece a livello più strettamente lavorativo?
Se devo guardare alla mia esperienza personale, poco o niente. Ma magari è colpa mia, all’inizio non sapevo nemmeno bene come funzionasse. Eh, rapportarsi per questioni di lavoro in Italia. Un gran casino. Io ad un certo punto lavoravo quasi solo con persone non italiane, no? Ecco, quando c’erano da stringere degli accordi in Italia mi dicevano sempre “Ah, oddio, parlaci tu dai, tu che li capisci, tu che sai come funziona”.
E come funziona, quindi?
Non lo so! Se lo sapessi, sarei il Berlusca! Non so, non lo so davvero… Forse, più che in altri posti, devi sforzarti di capire le persone. Sta di fatto che all’estero ti fanno sempre la parte un po’ razzista, “Eh ma con gli italiani ci devi parlare tu, che sei italiano, meglio così, sennò non riusciamo a cavarne fuori nulla”. Poi però, quando passi dall’altra parte della barricata, scopri che gli inglesi o americani ci parlavano sì con gli italiani, ma trattandoli male per principio, per pregiudizio, fin da subito. Chiaro che poi le cose non funzionano. Li trattavano con zero rispetto.
E tu, come hai fatto a farti rispettare? Aoh, per essere italiano sei italiano!
La gente mi rispetta? Chissà! Mi rispettano, all’estero? Non ne ho la più pallida idea… No dai, in effetti che attorno a me ci sia un po’ di rispetto lo percepisco. Di sicuro non ho fatto né il gradasso né quello che se la mena più di tanto. Io ho avuto una fortuna fondamentale: nei miei primi giri all’estero, trovarmi a passare molto tempo con persone come Armand Van Helden o i Soulwax… o Igor Cavalera… persone che hanno una certa età, una enorme esperienza, persone che sanno cosa significa andare in tour. Ti insegnano un sacco di cose. Prima di tutto, capire come bisogno comportarsi con le persone quando si è stanchi – e con persone che sono stanche a loro volta. All’inizio non è una cosa a cui pensi, e quindi: “Ah, ma mi ha trattato di merda!”… Sì, certo, ma sono tre giorni che non dorme chi ti ha trattato in modo un po’ secco, e magari non ne ha mezza di voler sentire quello che hai da dirgli. All’inizio poi anche io ho fatto l’errore di farmi prendere troppo dall’entusiasmo: sei in giro, fai cose fantastiche, vedi posti che non avevi mai visto, insomma, sprizzi contentezza da tutti i pori… fino a sembrare praticamente un coglione. Chi è realmente del mestiere e ha una certa esperienza si diverte sì, ma si diverte a fare solo ed unicamente quello che gli piace e per cui ha originariamente iniziato tutto quanto. Tutto il resto è una gran rottura di cazzo: aerei, backstage… e ti dirò, pure alcool e le varie “amenities” collaterali, che a me hanno rotto le palle, e questa è una cosa ottima perché così stai molto meglio. Ad ogni modo: l’insegnamento fondamentale è stato quello di stare calmo.
Avere il senso della misura.
Stare calmo. Stare sempre calmo. Mi ricordo sempre di una cosa successa un po’ di anni fa, 2007 o 2008, era la prima volta che suonavo alla Webster Hall a New York. Non mi ricordo come, ma ero riuscito a farmi dare il numero di Van Helden – avrebbe suonato anche lui in serata – ed ero riuscito a farmi invitare a casa sua. Oh, ero un suo fan sfegatato! La house che facevo prima di dare vita al progetto Crookers era qualcosa che voleva sotto tutti i punti di vista essere una copia delle produzioni di Van Helden (ovviamente senza riuscirci, mai che me ne fosse venuta una bene…): questo per farti capire quanto adoravo quell’uomo là. Bene. Arrivo a casa sua, e lui ad un certo punto mi fa un discorso: “Guarda, ora sei sulla cresta dell’onda, ti stai divertendo, e va benissimo. Ma ad un certo punto sembrerà che la gente si sia completamente dimenticata di te. Solo che occhio, non si è dimenticata – fa finta. Fa finta di averti dimenticato. Se è gente che lavora seriamente in questo ambiente, non si possono dimenticare di te, non ti hanno dimenticato. Vai tranquillo. Stai sereno. No ansie. La ruota tornerà a girare. Loro sanno chi sei”. E la cosa strana è che lo diceva a me, ma un po’ era come se lo dicesse a se stesso. Credo che lui stesse attraversando quel periodo lì. Infatti, un anno più tardi fece uscire “Bonkers”, quella hit gigantesca con Dizzee Rascal, ricordi?, che improvvisamente lo aveva rimesso al centro dei giochi – quando nessuno si aspettava che ciò potesse accadere.
In effetti…
Lui aveva avuto il suo periodo d’oro, quello in cui ogni cosa che fai diventa una hit e soprattutto diventa ciò che determina il “suono del momento”, quello capace di entrare anche nei territori della cultura pop: uno stato di grazia che ti succede probabilmente una volta nella vita, soprattutto se non sei un progetto specificatamente pop – quelli sono delle macchine da guerra – e sei invece uno scemo che fa musica col computer. Quindi ecco, lui questa cosa l’aveva vissuta. Me lo ricordo bene questo discorso che mi fece, eccome se me lo ricordo. Mi aveva scioccato: non solo stai parlando con uno degli idoli della tua vita, no, lui ti sta facendo anche un discorso molto serio che ti aiuterà ad affrontare la vita fra dieci anni, o o sei, o tre, quando le cose gireranno in un certo modo.
Hai passato la fase in cui venivi “dimenticato”?
Non lo so, non credo. Quella roba proprio triste che cadi nel dimenticatoio e bussi alle porte del sistema-musica sentendoti rispondere “E tu? Chi saresti? Chi sei? Ci conosciamo?”, sai quelle cose che ti dicono i management stronzi… O anche: “Quanti anni hai?” “Trentasette” “Eeeh…” “No dai, trentasei” “Mmmmmh” “No, no, scherzavo: ventisei” “Ah!”. Mamma mia. Quando ti chiedono quanti anni hai: che cazzo gli devi dire?! A un cuoco lo chiederesti mai? Comunque: no, non credo di aver mai passato realmente questa fase.
Però una cosa l’hai dovuta fare di sicuro: staccarti dalla identità-Crookers originaria, quella che ti ha lanciato nel mondo.
Mmh sì. Però guarda, penso di averlo fatto già quando Crookers era ancora un progetto a due, quando c’era ancora Bot. Oh, sia chiaro, tutto quello che ti dico ora è la mia visione delle cose, non posso parlare per Bot. Comunque: ad un certo punto mi sono reso conto che il nostro miglior pregio era anche il nostro peggior difetto. Sì, eravamo diventati famosi per un suono, anzi, per un’attitudine, e la cosa più furba da fare sarebbe stato sfruttare questo suono e questa attitudine sino in fondo, senza ripensamenti, lavorando in larga scala e facendolo per anni, fino a quando dura. Il problema, quando fai così, è che quando finisce beh… finisce veramente. Stop. Basta. Sei finito. Però finché dura sei una macchina da guerra, fai come Guetta nel suo. Noi avremmo potuto essere quelli della fidget, “Ciao, sono Francesco della fidget!”, avremmo ottenuto risultati molto più grandi. Ma sai che c’è? Parlando sempre per me, quella cosa mi ha sempre annoiato. Perché ti ritrovi seduto in studio ricoperto sì di committenze ma di gente che vuole solo ed esclusivamente “Francesco della fidget” con te che sempre più disperato pensi “Basta, non ce la faccio più…”. E attenzione, non è dispregiativo nei confronti della fidget e di quella musica lì: lo scorso Capodanno, suonando al ristorante del cugino della mia donna (…perché sono tre anni che l’ultimo dell’anno mi diverto a suonare lì), l’ho messa tutta la fidget, dal primo all’ultimo disco, e ci siamo divertiti come dei pazzi. Una sera ogni tanto è bello sbragare, e mettere praticamente tutta la compilation dei pezzi che uscivano nel 2006, 2007… I miei amici erano entusiasti. Oddio. Non so se vieni in un club e ti metti a suonare questa roba la gente è felice. Mmmh. Spero di no.
Speri di no?
Spero di no nel senso che sono più contento se la gente si prende bene se metto della roba nuova, senza che sia obbligato a suonare dischi di dieci anni fa.
E insomma, ora che dopo un po’ di tempo a questo Capodanno ti è capitato di risuonarla, che effetto ti ha fatto?
Mah. A me piace. Ancora adesso. Tecnicamente era fatta malissimo: ma proprio questo è il suo bello. Fatta con computer marci e musica ascoltata su casse che erano ancora peggio, fatta con conoscenza del metodo su come fare musica che era praticamente pari a zero, e conoscenza dell’engineering sonoro che era meno di zero. Tutto fatto “a pancia”, non “a conoscenza”, e infatti suona tutto disastrato. Poi oggi vai a leggere tipo sulle board di Gearslutz – ora adoro andarci, prima non mi importava – post anche vecchi di gente che si chiedeva disperata come facevamo a far suonare le nostre robe in quel modo, pieni di ammirazione… “Basta comprare un pc scassato con delle casse di merda”, dovrei rispondergli.
Tutto torna. Pure l’house è nata da errori e strumenti scarsi, che non erano in grado di rifare decentemente la batteria o le linee di basso.
Eh sì, tutta la roba della Roland. O l’uso di mixer pessimi. O di nastri lerci, già usati e strausati mille volte.
Però ecco, tornando a te, diciamo che col tempo sei diventato bravo. Ora Gearslutz ti interessa. E tu avrai imparato un sacco di cose.
Non lo so. Boh. Secondo me, devo ancora imparare un sacco di roba. Oh, se mi sentisse Van Helden… Lui, da bravo americano, mi ha sempre detto che uno dei segreti è andare davanti alla gente tutto convinto di te dicendo sempre “Meglio di me non c’è nessuno, capito?”. Boh Armand, non lo so, prova ad arrivare in un club della provincia italiana più profonda e sfigata e dire “IO SONO IL MIGLIORE DI TUTTI” – non inganni nessuno e, a parte, questo, non è manco bello come atteggiamento. Non da noi. Da noi queste cose non funzionano. Da noi c’è stile, c’è l’attenzione su quanto uno è bravo veramente, e in generale anche se sei uno scarsone ma fai vedere che ti impegni prima o poi un po’ di soddisfazione te la danno, “Dai, in fondo non è così male”. Sono diventato bravo? Ho imparato un sacco di cose? Non lo so. Ultimamente me lo dicono in parecchi, però boh. Pare che sia di moda “riscoprirmi”, ma questo perché la gente mi vede come uno commerciale, uno “da electro buona per MTV”, uno completamente immerso nel mainstream. “Oh, è quello che ha fatto ‘Day ‘n’ Night’, avrà fatto una barca di soldi, sarà uno svenduto totale”: e quindi quando gli mandi della roba che invece è decente, beh, restano doppiamente sorpresi e colpiti.
Ma come definiresti la roba “decente” che fai ora?
Non ne ho idea. E’ come tornare al 2006, quando si diceva “I Crookers fanno la fidget” e noi rispondevamo “No, i Crookers fanno house”. Vedi il discorso di prima: a fare la fidget tutto il tempo potevo farmi la barca e la villa, coi guadagni degli anni d’oro. Ma no. Perché mi annoiava. Figurati essere intrappolato, ora, in altri generi – che non solo mi fanno venire la noia, ma proprio l’ansia. Poi chiaro, ho i miei punti di riferimento, guardo fra i miei vecchi dischi, ne tiro fuori i più belli e mi dico “Cazzo questa cosa qua mi piaceva tantissimo”, li rimetto su – senza ricordarmi come fosse perché poche palle, i dischi un po’ te li dimentichi – e pensi subito “Porca vacca, ecco dove era finita la roba che mi aveva fatto innamorare della musica, del fatto di andarla a suonare in giro, come ho fatto a dimenticarla per così tanto tempo?”. Quando succede, ti rimetti un po’ in carreggiata. Perché sì, c’è una cosa che nessuno mi ha mai mai spiegato e di cui mi sono accorto da solo: andando in giro a suonare spesso perdi completamente il contatto con la musica. Quando non stai tanto in tour, hai tutto il tempo di studiare, capire, riascoltare, comprendere quello che c’è in giro; quando invece sei in giro in tour, zero. A maggior ragione quando suoni per festival, dove – diciamocelo chiaramente – è molto facile trovare sempre la stessa gente in line up. Prima e dopo di te suonano più o meno sempre gli stessi, e questo non ti apre la testa, no, te la chiude anzi tantissimo, pensi che attorno a te nel mondo la musica sia sempre uguale. Tipo che ne so, nell’ultimo periodo per tre volte di fila suonano prima di te i Modeselektor, poi ci sei tu, poi boh, metti un headliner EDM a caso. Suonano i Modeselektor: funziona, la gente presa bene, “Ah bene funziona la techno” ti dici. Suoni tu: ok, gente sempre presa bene, reggi ancora. Poi suona l’headliner, col pastruglio che va adesso di roba un po’ più lenta ma con esplosioni di fuochi d’artificio sul palco, e ti dici “Modeselektor ok, ci sto dentro, io ovviamente ok, però ecco sui fuochi d’artificio non sono tanto bravo, non sono un gran fuochista, non ce la faccio”. Però il mondo ti sembra limitato a questo. Quanto tornavo a casa magari la voglia di ascoltare i promo ce l’avevo anche, ma anche lì spesso cadi in una trappola: la gente ti vede in un certo modo, e ti manda quindi solo “quel” tipo d promo, “quel” tipo di musica. Ti ritrovi schematizzato. Bene: io odio essere schematizzato. Quindi cambio. Scarto. La cosa che mi prende bene adesso, è fare il dj.
Che coordinate daresti, per aiutarci a capirti in che fase sei?
Non lo so (ride, NdI), non ne ho la più pallida idea. Davvero, non lo so. La musica che mi piace adesso? Boh. C’è sempre il rap. Vecchio e nuovo.
Eh. Sono due cose molto diverse, il rap di una volta e quello che gira adesso…
Ah, sono due cose diversissime! Completamente. Due sport diversi. Quello nuovo, lo ascolto più per una curiosità “tecnica”: è comunque il genere musicale dove più si lavora a livello di ingegneria musicale, dove più si dà la priorità al tipo di frequenze sonore che interessano a me. Quindi ecco, capire come viene sviluppata e mixata quella roba soddisfa il mio lato più nerd (…senza contare che ci sono comunque delle zarrate incredibili che mi piacciono da morire, quelle me le ascolto da solo in macchina, lontano da chiunque). Allo stesso tempo però la roba che suona sempre troppo bene dopo un po’ mi viene a noia; al che mi metto a sentire il rap degli anni ’90, che suonava male, era registrato da cazzo, i beat erano sbagliati, con atmosfere che se provi a riproporle oggi in pista ti guardano tutti come se fossi uno scemo, ma però cazzo che spinta, che intensità. Insomma: a me piace ascoltare una cosa e il suo contrario. Sono fatto così. Punti di riferimenti precisi? Il problema è che oggi la tecnologia ha fatto sì che ci sia troppa musica dappertutto. Prima avevo solo cinque cd in macchina, quelli che ci stavano nel caricatore. Al massimo, avevo il quadernone con una trentina di cd dentro, toh. Ma ora? Già ho una donna che è una macchina da guerra, sul fatto di essere aggiornata con tutte le ultime uscite, in più mi arrivano tonnellate di mail piene di musica. Qualsiasi tipo di musica. Funk, soul, jazz, electro, techno, EDM, rap: tutto. Tutto! Quindi ti prendi una chiavetta da trenta giga, e capace che la riempi tutta in un attimo. Però boh, io alla fine vado sempre a terminare sui Wu-Tang Clan…
Ma per quanto riguarda le faccende più da dancefloor?
Mi ascolto molti mixati. Vecchi.
Anni ’90?
Ma sì. Mah. Prendi Theo Parrish: ecco, lui l’ho visto un sacco di volte, è bravissimo. L’ultima volta al Dude, a Milano. Tra l’altro è stato fantastico proprio come situazione: hai presente quando vai da solo in un club? Sono arrivato, ho pagato, sono entrato, mi sono preso da bere, ho ballato. Anzi: ballato e shazammato. Così, tutta la sera. Ecco, il suo modo di fare i dj set mi piace parecchio. Anche se è davvero complicato da proporre.
Sì, è rischioso. Rischi anche di esagerare, di scazzare.
Ah, rischi proprio di far incazzare la gente. Come Herbert, del resto: Parrish è più soul, Herbert è più “lo faccio strano”, ma l’approccio è simile. Ecco, Herbert è un altro che adoro, un altro punto di riferimento per me, anche se la gente non lo direbbe mai. Poi sì, a volte esagera col porre l’accento sulla parte concettuale, io invece sono uno tutto pancia e zero concetto, ma lo adoro comunque, lo sento vicino. L’A&R della Defected era rimasto molto sorpreso, quando gliel’ho spiegato.
Certo che sentirti citare Theo Parrish e Herbert come punti di riferimento potrebbe sembrare strano. Ok, per me personalmente no, che ti conosco da vent’anni e so come ragioni, ma per molti sì. Anzi, fammi fare l’avvocato del diavolo: sembra quasi che, citando nomi di questo tipo, tu voglia in qualche modo “ripulirti”, accreditarti agli occhi di una scena di cui non hai mai fatto parte per poterci entrare liberamente.
Non ho bisogno di “ripulirmi” perché non mi sono nemmeno sporcato. Io posso anche andare a suonare con Steve Aoki, tanto non mi “sporco”: perché metto sempre e comunque quello che voglio io. La gente si rompe i coglioni? Io rido.
Però oh, sei visto sempre come quello che “suona con Aoki”.
No. No. Non credo proprio. Forse in passato, toh. Ma ora le cose stanno cambiando. Forse perché sto finalmente iniziando ad usare un po’ più i social (che io di mio odio, non sopporto): a furia di postare una cosa di qua, un video di là, la gente si accorge che non sei più quello di prima. Sicuramente, io mi sento molto più sereno così, che non a dover fingere di essere qualcosa che non sono o non sono più solo per rincorrere il successo. Che poi: che cazzo è il successo?
Volendo, quello l’hai pure già avuto.
E pure grosso. E? In cosa è migliorata la mia vita? Cosa mi ha lasciato? Mi ha lasciato che mi toccava cambiare il numero di telefono, perché quando hai successo la gente ti si attacca addosso e ti rompe i coglioni per la qualsiasi, pur di avere un contatto con te. E intendo con te come persona, nemmeno con te come artista. Quello che fai come artista scivola in secondo piano. Questa cosa ti fa impazzire, se sei uno che ha iniziato a fare musica con passione ed essenzialmente continui a farlo col cuore: “Cazzo, conoscimi ed apprezzami per quello che faccio, non per i tot mila like su MySpace o su Facebook”. Oggi, oh, quando vai in giro becchi le ragazzine – spesso accompagnate dai padri – che quando si presentano ti dicono subito “Ah, dammi il tuo Facebook, che ti aggiungo” e subito dopo “Ma sei uno famoso! Hai centomila like!”, al che la mia risposta è immancabilmente “Me li sono comprati, lascia stare”. Io sono fuori da questo gioco qui, il gioco del successo, il gioco della celebrità. Ed è un’ottima cosa. Aiuta a spostare l’attenzione su quello che sto facendo come musica.
In effetti la percezione attorno a te come producer sta cambiando. Però ecco, forse sei ancora in mezzo al guado.
Ci sarà da lavorare tanto.
Già. E vedo che ne sei consapevole.
Boh, sì. Ma non sarà peggio che in alcuni momenti passati… Ecco, era molto peggio subito dopo il successo di “Day ‘n’ Night”: andavi a suonare in un festival, ti impuntavi a voler suonare come se fossi in camera tua – che è una vera stronzata, ma lì torniamo al discorso che quando sei stanco diventi scoglionato e ti metti a ragionare o sragionare in un certo modo – e facevi un set che… Guarda, mi ricordo che un giorno Sandra, la mia donna, è arrivata da me e mi ha detto “Tu sei pazzo, fai stare la gente ferma inchiodata per un’ora per poi mettergli giusto alla fine ‘Day ‘n’ Night’ per farli saltare… Ma perché? Che senso ha?”.
Cosa suonavi, per far stare la gente ferma inchiodata?
Roba spezzata, un cassa di qui, una di là… i BPM erano quelli giusti, erano da ballo, ma le strutture erano abbastanza assurde. Roba da ballo strana.
Tipo la footwork oggi.
E infatti sono arrivato a mettere pure quella.
Sconvolgendo il tuo pubblico.
Sì, perché non aveva mai sentito una cosa del genere. Agli inizi era così. Poi c’è stata un po’ più di attenzione su quella roba lì, ma vedi, anche su questo… Certa gente pare che debba essere sempre in qulche modo “instradata”, ha bisogno che gli venga detto “Questa roba è figa, è fatto così, si balla cosà, rappresenta questo, significa quello”…
…”Se la ascolti e la balli sei un figo sincronizzato sulle meglio tendenze intelligenti”…
Esatto. Ma questo è il modo migliore per mettersi un muro davanti. Tanto vale che stai tutto il giorno chiuso in casa a guardarti la Boiler Room.
E non si è ancora capito se fa figo o meno ascoltarti e andare a un tuo set, nel 2017. Se ti rende un clubber “intelligente”.
Ah, di sicuro. Ma a tutti posso dire che l’estate scorsa ero in Croazia, al festival della Defected. Avevo lo slot di chiusura, after party dell’ultimo giorno, c’era solo un altro dj dopo di me. Beh, stavo suonando, quando arriva Sandra accanto e mi dice in un orecchio “Fra, guarda che qua accanto ad ascoltarti ci sta Kenny Dope…”: ovviamente mi cago immediatamente addosso. Che poi sono un idiota: erano due giorni che ci incrociavamo sempre, avevamo suonato negli stessi posti, preso gli stessi voli, ma figurati se ho avuto il coraggio di dirgli qualcosa. Lui è un grande. Uno che ancora oggi prende i 45 giri e ci fa cutting sopra. Uno che ha creato Masters At Work – che quando ho iniziato io, se il dj non metteva in serata almeno un paio di produzioni Masters At Work era normale cacciarlo via dandogli del totale incapace. Cioè, capiamoci.
E insomma, com’è andata?
Beh, era la prima volta che quelli di Defected mi sentivano suonare dal vivo come dj. Secondo me erano ancora un po’ dubbiosi, pur avendomi chiamato loro a suonare: “Sì, questo ha azzeccato un paio di produzioni per noi, bene, bello, ma a suonare come sarà? No, perché è pur sempre quello di ‘Day ‘n’ Night’, il rischio è che sia un gran commercialone, boh, speriamo bene…”. I sorrisi appena finito il mio set mi hanno fatto capire che sì, era andato tutto bene, avevo spazzato via tutti i loro eventuali dubbi. Insomma: relax, pacche sulle spalle, sorrisi. Solo che ad un certo punto Kenny Dope mi guarda e, serissimo, mi fa il gesto come a dire “Vieni qui”. Arrivo. “Ciao. Sono Kenny. Suoni bene. Dammi il tuo numero. Domani ci sentiamo”. Il giorno dopo mi ha chiamato veramente e ci siamo messi a parlare di musica per un bel po’. Lì ho avuto l’ennesima conferma che quelli veramente fighi non ti giudicano per il tuo passato, per quello che puoi avere o non aver fatto, ma ti giudicano per quello che fai. “Hai fatto cacare, in passato? Bene, non c’è problema. Hai fatto bene, ma la roba che suonavi mi faceva comunque cacare? Vabbé, chi se ne importa. La cosa importante è che quello che fai ora mi piace”. Insomma, tornando a quello che mi chiedevi prima: sono ancora metà del guado? Boh, fosse anche così non mi fa paura. Ho fiducia in me. Non sono magari il “Ehi ciao, guardarmi, SPACCO TUTTO”, ma ho comunque fiducia in me. Anche perché se ripenso alla prima volta che ho svoltato e mi è caduto addosso il successo, beh, prima avevo passato comunque anni a prendermi gran porte in faccia. Ero in una situazione molto peggiore di adesso, capisci? Eppure comunque me la sono cavata. Quindi oggi sono molto tranquillo: se me la sono cavata allora… Ho fatto una scelta adesso, una scelta che implica un’evoluzione, un cambiamento: bene, la porto avanti. Semplice così. Figurati che ho anche scelto di chiudere ogni rapporto con i miei vecchi agenti…
Ah sì?
Già. Perché sono troppo diversi da quello che io suono adesso. E’ come se fossi tornato vergine, ripartendo da zero, e sto da dio. Ho chiuso i rapporti spiegando “Non credo tu possa dare in questo momento nulla di positivo e propositivo al mio lavoro. Se andiamo avanti, facciamo solo le grattate, raschiamo il fondo del barile di quello che funzionava un tempo. Visto che ora sono pure in una fase in cui voglio cambiare, fare le grattate non mi pare proprio il caso. Né per me né per te”. Me ne sto in studio per un po’, lavoro sul mio suono: questo è quello che voglio fare adesso. Ah, e occhio, non sono una donna-merda: non è che lascio te perché in realtà ho già trovato un altro agente con cui stare, no, il discorso è ben diverso. Mi sono fermato per un po’, ho iniziato a passare molto più tempo in studio e se viaggiavo lo facevo non per lavoro ma per vedere posti; in più, finalmente ho fatto delle cose che avrei dovuto fare ancora agli inizi dell’avventura Crookers – strutturare bene il publishing, prendere in mano alcune questioni amministrative. Insomma, a novembre ho troncato tutti i rapporti lavorativi che avevo prima, con gli agenti.
Però passato questo periodo sabbatico, ne metterai su di nuovi di rapporti.
Con le agenzie, sì. Ho un assistente; ho Sandra, che è più di un assistente; ho un’altra persone che cura la parte amministrativa; però su tutta una serie di questioni, non posso rispondere io. Non è fattibile. Sarebbe troppo. L’altro giorno ho avuto la malsana idea di lanciare un video su Instagram Stories: “Se siete di Milano e siete svegli, io avrei bisogno di un assistente di studio: qualcuno si candida?” – mi hanno risposto in settanta! Mi sono messo in testa di rispondere a tutti, già questo è diventato un lavoro infinito.
Eh. Pensa poi quando arrivano le offerte per andare a suonare: lì davvero può diventare un mondo ultracolorato e pieno di assurdità…
Eccome. Come nel caso delle offerte per fare remix. Tempo fa, mi arriva l’offerta per fare il remix di un classicone. Bene dai, l’idea di mettere le mani su quel brano lì sicuramente mi intrigava. Incomincio a fare le domande del caso: qual è la deadline, serve un full vocal o c’è più libertà… Fino a quando chiedo: ok, e qual è il budget? Risposta (giuro): “Cosa intendi per budget?”. Ha vinto. Penso che ci farò una maglietta, con questa risposta.
Che poi oh, ora che stai in Italia di più e stai più in studio sei pronto per farti cooptare dal mondo del pop.
Già successo. Già ci lavoro. Ma con un altro nome. Che non ti dico.
E com’è?
Mmmmmh…
Diventa un lavoro un po’ più impiegatizio e meno artistico?
Ma no. Come lo faccio io, è divertente. In genere, se propongo una decina di cose me ne prendono al massimo due: perché cerco sempre di mettere quel “elemento in più”, che serva a ricordare che il pop non è necessariamente merda preconfezionata. Cioè, è anche quella, ok, ma non è solo quella. Perché non provare a prendersi qualche rischio? Cosa costa, provare? Comunque per me è una bella esperienza, perché in ogni caso cerco di prendere molto, di imparare. Io, in quel contesto lì, sono un buzzurro. Anche perché non so suonare bene uno strumento. Posso andare da uno strumentista, dirgli “Fai così e così, mi piacerebbe che venisse fuori in questo e quel modo”, quello sì, se lo strumentista è bravo. E funziona. Il pop fatto bene, musicalmente parlando, con delle roba magari un po’ stramba dentro, può esistere. Eccome. Però quello che si deve capire è che il lato peggiore del pop è che un artista ottiene successo nel mondo del pop non tanto per la musica, che è solo un elemento fra tanti, ma per tutto quello che gli si costruisce attorno. Però ecco, io cerco di divertirmi. Non voglio fare, attenzione!, il ghost producer. Non adesso, almeno. Magari lo farò in futuro: mollo tutto, mi apro uno studio a Termoli vista mare, mi prendo tot committenze al mese, me la godo… Ma non mi sento ancora pronto per questo approccio. Un approccio peraltro che ho già sperimentato in America, ahimé.
Ahimé…?
Eh sì. Perché ho visto cose che non avrei voluto vedere.
Hai visto i topi di batteria chiusi in uno studio per sfornare basi per le stelle del pop.
Esatto. Non solo li ho visti: ero uno di quelli. Un topo di lusso, perché eravamo in uno studio di registrazione fantastico.
Per chi hai lavorato?
Roc Nation. Ovvero Rihanna, Beyoncé, M.I.A., Santigold, Kylie Minogue: questa gente qui.
Com’è stata l’esperienza?
Bella. E’ come quando vai per la prima volta in palestra: all’inizio sei un po’ timido, hai paura di fare brutte figure, di tirare una gran scoreggia mentre sollevi il peso sulla panca; poi però termina la giornata, ti sei accorto di non aver fatto brutte figure e scambi dei gran cinque con tutti. La prima volta però ho fatto un gran errore. Sono atterrato in aeroporto, a Los Angeles, e per andare in giro ho noleggiato una Yaris…
…che in America equivale praticamente all’andare in giro in triciclo.
Forse nemmeno. Gli altri, arrivavano in Porsche; io, in Yaris. Non solo: ero in ciabatte, pantaloncini, cannottiera, con dietro una felpa perché sai, metti mai che l’aria condizionata… Comunque eccomi qui: pronto per spaccare il mondo! Arrivo, e la receptionist – perché lo studio essendo lussuosissimo aveva comunque una reception coi controcazzi – mi guarda davvero con disgusto. “Salve, sono Francesco Barbaglia, devo fare la prossima sessione in studio”. Mi fanno entrare, mi accompagnano, entro in una sala dove oltre a me c’erano due ragazzi asiatici: Rolex in bella vista, vestiti super da migliaia di dollari addosso. Non mi cagano nemmeno, praticamente. Oh, è la gente che fa i top liner per i pezzi di Rihanna, roba che quando ti va male dalla Siae americana ti arrivano bonifici a colpi di mezzo milione di dollari. Ognuno di loro è un’azienda. Che poi però quando li conosci meglio impari a rispettarli tantissimo: perché sì, fanno una barca di soldi, ma si fanno un culo allucinante perché si devono sopportare tutte le paranoie delle star… Star che alla fine sembrano quasi dei robot, anzi, per certi versi lo sono. Programmati per cantare, e per il successo.
Quanta musica viene sprecata, in queste sessioni produttive?
Tantissima. Io, nel primo weekend, in tre giorni ho prodotto sette cose. Usate? Mezza. Ad ogni modo, torniamo a noi: entro, non mi cagano. Dopo un po’ capisco l’antifona. “Raga, io lascio qua il beat, voi scriveteci pure sopra, io torno subito”. Faccio una volata a casa. Mi vesto. Mi infighetto, vuole il caso che quello era il periodo in cui avevo preso a comprare tutta una serie di cose street ma lussuosissime, Givenchy, eccetera, quindi casualmente ero pure fornito. Torno vestito in ben altro modo. Il loro atteggiamento improvvisamente cambia. “Vedi, questa è una maglietta di un designer italiano, Marcelo Burlon…”, ecco, lì iniziano ad accettarti, a prenderti sul serio. Devi fare così. Non c’è alternativa. E questa cosa dell’America devo dire che mi ha rotto le palle fin da subito.
Insomma, questa esperienza americana non credi di rifarla…
Mi capiterà di sicuro di rifarla, invece. Ma lo farò con cuore molto più leggero e con molta più consapevolezza. Tra una cosa e l’altra, tra una sessione e l’altra, mi sono fatto quasi un anno con loro. Sono felice di averlo fatto, eh. Sono grato. Ho imparato tantissimo. Però ho visto anche il lato che non mi piace della faccenda. Non mi piace un mondo dove, per far funzionare le cose, devi regalare una Lamborghini (l’ho visto succedere coi miei occhi, eravamo ad un pranzo, “Esci fuori, c’è parcheggiato un regaluccio per te”, solo perché bisognava far scorrere certi meccanismi…). C’è gente che adora vivere in questi contesti, dove effettivamente si “fanno succedere” le cose; darebbe tutto per starci. Sì, bello arrivare ad entrare nei meccanismi del pop al più alto livello… ma voglio entrarci come e quando dico io, coi miei modi, coi miei tempi. Anche perché ho notato che se ad un certo punto ti fai desiderare, e loro hanno bisogno di te, improvvisamente saranno loro a cercarti. C’è un punto fondamentale da sottolineare, tuttavia, e ha a che fare proprio con l’America: se non dimostri di voler diventare americano, è difficile che funzioni proprio bene. Il problema non è essere italiano o di qualsiasi altra nazione, quello non è un fattore – basta che arrivi in America e dimostri di volerci stare, ed è tutto ok. Fai ruotare l’economia: di quello che guadagni il 10% va al business manager, il 10% all’avvocato, il 20% al management, e sono tutti americani… Però devono essere accordi non di sei mesi, ma di anni. Io invece ho subito messo in chiaro: massimo cinque mesi, chiaro? Poi me ne torno in Italia. Anche per motivi fiscali, eh, perché se stai per più di sei mesi poi mamma America inizia a chiederti le tasse anche per quello che guadagni in Europa… Comunque, ci siamo guardati io e la mia donna e ci siamo detti: no. In America, no. Anche se amo il rap. Anche se amo quell’attitudine lì. Però, se sei italiano ed europeo, ci sono troppe cose che non ti tornano. In America, sei soldi; lo sei magari anche in Europa, ma solo in determinati contesti – tipo che so, quando devi prendere un fido in banca – dove è quasi giusto che tu lo sia. In America invece lo sei sempre. C’è molta meno umanità. Ce n’è molto poca. Gli manca quella roba lì. No, non fa per me.